giovedì 23 dicembre 2021

RACCONTI – Rimorso al futuro

Ce l’ho fatta! Incredibile, ma ci sono riuscito. Ora sono nel bagno di questo locale dove suonano musica hard rock dal vivo. Che bei ricordi. Ci sono arrivato nel momento esatto. Che memoria. Sono infatti davanti a un ragazzo di ventisei anni, tre mesi e dodici giorni.
— Non lo fare! — gli dico — Non bere quella birra che ti sta aspettando al tavolo con gli amici. Stasera ti fermerà la polizia e ti toglierà la patente.
— Che cazzo vuoi? È solo la seconda birra. Non sono mica così scemo da guidare ubriaco.
— Lo so, ma basta per l’etilometro.
— Ma smettila. E poi chi cazzo sei tu per dirmelo? Ma vattene a fanculo!
Niente. Non ha capito chi ero e non mi ha ascoltato. Se ne va. Devo andare via anch’io. Chiudo gli occhi, mi concentro, appoggio l’indice della mano destra sulla tempia destra e l’indice della mano sinistra sulla tempia sinistra. Passano un paio di secondi e sparisco nel nulla tra lo stupore di un signore in piedi davanti all’orinatoio che per cercare di capire cosa sia successo si è pisciato sui pantaloni.
Chi era quel ragazzo con cui parlavo? Ma come chi? Ero sempre io. Non si vedeva la somiglianza? Va bene, ora ho qualche ruga e qualche capello bianco in più ma sono sempre io. Credevo che fosse più facile… ahhhh! Urlo dal dolore ma ricompaio esattamente dove volevo: qualche anno prima. Sono in macchina. Sono sul sedile posteriore della mia* (*di mia madre) Fiat Uno.
— Bacia quella ragazza stasera! Lei ci sta.
Il mio me stesso diciannovenne, sette mesi e ventun giorni per poco non sbanda con l’auto quando si accorge che ci sono anch’io.
— Ancora tu, ma si può sapere che cazzo vuoi? Mi hai fatto venire un colpo.
— Sì, sempre io. Ti ho detto: bacia quella ragazza stasera.
— Ma non saremo soli, ci sono altri compagni di classe.
— Lo so, ma alla fine rimarrete solo tu e lei… e ci sarà un motivo, vero?
— Mah… non so.
— Il motivo è che lei ci sta! Credimi.
Lui esita.
— Devo andare ora, fai come ti dico. Non fare il coglione come al solito!
— Oh coglione sarai tu! Ah, e la prossima volta avverti prima di arrivare così all’improvviso… hey, ma dove sei sparito?
Il mio me stesso da giovane ha fermato l’auto per cercarmi, ma ovviamente non mi troverà. Io sono già da un’altra parte. Ricompaio, infatti, davanti a me stesso a ventiquattro anni, undici mesi e due giorni. Appena mi vede sbuffa.
— Coglione, quella ragazza di sei anni fa mi ha dato un ceffone quando ho provato a baciarla!
— Hm… scusa. Mi sbagliavo: non ci stava. Errore mio.
— Cazzo vuoi ora?
— Ho solo cinque minuti, poi sparisco.
— Lo so… allora?
— La vedi quella ragazza là in fondo che ti aspetta? Non la baciare.
— Ma è il mio appuntamento di stasera. Ci sto provando da mesi e ora finalmente ha deciso di uscire con me e ora tu mi…
— Ti ho detto di non baciarla. Ti si attacca come una cozza e non te la togli più di dosso.
— Hm. E prima bacia quella… poi non baciare questa. Oh senti Coso, lasciami in pace.
— Ma no, fidati.
Mi spinge via e va verso la ragazza. Con gli occhi pieni di libidine andrà sicuramente a baciarla. Sbaglia. Di brutto. Se ne pentirà… me ne pentirò. Devo fare meglio di così. Se voglio salvare la mia vita, devo fare meglio. Mi nascondo in un vicolo, chiudo gli occhi, mi concentro, dita sulle tempie e… via!
Sono all’uscita di un liceo scientifico. Il mio liceo scientifico. Eccomi là a diciotto anni, cinque mesi e sedici giorni. Fermo subito me stesso mentre passeggio da solo verso la fermata della corriera.
— Ti posso rubare un minuto?
— Hm… che cosa vuoi? Non compro niente… non voglio fumo. Aspetta, io e te ci siamo già visti prima?
— Non credo. Senti. Tu vorresti studiare psicologia, vero?
— Hm… sì — lui è stupito, lo capisco —Come fai a saperlo?
Come faccio a saperlo? Lo so perché lo sai tu. Troppo complicato da spiegare e non ho tempo per farlo. Quindi mi invento una scusa.
— Te ne ho sentito parlare con quella tua compagnia di classe là giù. Beh, ti posso dare un consiglio? Studia altro. Non andare all’università per fare psicologia. Non in Italia almeno. È una passione, lo so, ma farai una fatica matta a trovare lavoro. Ti dovrai sobbarcare i mille problemi degli altri e non avrai tempo di sistemare i tuoi. Sarai sempre al limite dell’esaurimento emotivo e molto spesso i pazienti non ti ringrazieranno neanche. Vero, ogni tanto sarà gratificante aver aiutato gli altri, ma chiediti se ne vale davvero la pena. — non lo lascio rispondere — Studia informatica… è il futuro. Studia economia… avrai il posto di lavoro assicurato. Studia… (Dio perdonami per quello che sto per dire) ingegneria. Studia…
— Ma io faccio schifo in matematica.
— Hm… hai ragione. Lascia stare le ultime due! Studia architettura… l’unica sufficienza che hai è in disegno tecnico e storia dell’arte.
— Beh, anche filosofia e storia…
Lo prendo per le spalle e lo scuoto.
— Filosofia e storia? Filosofia e storia? Ma senti quello che stai dicendo? Quelle materie ti porteranno alla rovina.
— Mi piace anche scrivere!
— Faccio finta di non aver sentito… tu sei un pazzo!
Sono un pazzo. Il me stesso mi rifila una bella spinta e si allontana a passo spedito. Ha ragione. Così sto sbagliando di brutto. Se voglio evitare una vita piena di dubbi e indecisioni, devo agire in modo diverso. Non faccio in tempo a piangermi addosso che il dolore alle tempie aumenta. Mi concentro e riesco a comandarlo.
Sono ancora davanti allo stesso liceo. Non mi sono spostato di tanto. Fisicamente no, ma temporalmente sì. Mi sono appena visto all’età di quattordici anni, sette mesi e cinque giorni entrare dall’ingresso principale. Devo raggiungermi al più presto. Sono le sette e quarantacinque del mattino. Tra poco inizieranno le lezioni. C’è un sacco di gente e lui, cioè io, si è appena fermato a controllare in quale classe dovrà andare oggi. Mi faccio largo tra la folla e lo fermo. Quello davanti a me è solo un ragazzetto sbarbato, insicuro, sensibile e un po’ sfigato con quegli occhiali dalle lenti spesse quanto il fondo di una bottiglia e i primi brufoli che gli falcidieranno la faccia per i prossimi sette o otto anni.
— Scusami Roberto* (*nome di fantasia) — lui è stupito di vedermi, crederà che sia il genitore di qualche altro studente — Volevo dirti che…
Che cosa gli posso dire? Mah, di osare a essere sé stesso? Di andare avanti per la propria strada nonostante le difficoltà? Sì, potrei, ma sarebbero solo frasi fatte. Che cosa me ne sarei fatto di essere me stesso se all’epoca non sapevo chi ero veramente (come se lo sapessi ora…)? Che cosa ne avrei concluso seguendo la mia strada se mi sentivo perso? Forse non gli direi niente di tutto questo, ma gli darei una pacca sulle spalle e gli direi che io ci sarò sempre per lui, più di quanto lui creda. Poi gli direi anche di lanciarsi, di lasciarsi andare, di perdere il controllo ogni tanto, di provarci sempre, di seguire l’istinto quando sembra la scelta giusta ma hai lo stesso il mal di pancia per la paura. Gli direi che spesso sbaglierà, ma che fa parte del gioco. E allora gioca, ragazzo!
Il mio me stesso adolescente raddrizza la schiena e guarda fiero in avanti. Vedendolo così sicuro di sé stesso, una ragazza gli sorride e si avvicina a lui per parlargli. Beh dai, incredibile: sono riuscito a fare del bene. Oddio, aspetta un secondo: quella è la ragazza più bella della scuola, il sogno bagnato di ogni adolescente, la top model del liceo, il visino e corpicino migliori degli anni ’90 (lei però non sa che ora è ingrassata di trenta chili e ha la faccia butterata… l’ho incontrata ieri al supermercato). Tutto questo è un sogno che si sta realizzando. Sento le campane a festa nella mia testa. No, non sono capane. È un ronzio fastidioso. È un suono ripetitivo che mi penetra le tempie. Il suono è ritmico e non accenna a smettere. Non riesco a fare niente. Alla fine sento dei colpi ben assestati sulle gambe. Mi fanno male. Finalmente ho capito cosa sta succedendo. Questo non è un sogno. Non è mai andata così. Quello che vedo non è mai successo.
Apro gli occhi, anche se erano già aperti e fissi verso un punto vuoto. È il 20 dicembre del 2021. Sono di nuovo nel presente. Stavo solo rimuginando sul passato. L’ho fatto un’altra volta. Ci sono ricascato. Devo smetterla. Sono appena tornato in bicicletta dal mio lavoro come psicologo. Sono nel salotto di casa mia. Mio figlio mi strattona i pantaloni mentre sbatte ripetutamente un oggetto contro il mobile. Gli sorrido. Guardo più in là e c’è mia moglie che gioca con i lego assieme all’altro mio figlio. Siamo felici. Questo mi basta. Se le scelte che ho fatto mi hanno portato a questo punto non c’è niente da cambiare. Niente rimpianti o rimorsi.
Mio figlio mi colpisce ancora con qualcosa sulle gambe. Io mi giro di scatto e urto leggermente il mobile con lo smartphone che ho appena comprato. Solo in quel momento mi accorgo che l’oggetto che tiene in mano è un Nokia 3310. Ancora integro e intatto dopo tutti questi anni. Sullo schermo del mio nuovo smartphone invece si è appena formata una crepa.
Beh, forse qualche rimpianto dei tempi passati ce l’abbiamo.

giovedì 16 dicembre 2021

RACCONTI – Scendere giù

Una volta…
— Scendi in Italia per Natale?
— Sì, certo.
— Beata te. Io resto in Svezia. C’ho il trasloco.
— Mi spiace… ma sai che faccio io? Appena atterro mi sparo subito un bell’espresso come si deve. Anche il bar dell’aeroporto è meglio dell’Espresso House a Stoccolma.
— Lo so. Non farmici pensare.
— Arrivata a casa vado da nonna Rosa che mi ha preparato un piatto di bucatini all’amatriciana. Oh, col guanciale, mica con la pancetta come si fa qua.
— Che invidia!
— Nel pomeriggio faccio un giro in centro e mi ubriaco di spritz a un euro a cinquanta l’uno. In Svezia ci compri l’aranciata con gli stessi soldi.
— Maledetta!
— La sera m’ingolfo di pizze al taglio, tramezzini, piadine, arancini e focacce fino a scoppiare.
— Mi vengono le lacrime.
— Poi incontro tutti i miei vecchi amici al bar. Baci, abbracci e tanti ricordi. Quanto mi mancano.
— Smettila ti prego.
— E questo sarà solo il primo giorno. Starò giù una settimana.
— C’è uno spazietto per me in valigia?


Oggi…
— Scendi in Italia per Natale?
— Sì, certo.
— Beata te. Io resto in Svezia. C’ho il trasloco.
— Mi spiace… ma sai che faccio io? Appena atterro mi sparo subito una bella mascherina FFP3 e passa la paura. In aereo mi facevano mettere solo la FFP2, pensa te.
— Lo so. Non farmici pensare.
— Arrivata a casa mi faccio almeno una settimana di isolamento, altrimenti col cazzo che posso andare a trovare nonna Rosa che è stanca da post Covid e ha a malapena la forza di preparami una minestrina sciocca.
— Che invidia!
— Nel pomeriggio del primo giorno di libertà vado a farmi la terza dose. Ho appena compiuto quarant’anni… oh, servirà a qualcosa essere vecchi, no?
— Maledetta!
— La sera vado al ristorante col mio green pass così mi posso sedere. Se me lo dimentico posso andare ad accalcarmi in un bar stando in piedi al bancone.
— Mi vengono le lacrime.
— Poi incontro tutti i miei vicini di casa. Ci parliamo da terrazzo a terrazzo. I miei vecchi amici vivono in una regione limitrofa che ora è zona rossa e quindi sono chiusi in casa. Non li potrò vedere.
— Smettila ti prego.
— E questo sarà solo la prima settimana. Cioè, l’unica settimana.
— C’è uno spazietto per me in valigia?

giovedì 9 dicembre 2021

RACCONTI – La firma

Sono comodamente seduto sulla sedia della cucina di casa mia. Oddio, non proprio comodo, comodo, a dire il vero. La sedia è confortevole e la seduta soffice, ma è più la parte psicologica che mi preoccupa al momento. Davanti a me sul tavolo ci sono un po’ di fogli e una penna.
Non sarebbe niente di grave se non riguardasse un mutuo per la casa. Al pensiero che mancano “solo” 40 anni per estinguerlo mi fa star male. Cerco di deglutire ma non ce la faccio perché le mie ghiandole salivari sono più aride del cuore di un miliardario. Assieme a mia moglie comincio a leggere attentamente le condizioni, i tassi d’interesse, le clausole. La tensione mi gioca un brutto scherzo e all’improvviso la carta mi sembra papiro e lo svedese geroglifico antico.
Finisco la pagina ed è il momento di firmare. M’immagino Satana al mio fianco che invece della penna mi porge una lametta. La prendo, mi faccio un piccolo taglio sul polso e uso il sangue per firmare. Con il mio scarabocchio a fine pagine questa agonia dovrebbe essere terminata ma c’è un'altra pagina da leggere e firmare. Sento delle risate in lontananza. Non ci faccio caso. Prendo un altro po’ di sangue dal polso e firmo. È finita!
No, c’è un’altra pagina che mi attende. Ormai firmo in automatico. Potrei avere sotto il naso i Panama Papers senza accorgermene ed essere appena diventato firmatario di una ditta di smaltimento rifiuti per il riciclaggio di denaro sporco. Alle orecchie mi giungono chiaramente voci di disperati che m’intimano di andarmene. Eppure nella stanza ci siamo solo io e mia moglie. I bambini sono a letto. Non capisco. Che siano le voci degli svedesi che mi invitano a partire per le Canarie in inverno?
Scuoto la testa e giro la pagina successiva. Sì, perché le pagine non sono ancora finite. A ogni nuovo foglio da sottoscrivere sento sempre più caldo. Mi chiedo se i miei figli abbiano acceso il forno per gioco come fanno di solito. Controllo ossessivamente circa una cinquantina di volte, ma la manopola del forno è sempre sullo zero.
Firmando col sangue pagina dopo pagina mi sto dissanguando. Manca poco alla fine della pila di scartoffie che mi ritrovo sul tavolo, ma io continuo a sudare. La pressione si abbassa, la vista si appanna e io comincio ad avere le visioni. Ora davanti a me vedo un dottore. Sono finito in ospedale? No, non è un dottore qualsiasi questo è un dottore del XVI secolo. Brutto segno: devo aver perso tanto sangue. Il medico ha un abito lungo e nero, un colletto pieghettato bianco, un cappello in testa e parla tedesco. Madonna, sto proprio male! Cerco di ancorarmi alla sedia ma ormai ho perso il contatto con la realtà. Con un ghigno sulle labbra il dottore mi dice “Willkommen im Klub”. Rimango interdetto per qualche secondo. Poi la visione scompare. Ritorno alla realtà. Guardo i polsi: sono sani. Mi guardo in giro: non c’è traccia di sangue. Sono sudatissimo e mia moglie è preoccupata. La rassicuro che ho solo bisogno di un bicchiere di acqua.
Mi alzo a fatica. Vado verso il lavello. Bevo e finalmente capisco.
Quello della visione non era un medico in famiglia di una fiction Rai ma era il Dottor Faust.

venerdì 3 dicembre 2021

RACCONTI – Il servizio

Mi fanno schifo. È scritto in grande sulla lavagna.
— Ripetete insieme a me.
— Mi fanno schifo!
Non li vogliamo. È la frase successiva.
— Su, forza, tutti assieme.
— Non li vogliamo!
Mandiamoli via. L’oratore della lezione odierna indica con una bacchetta la terza frase. Non ha bisogno di esortare il pubblico.
— Mandiamoli via!
Annuisce soddisfatto. Non è un maestro e il pubblico non è fatto di una scolaresca. Non è neanche un leader politico dall’ego ipertrofico di un qualsiasi partito xenofobo che sputacchia saliva e sentenze ogni cinque parole. L’oratore è un guru di un seminario formativo in Svezia. Cammina sul palco con una sicurezza disarmante e assorbe senza battere ciglio sia l’energia delle migliaia di persone presenti nell’anfiteatro sia quella del faro occhio di bue puntato su di lui.
— Molto bene! Noi i clienti non li vogliamo. Ora che questo concetto è chiaro per tutti possiamo andare avanti. Ci sono delle domande?
Si gira a braccia aperte verso il pubblico mostrando chiaramente la scritta “Il cliente ha sempre torto” stampata sulla maglietta nera a collo alto.
— Prima di tutto volevo ringraziarla per le sue parole. Sono di vera ispirazione per tutti noi che facciamo questo lavoro! Grazie mille! Poi volevo chiederle, ma se un cliente mi chiede un bicchiere di vino rosso?
— Tu portane uno di succo di mirtilli.
Il cameriere prende febbrilmente appunti, mentre una ragazza di un call center chiede.
— Se si lamentano che la tariffa telefonica è aumentata?
— Voi ricordate loro che la concorrenza fa prezzi molto più vantaggiosi e suggerite di cambiare. Se sei in difficoltà, fai cadere sbadatamente la linea, ops! Bene… il prossimo là in fondo.
— Scenario ipotetico: mancano dieci minuti alla chiusura del negozio, un ragazzo sta per entrare con passo spedito dicendo che ci metterà un secondo perché sa già cosa comprare. Che faccio?
— Devi essere nuovo come buttafuori, vero? Non ti preoccupare. Siamo qui per imparare. Allora, tu fermi subito il soggetto pericoloso e lo tieni fuori dal negozio… anche se insiste! Il Signore ti ha dato tutta quella montagna di muscoli? E allora usala, perdìo!
Una giovane donna alza timidamente la mano.
— Spesso i clienti stranieri del mio ristorante si lamentano per la tavola non apparecchiata e per i ritardi nella consegna dei piatti. Come posso affrontarli?
— Bella domanda. Sono contento che tu me l’abbia posta. Allora amici ristoratori. Ci pensate voi a ricordare le cinque regole d’oro alla vostra collega?
Un coro di cuochi, camerieri e capi sala riecheggia in tutto l’auditorium.
— 1) Cerca sempre di non rispondere. 2) Se proprio devi farlo, scegli la risposta più sgarbata. 3) Le posate se le prendono da soli. 4) Lancia i piatti sul tavolo come in un saloon del Far West. 5) E soprattutto mai, ma proprio mai sorridere.
— Bravi! Vi meritate un applauso.
Il pubblico esegue.
— Sapete cosa vi dico? Che vi meritate di più. Per voi… per tutti voi ci vuole un premio!
Il pubblico si esalta ed esulta a ogni frase del guru.
— Sì, quest’anno vi siete superati! Siete i più forti. Siete i migliori. E i migliori si meritano una ricompensa. Prima di andare a casa passate dal nostro stand e ritirate lo zerbino “Mal-venuti”, la targhetta “Mi casa es mi casa” oppure il set di sottobicchieri con la scritta “Vattene a fanculo” che compare solo quando il cliente ha già pagato.
Grida di giubilo accolgono le parole del guru. Un commesso di un negozio di elettronica elude la sicurezza e si fionda sul palco per abbracciare il grande oratore. Il momento di tensione viene subito stemperato dal gesto umano del guru che ricambia l'abbraccio dell’invasore di palco e lo riaccompagna tra la folla. Il guru lascia il palco tra gli applausi scroscianti del pubblico. Mentre esce stringe mani e batte il cinque a chiunque riesca a sporgersi in avanti verso il proprio idolo.
 
Mentre in lontananza si sentono ancora i piedi battuti a tempo sugli spalti, le urla forsennate da psicosi collettiva e i cori d’incitamento da stadio ora voglio rivolgermi a te che stai leggendo in questo momento. A te che sei stato rimbalzato come un palloncino a elio da un buttafuori svedese. A te che sei rimasto invisibile agli occhi del cameriere di un bar di Stoccolma mentre cercavi ripetutamente di ordinare. A te che sei stato schifato, escluso, minimizzato, isolato. A te che ti chiedi perché. Sì, proprio a te. Ricorda che non sei solo. Ricorda che diventa tutto più semplice, più facile da digerire, più facile da accettare se provi a immaginare tutto questo: la conferenza annuale del servizio clienti in Svezia.

mercoledì 24 novembre 2021

KISSENEFREGA – La scoperta

Svezia. Stoccolma. Anno Domini 2013. Ore 16.29.
Il giovane ricercatore Roberto Riva dal laboratorio di psicologia sperimentale della professoressa Svensson nel prestigioso Karolinska Institutet fa una scoperta rivoluzionaria. Una scoperta che sconvolgerà la vita dell’uomo. Di un uomo, a essere precisi. Lui stesso.
In breve tempo il giovane ricercatore darà un nome a questa scoperta sensazionale: la spunticena. Non è uno spuntino. Non è una vera e propria cena. È più uno spuntino travestito da cena. Un lontano, lontanissimo, parente dell’apericena. Lo stesso grado di parentela e somiglianza che c’è tra il giovane ricercatore e Brad Pitt degli anni d’oro.
La spunticena è una pratica nordica che consiste in un invito a una cena di lavoro alle ore 16.30. È semplice quanto sconvolgente e si può descrivere in questo modo. Si prenota facilmente un ristorante aperto (quelli aperti ancora per pranzo non contano). Si finisce tutti di lavorare alle ore 16.00, anche 15.30 se necessario. Ci si trasferisce allegramente verso il ristorante. Si mangia, si beve, si chiacchiera di lavoro o di altro. Non necessariamente in questo ordine preciso e non contemporaneamente. Si beve di nuovo se l’alcol è pagato dal datore di lavoro. Si beve ancora a prescindere da chi lo paga. La pancia è piena, il cervello è sazio. Tutto bello. Poi si torna a casa… alle 18.00, massimo 18.30!
A casa, da spettatori, si fa compagnia al resto della famiglia che si ostina ad andare avanti con pratiche obsolete e prettamente sudeuropee come una cena a orario normale. Si sta con la famiglia o ci si fa i fatti propri per il resto della serata. Si beve un po’ d’acqua per reidratarsi dopo tutto l’alcol bevuto e si va a dormire non prima di essere passati dal gabinetto almeno un paio di volte. Ci si alza dopo cinque minuti per fare di nuovo la pipì e per il famoso spuntino di mezzanotte meno due ore. Una sorta di approvvigionamento in preda a una fame spudorata che si basa sull’ingurgitare qualsiasi cibaria si riesca a trovare nella dispensa di casa, peggio di una ricetta svuotafrigo di Giallo Zafferano. Questo è dunque il prezzo da pagare per aver scoperto la spumeggiante spunticena svedese.

E voi direte: e chi se ne frega della spunticena svedese? Beh, non prendetevela con me, non è colpa mia… io vi avevo avvisati: rileggete il titolo della rubrica, per piacere!

mercoledì 17 novembre 2021

RACCONTI – Il puzzle

Riverso il contenuto della scatola sul tavolo.
Ovviamente la maggioranza dei pezzi è girata al contrario. Mai che me ne vada bene una. Non importa, non mi perdo d’animo e giro pazientemente tutti i pezzi dal lato giusto.
Vediamo un po’… hm, questo è difficile. Per fare un buon puzzle si dovrebbe partire sempre dai bordi, ma il problema di questo disegno è che tutti i pezzi vorrebbero stare in mezzo. Come posso fare?
Intanto trovo subito un paio di pezzi che stanno bene vicini. Sono il lavoro e gli hobby. Ah, no. Mi sbagliavo. Non si attaccano. Dovrò trovare un altro posto per i passatempi. Però il lavoro sta sicuramente in centro. Questo è certo. Ma quanto è grande questo pezzo? Copre tutto. Va beh. Andiamo avanti e vicino al lavoro c’è il pezzo famiglia. Eh già: lavoro e famiglia devono stare in mezzo. E la salute dove la mettiamo? Anche quella in centro ovviamente.
Sposto questo pezzo qua. Metto quell’altro là. Ma perché il pezzo bambino non sta fermo un secondo? Ma… sono due pezzi bambino! Eh già. Ricordo ancora quanta fatica ho fatto a incastrare nel puzzle il primo. Poi ne è arrivato un altro e pensavo di impazzire, ma alla fine ce l’ho fatta. Pensavo di essere a posto, di averli piazzati, invece non stanno mai fermi, cambiano forma e posizione in continuazione e devo sempre trovare un nuovo modo di sistemarli. Difficilissimo. Soprattutto perché si portano sempre via il pezzo sonno. Lo nascondono sotto il loro cuscino e di notte devo andare a cercarlo. Che bei colori vivaci però. Che spensieratezza. Passerei ore a guardarli, ma c’è il resto da finire. Ecco fatto, ora ho sistemato i pezzi bambino vicino ai pezzi giocattoli e ai pezzi libri. Dovrebbero starsene lì per un paio d’ore.
Andiamo avanti. Cosa abbiamo qua? Il pezzo vita di coppia. Bello questo! Uno dei miei preferiti. Era coperto dal pezzo impegni. Ora lo prendo, ma… c’è un altro pezzo attaccato. Se voglio la vita di coppia mi devo prendere anche il pezzo baby sitter? Sì. Ed è pure un pezzo costoso. Quanto vorrei che ci fosse il pezzo nonni invece, ma il pezzo vita all’estero, quello che sta sempre vicino al pezzo senso di colpa e al pezzo senso di inadeguatezza per la lingua e la cultura straniera, li tiene spesso separati. La cosa peggiore è che ho messo io il pezzo vita all’estero nella scatola.
Nel puzzle non è l’unico pezzo lontano dagli altri. Guarda questo, per esempio, con tante bandiere, ricordi ed emozioni: il pezzo degli amici rimasti in Italia e di quelli sparsi per il mondo. Per questo sento sempre che dovrei trovarci un po’ di spazio ma a volte purtroppo non ce n’è. Magari ora lo metto un po’ in centro, tra il pezzo telefonata ai genitori e il pezzo viaggio in Italia, poi vediamo se lo devo spostare di nuovo.
Oh, qui c’è un pezzo tutto sudato, appiccicaticcio, mi scivola via dalle mani. Guarda che forma strana che ha: tutto storto, piegato in due, con la pancia. Poraccio, è proprio fuori forma. Dev’essere il pezzo esercizio fisico. Ogni tanto lo dimentico anche se dovrebbe andare in centro. Lì vicino al pezzo salute che ha un buco. Come un buco? Ah sì, mi manca il pezzo visita col dentista. L’ho perso sotto il divano sei mesi fa. Prima o poi lo ritrovo.
Ho bisogno di un pezzo pausa. Guardo in tasca e per fortuna trovo due pezzi jolly che piazzo subito vicino al pezzo salute mentale: il pezzo pizza e il pezzo torta! Per quelli troverò sempre un po’ di spazio.
Con la pancia piena è più facile lavorare. Ora però sono già le dieci di sera. E dove metto allora il pezzo leggere, il pezzo scrivere e il pezzo teatro? Il pezzo leggere lo metto vicino al pezzo viaggio al lavoro in metro. Il pezzo scrivere lo devo incastrare da qualche parte. Che sia un racconto, un capitolo del nuovo romanzo o un imbarazzante lavoro di autopromozione (cercando di sembrare meno patetico di quello che sono) ma un pezzo scrivere lo devo mettere sulla tavola. Devo. Altrimenti vado via di testa. Ah, mi manca il pezzo teatro. Per quello purtroppo ora non c’è spazio. Beh magari un angolino solo ci sta. Non è molto, ma mi dovrò accontentare per ora.
Bene. Ora ho finito. Ho messo tutti i pezzi al loro posto. Il puzzle è al completo. Che bel disegno. Quanti colori, ritratti, luoghi, sensazioni. Proprio bello. Mi è costato fatica e abilità da equilibrista per sistemarlo, ma ora è come lo volevo... più o meno.
Vado subito a mostrarlo con orgoglio a mia moglie e ai miei figli. Hm, e che cos’è questo pezzo per terra? Oh no, è il pezzo trasloco! Ora dovrò rifare tutto il puzzle della mia vita per farcelo stare.

giovedì 11 novembre 2021

RACCONTI – La guerra

Il grande capo Erik passeggia davanti alla sua schiera di guerrieri scelti. È alto, biondo e dagli occhi azzurri. Ha le spalle larghe e la barba folta. Cammina col petto all’infuori e in testa porta un elmo borchiato con due corni all’insù. È orgoglioso dei suoi uomini e donne forzute, puri e fieri vichinghi del Nord, tutti forgiati con lo stampino dal grande Odino a sua immagine e somiglianza.
— Questo è il nostro momento. Questo è il momento che stavamo aspettando. Ora tocca a noi!
La landa giace placida davanti agli occhi assetati di sangue di questi combattenti invincibili.
— Chi siamo noi?
— Svedesi!
— E che cosa vogliamo noi?
— La loro morte!
— Non ho sentito… che cosa vogliamo noi?
— LA LORO MORTE!
Sono carichi. Sono pronti all’attacco. Battono a ritmo le loro armi contro gli scudi e ululano come lupi affamati.
Dall’altro lato del campo di battaglia c’è il loro più acerrimo nemico.
Io.
O meglio: io con un piatto in mano.
 
È così che immagino i miei colleghi fisioterapisti, medici e infermieri svedesi quando mi vedono arrivare in sala pranzo con un piatto di pasta al ragù riscaldata al microonde. Appena spiego che quello è l’avanzo della cena di ieri partono i loro ferocissimi attacchi con metaforiche spade e lance.
— Ma quindi hai mangiato pasta anche ieri sera?
— Sì, genio! (Scherzo… genio non oso dirlo per non suscitare le loro ire).
— Jaha.
Intanto io comincio a mangiare. Loro incalzano.
— Non è molto vario ed equilibrato.
— Lo è invece: oggi pasta al ragù (in realtà dico pasta alla bolognese altrimenti non capiscono), ieri pasta al pesto, la settimana scorsa pasta alla carbonara…
— Quindi hai mangiato pasta per tre giorni di fila?
Mi interrompono e io annuisco.
— Scusa, ma quanto spesso mangi pasta?
— Due, anche tre volte a settimana: sono italiano.
Sorrido cercando di persuaderli a deporre l’ascia di guerra. Loro mi freddano mentre leccano il coltello sporco di salsa.
— Mai pensato che siano troppi carboidrati?
— No, anzi. Li adoro. Infatti mangio pizza almeno una volta a settimana.
Loro schiumano dalla bocca a queste parole.
— Faccio colazione con latte e cereali.
Loro grugniscono come pitbull incazzati pronti ad assalirmi.
— Faccio spesso spuntini con crackers e grissini.
Me li sento addosso da ogni parte. Li sento scalpitare mentre pensano alle loro diete con varie combinazioni di lettere che comprendono principalmente grassi e proteine, schifando le basi della cucina mediterranea. Io invece continuo imperterrito col mio pranzo.
— Quando posso mangio volentieri piadine farcite, tortellini e gnocchi.
Loro non ce la fanno più. Legumi… tofu… carne… noci… uova… ripassano gli ingredienti di una dieta equilibrata come un mantra che si ripetono all’infinito per darsi la carica. La loro lotta ai carboidrati e agli zuccheri sta esplodendo e arrivando alla fase finale. La tensione nella stanza è a mille mentre mi guardano con disprezzo mandare giù l’ultimo boccone di fusilli.
— Ma adoro anche l’aringa nelle varie salse, il falukorv, il salmone con le patate al forno… e ovviamente quando vado all’IKEA mangio solo le polpette di carne coi mirtilli rossi!
— Ahhh!
Sento che si sgonfiano in un grido di sollievo, giusto un secondo prima che mi possano mettere le mani addosso. Appoggiano le armi e si tolgono le armature. La guerra in questo piccolo villaggio scandinavo è scongiurata. Siamo tutti salvi.
E mentre stiamo per tornare al lavoro intonando canti gioiosi al Valhalla, stecco fuori dal coro pronunciando quelle che a breve potrebbero diventare le parole incise sul mio epitaffio in alfabeto runico.
— Non è che qualcuno ha del pane per fare la scarpetta col sugo?

lunedì 8 novembre 2021

PROMOZIONE – Mi pubblicano… a puntate (3)

"Il lavoratore", giornale della Federazione delle Associazioni Italiane in Svezia (FAIS) e degli italiani in Svezia, ha da poco compiuto 50 anni (portati bene, eh). Per l’occasione si è rinnovato e ha fatto lo storico passaggio dal formato cartaceo a quello on-line.
La nostra collaborazione però continua con la pubblicazione di alcuni racconti presi dal mio Blog da Strapazzo (https://blogdastrapazzo.blogspot.com/). Non posso che esserne grato e onorato.

Ecco il mio racconto “L’ho persa”: https://illavoratore.org/lho-persa/


Sì, lo so, questo pezzo potrebbe tranquillamente stare nella rubrica “Kissenefrega”… prendetelo come una sottocategoria letteraria!

venerdì 5 novembre 2021

RACCONTI - l’invincibile

Silenzio in sala. Si apre il sipario.
Entra in scena il protagonista. Occuperà il palco per i prossimi cinque mesi.
Lui è il cattivo della situazione. Tutti lo odiano. E Lui gode di questo. Gli piace essere l’antipatico, mal sopportato da tutti. Non è Sgarbi, lo giuro!
In Svezia ci sono tre grandi nemici. Il freddo lo puoi limitare. Il bryggkaffe lo puoi zuccherare. Ma lui non lo puoi battere. Contro di lui non ci puoi fare niente. Lui è invincibile. È come il +4 quando giochi a carte a Uno. Solo che l’unico colore che sceglie è sempre e solo il nero. Nero come la notte perché lui è il buio.
Arriva prepotentemente già dall’ultima domenica di ottobre e diventa come la coperta corta: la tiri verso la faccia e ti lascia scoperti i piedi. All’inizio t’imbrogliano dicendoti che dormirai un’ora in più la mattina, ma tu hai in casa due schiere di tiratori scelti che sparano a vista: in prima linea ci sono le gatte che miagolano e graffiano la porta chiedendo cibo alle cinque di mattina e se sopravvivi arrivano in seconda linea i bambini piccoli che ti svegliano un’ora prima del solito. Ti illudono dicendoti che ci sarà più sole alla mattina, ma a Stoccolma già a metà novembre la luce mattutina verrà mangiata dalla notte come i soldi in banca di uno scommettitore incallito. La chiamano ora solare. Ma che cazzo c’è di solare e gioioso in tutto questo? Dovrebbero chiamarla ora illegale, dato che prima c’era l’ora legale.
Ogni novembre va così a Stoccolma. Vivi con ansia l’arrivo inevitabile del buio come l’ennesimo orribile risultato elettorale in Italia. Sai che il buio vincerà ogni volta e che da lì in poi, fino a dicembre inoltrato il buio sarà lì pronto a stritolarti come un lottatore di wrestling che fa sul serio.
Ma quest’anno no!
Quest’inverno il buio non mi strangolerà. Invertirò la rotta di questo Titanic svedese.
Ogni settimana mi farò così tanti bagni di luce che se per sbaglio dovessi entrare invece in un solarium ne uscirei più abbronzato di Carlo Conti. Mi esporrò il più possibile ai raggi solari durante la giornata anche con la consapevolezza che tra novembre e dicembre a Stoccolma ci saranno sì e no dieci ore di luce sommando i due mesi. Sarà come arricchirsi culturalmente guardano l’Isola dei Famosi o come cercare notizie fondate leggendo Libero. Quando andrò in bici al lavoro alle otto di mattina il buio starà ancora oscurando la luce? Quando tornerò a casa alle quattro di pomeriggio il buio sarà già lì ad aspettarmi? Nessun problema perché io avrò una lucetta al led appesa alla zip del giubbotto, la dinamo accesa, la luce di posizione rossa sul retro, quattro braccialetti riflettenti (anche sulle caviglie) e un faro sul casco come un minatore del Klondike. Sarò più addobbato dell’albero di Natale del Rockefeller center a New York o più vistoso di un’insegna luminosa di Shinjuku a Tokyo. Sarò anche ridicolo, ma così il buio non avrà il sopravvento. A casa accenderò la tv e le luci di tutte le stanze, terrò viva la fiammella dentro la zucca di Halloween anche quando avrà fatto la muffa, festeggerò ogni mio non-compleanno come il cappellaio matto mettendo le candeline su ogni pietanza che preparerò (pazienza se con la zuppa ci saranno dei problemi), terrò pure la porta del frigo aperta per avere più luce e infine ogni cinque minuti uscirò sul pianerottolo di casa per far scattare l’accensione automatica del lampione. Ventiquattr’ore su ventiquattro. Sette giorni su sette. Il buio non vincerà.
Così sarò pronto ad affrontare il nemico invernale. Nessuno mi fermerà. Quest’anno vincerò io. Sorrido. Anzi me la rido proprio mentre vedo il buio scomparire con la coda tra le gambe. Questa storiella sta per finire e sul palco ci rimango io. Il buio se ne va.
E mentre cala il sipario su questo teatrino mi rendo conto di quello che succede inevitabilmente alla fine di ogni spettacolo: oh no… buio.

venerdì 29 ottobre 2021

RACCONTI – La compravendita (seconda parte)

Ho sei passaggi da affrontare. Sei fasi. Da queste dipenderà la vita… del mio conto in banca.

Fase uno: la scelta. Uno è troppo invadente, uno troppo accondiscendente, una troppo insulsa, una troppo incerta. A prescindere da queste differenze, tutti, ma proprio tutti, hanno il miglior fotografo in circolazione. Che sia la stessa persona? Me lo sono chiesto un paio di volte, ma non credo. Stoccolma non è un paesello. Non è facile scegliere l’agente immobiliare giusto per te. Dicono che devi trovare la persona che ti fa scattare qualcosa dentro. Neanche Paolo Fox o il dottor Stranamore potrebbero aiutarti in questo. Quando sto per perdere le speranze trovo quella giusta: persuasiva, preparata ed equilibrata. Vengo subito a sapere che non solo ha venduto tutte le case nella mia zona e ogni buco di appartamento in giro, ma è riuscita persino a vendere le buche delle lettere e le casette in legno del giardino del mio condominio. Una macchina da guerra insomma. Dopo aver firmato il contratto se ne va via con la sua Tesla lasciandomi con un sorriso.

Fase due: svuotare. Se comprare casa è stato emotivamente logorante, vendere è fisicamente estenuante. Ci sono talmente tante cose da sistemare che, in confronto, il lavoro dell’amministrazione Biden dopo che Trump se n’è andato è stato una passeggiata. Riordinare ogni sgabuzzino e armadio per ricavarne spazio da riempire. Ammassare oggetti in cantina fino all’orlo e chiudere in fretta la porta prima che mi cada tutto addosso. Creare un appunto mentale: “Attenzione la prossima volta che apri la porta della cantina”. Dimenticare quell’appunto mentale un minuto dopo. Buttare via robaccia che tengo in casa da anni. Chiedere ai vicini la cortesia di tenere un letto, una libreria e sedie della tavola da pranzo che non so dove mettere. Non basta. Caricare la macchina e portare le gatte in pensionato. Lo so che c’è qualcosa di sbagliato in questo, ma è solo per un paio di giorni e servirà a togliere l’odore della sabbietta e i peli dal divano. Pulire il tappetino dell’auto dal piscio che le gatte non sono riuscite a trattenere per la paura. Cercare il contratto con l’agente immobiliare che non trovo più perché è in qualche scatolone che ho spostato in cantina. Quale? Neanche l’Onnipotente lo saprebbe.

Fase tre: abbellire. In realtà, non si tratta solo di togliere ma anche di aggiungere sapientemente. Piante e fiori per esempio. Rigorosamente in vasi bianchi. Più sembra una giungla o un cimitero e meglio è. Aggiungere frutta di stagione in cucina, coperte, asciugamani, libri di filosofia tedesca aperti a casaccio e tante candele (e qui si torna al concetto di camposanto). Qualsiasi cosa tu faccia l’importante è seguire il principio: più la casa è invivibile e più sarà attraente per gli acquirenti. Bene. Ora, prima di passare alla fase successiva sei pronto per le foto. Arriva il fotografo. Quello più bravo di Stoccolma, te lo ricordi? Scatta foto da angoli mai visti: fa sembrare una cameretta come una sala da ricevimento alla reggia di Versailles, fa sparire un camion blu elettrico che si intravede dalla finestra come fosse David Copperfield, trova la luce giusta in una stanza anche se fossimo in una caverna. Oh, bravo davvero questo fotografo! Le foto sono così belle che non vorresti più vendere la casa. Ma ormai è troppo tardi.

Fase quattro: pulire. Hai presente quanto ti fai la doccia, magari anche due di fila, fai il bagno nel profumo, ti pulisci tutti gli orifizi che hai, ti metti il vestito migliore che risalta al meglio il tuo corpo e la tua personalità prima di uscire per un appuntamento galante dopo mesi di astinenza? Ecco, questo ma moltiplicato alla decima potenza e applicato all’appartamento da vendere. La casa dovrà essere una sfera di cristallo. Ogni superficie dovrà riflettere (anche sugli errori che hai fatto in gioventù). Ora la casa è perfetta, ma basta il passaggio delle due canaglie di 3 e 5 anni con in mano un cioccolatino per mandare affanculo in tre secondi tutto il lavoro che l’impresa di pulizie ha fatto in tre ore. Forse al pensionato avrei dovuto lasciare i bimbi e non le gatte. Ecco dov’era quel qualcosa di sbagliato. Per il senso di colpa di essere stato io a dar loro il cioccolato, lucido tutto di nuovo. Pulisco talmente tanto che una mano si trasforma in una pezza di stoffa e l’altra in uno spruzzino detergente. Anche Darwin si stupirebbe di questa evoluzione.

Fase cinque: il contatto con gli acquirenti. O meglio, l’assenza di contatto. Mentre l’agente fa vedere la casa, io e tutta la carovana famigliare dobbiamo andarcene. Durante la visita a porte aperte dei possibili acquirenti noi passiamo il tempo corrodendoci di ansia e dubbi: abbiamo pulito abbastanza? La casa piacerà? Faranno offerte? Venderemo al prezzo giusto? Iva Zanicchi ci assiste in questi dilemmi.

Fase sei: l’asta. Questa volta siamo noi a godercela… se parte l’asta. Eh sì, perché se nessuno offre si torna spietatamente alla fase cinque. E son dolori. Questa volta, però, l’asta parte per fortuna. Eccome se parte. I messaggini che mi arrivano sono le puntate dei possibili acquirenti e suonano come i tintinnii della slot machine. Dopo che alcuni acquirenti si sono metaforicamente accoltellati e dissanguati a colpi di puntate al rialzo, abbiamo un vincitore. Io e mia moglie! Evviva! Ora si tratta “solo” di trovare l’accordo per la data del trasloco e di firmare il contratto prima che gli acquirenti se ne pentano e cambino idea. Quest’ultima parte ricorda il momento in cui quelli che fanno il gioco delle tre carte chiudono baracca e burattini e scappano appena ti hanno imbrogliato.

Fase sette (ma non erano solo sei le fasi?): il pagamento. Ah, ecco. Mi sembrava mancasse questo passaggio. Nella gioia della vendita non mi sono accorto che nel contratto con l’agente c’era un settimo passaggio: il pagamento della provvigione. Quota fissa più percentuale in base al prezzo finale dopo una certa soglia. Ed è lì, quando vedo la parcella da elargire all’agente, che capisco perché lei gira in Tesla e a me invece gira la testa.

venerdì 22 ottobre 2021

RACCONTI – La compravendita (prima parte)

Sono davanti a tre porte.
Dietro alla porta numero uno c’è una specie di modella svedese, alta, bionda e bionica: una strafiga stratosferica, stratirata e strapreparata che mi ammalierà e mi farà perdere la concentrazione mentre pendo dalle sue labbra.
Dietro alla porta numero due c’è un bel fusto dalle spalle larghe, dal sorriso smagliante e dall’autostima strabordante, paragonabile solo a quella di Zlatan Ibrahimovic dopo un gol da centrocampo in rovesciata. Mi farà sembrare tutto ciò che vedo un paradiso terrestre.
Dietro alla porta numero tre c’è una persona impettita, rigida e col culo talmente stretto da riuscire a trattenere uno spillo da balia tra le chiappe. Mentre mi chiederò se sia rimasto incastrato in quel vestito per sbaglio o se sia una sua scelta di vita, questa persona sarà riuscita a vendermi anche sua madre.
Quale scegliere?
No, non è un gioco a premi. Quelli dietro alle tre porte sono degli agenti immobiliari. Questa è una normalissima situazione da domenica pomeriggio di “visning” a Stoccolma. Open house in inglese. Porte aperte in italiano. Non porte aperte per i ladri, ma per i possibili acquirenti dell’appartamento. In questo caso io e mia moglie. I ladri sono quelli che ti vendono la casa, visti i prezzi che ci sono in città.
Tutto inizia, però, con una droga. Me la inietto da solo, nel calduccio di casa mia, di sera dopo che i bambini sono andati a nanna. Fa effetto velocemente e appena me ne accorgo e già troppo tardi. È una droga sperimentale svedese. Si chiama hemnet.se, si consuma on-line ed è completamente legale. È un sito internet dal quale non riesco a staccarmi neanche quando trovo la casa perfetta perché rimango sempre nella speranza di trovarne una ancora più perfetta.
Dopo un’overdose di appartamenti comincio a notare delle caratteristiche comuni: la presenza di una chitarra (spesso in più di una stanza) anche se i proprietari non saprebbero distinguere un Fa da un Sol o un Re da un vassallo, l’esposizione al sole 24 ore su 24 anche in inverno sopra il 59° parallelo Nord, frutta e verdura esposte in cucina come nel baracchino sotto casa, tappeti e coperte in plaid sparse in ogni stanza come nella dimora dello scià di Persia e per finire l’immancabile descrizione della casa come “una vera perla”, “imperdibile”, “fantastica” da far invidia ai commenti dei giornalisti schiaffati sulle copertine dei best-seller.
Dopo aver fatto scorpacciata di foto, essermi immaginato spaparanzato sul divano del nuovo salotto e aver sognato di poter bere il caffè mattutino affacciato a quel meraviglioso balcone soleggiato, alla fine scelgo gli unici tre appartamenti che mi posso permettere e che saranno aperti al pubblico domenica pomeriggio.
Eccomi quindi a varcare le tre porte dei tre appartamenti. In un attimo divento un esperto di orienteering, cercando il muschio sulle pareti per identificare i punti cardinali, quando fino a pochi giorni prima non sapevo neanche che Napoli si trovasse più a est di Trieste. Passo il dito in cerca di polvere in ogni superficie della casa come fossi la signorina Rottermeier mentre a casa mia ci sono ancora i covoni di polvere che rotolano al vento. Fingo di essere più esperto di Pino, l’elettricista di famiglia, per quanto riguarda cavi e contatori e nel frattempo nascondo in tasca la mano incerottata dopo che ho infilato il dito nella presa elettrica. Prendo le misure di ogni stanza per farmi l’arredamento immaginario, commento ad alta voce i difetti per spaventare gli altri possibili acquirenti e faccio un paio di domande inutili all’agente immobiliare giusto per dimostrarmi interessato. Dopo quindici minuti esco, riluttante, dubbioso, con la paura di essermi perso qualche dettaglio importante e con una brochure in mano che mi farà sognare di poter essere il prossimo proprietario di quel buco da 80 metri quadri dove dovrò incastrarci me, mia moglie, due bambini vivaci e i loro duecentotrenta giocattoli.
Non faccio in tempo ad arrivare a casa che parte l’asta per l’appartamento. Come per il fantacalcio, ma in questo caso i soldi sono veri. Faccio un’offerta e aspetto. Riceverò un messaggio per ogni eventuale nuova puntata che faranno gli altri. Nei successivi tre o quattro giorni vivo con ansia e panico ogni vibrazione o suono di notifica proveniente dal cellulare. Appena leggo sul display che non è una nuova offerta al rialzo sono pronto a benedire chiunque mi abbia scritto… anche il mio capo che mi chiede di lavorare sabato e domenica.
Dopo un paio di botta e risposta per far lievitare il prezzo alle stelle con uno o più fantomatici acquirenti (passi le notti a chiederti se esistano veramente o se siano personaggi inventati dall’agente immobiliare solo per far alzare il prezzo della casa), alla fine vinco l’asta, vinco l’appartamento e mi porto via anche un set di pentole in acciaio inox da 24 pezzi per essere stato tra le prime tre telefonate.
Congratulazioni! Grande! Ora mi sono fortemente indebitato per i prossimi quarant’anni. Stappo la bottiglia di champagne più costosa che ho in casa. Sì, sì. Festeggio pure, ma con quali soldi pago questo appartamento? Eh già, ora mi tocca vendere casa mia. E mentre riverso con l’imbuto il vino avanzato dentro la bottiglia mi preparo al prossimo capitolo della saga.

lunedì 18 ottobre 2021

RACCONTI – L’ho persa

Mi sono appena svegliato e sto andando in bagno, quando mi giro a controllare e lei non c’è. Ma come è possibile? E dire che ieri sera era lì a fianco a me. Ci siamo addormentati tenendoci per mano. Sono convinto di averci passato tutta la notte assieme. Invece niente. Torno indietro e controllo sotto al letto, dietro alla porta e dietro alle tende. Magari mi voleva fare uno scherzo. Niente. Dev’essere scivolata via durante la notte e poi scappata dal letto quando ho spostato la coperta. Cerco anche nelle altre stanze. Lei non c’è. Mi ha lasciato così. Senza dire niente. Senza avvisare. E io che credevo che volesse stare con me per sempre. Lei era l’unica ragione che mi faceva alzare dal letto. Che mi dava la voglia di andare avanti. Ora però mi ha abbandonato.
Oggi è proprio uno di quei giorni così. La vorresti tanto avere ma lei non c’è. Uccel di bosco. D'altronde è lunedì, che altro c’era da aspettarsi. Se ne va quasi sempre via di lunedì dopo un bel fine settimana passato assieme. Rare volte rimane con me per tutta la settimana, ma oggi no.
Aggiungiamoci anche che da poco è entrato l’autunno e che vivo in Svezia e il baratro del buio perenne è lì ad aspettarmi davanti alla soglia di casa. Sarà dura affrontare la stagione senza di lei.
Dove sarà andata a finire?
Ora mi tocca andare a cercarla fuori. E non ne ho voglia. Potrei aspettarla qui. Spesso ritorna dopo un paio di giorni facendo finta che non sia successo niente. Si fa un po’ desiderare, ma poi torna. Entra dalla porta principale senza nessun senso di colpa, con l’atteggiamento di chi crede che tutto le sia dovuto. Ti rinfaccia che dovresti essere contento che sia tornata solo per te. Che dovresti prenderla lì sul tavolo altrimenti lei se ne va col primo che passa. Tremenda.
Ma se poi non arriva? No, devo farmi forza e uscire. Non posso aspettarla. Oggi no.
Forse ha preso la bici. Sono ancora in tempo a raggiungerla. Di solito l’aria fresca del mattino mi schiaffeggia la faccia e mi rimette in carreggiata. Le pedalate forzate risvegliano il torpore dei muscoli e mi danno vigore. Spesso i sali scendi dei ponti di Stoccolma mostrano il meglio di me sui pedali e mi aiutano a recuperarla strada facendo. Ma oggi no.
Dovrò vedere se mi sta aspettando al lavoro. Ci sarei dovuto arrivare alla grande come il pirata Pantani dei tempi d’oro, invece ci arrivo a pezzi come il pirata zombi LeChuck di Monkey Island. Non importa. Preparo un buon caffè svedese resuscitamorti. So che le piace. Farà sicuramente effetto e la riconquisterò. Funziona sempre… ma oggi no. Il caffè è finito.
Devo andare dai miei pazienti. Il senso di responsabilità, la spinta deontologica e il dovere professionale esalteranno le mie qualità di psicologo e lei capirà che sono degno di lei. Vedrà di che pasta sono fatto e mi abbraccerà con orgoglio. Di solito funziona. Ma oggi no.
Mi trascino tutto il giorno ascoltando i pazienti, sbadigliando sotto la mascherina nella speranza che nessuno se ne accorga e dando tutto quello che ho. Dopo il caffè post prandiale mi sembra di vederla. La inseguo per tutta la clinica ma lei sfugge. Oggi non riesco a riacciuffarla. Oggi proprio no.
Finisco la giornata e torno a casa dalla mia famiglia. Lei sarà lì ad aspettarmi. I baci, le carezze, i sorrisi e l’affetto dei miei figli sanno sempre regalarmi gioia. Vorrei condividerli con lei. Come ogni giorno torno a casa e mi lancio a giocare con i bambini come Zio Paperone si tuffa nelle sue monete. Ma oggi no. Lei non c’è. Allora mi lancio e basta. Sul divano. Disteso e sbracato come Ciccio di Paperopoli fino all’ora di cena. Almeno ridotto così le posso fare pena e magari lei s’infila sotto la copertina di lana e mi dà la spinta a fare qualcosa di produttivo. Ma oggi no.
Oggi lei mi ha proprio snobbato e dribblato in ogni modo.
Distrutto e deluso vado a letto. Magari è sempre stata lì, tra le pieghe delle lenzuola e io non me ne sono accorto. Oppure la ritroverò tra i miei sogni e domattina ripartiremo insieme come se nulla fosse successo. Non può fare autunno per sempre. Se non domani, dopodomani. Se non dopodomani, tra una settimana. Lei tornerà. Ma oggi no.
Basta ora. È ora di dormire. Mi distendo e mi sento pesante. Sono le undici e mezza di sera e stanco come sono dovrei addormentarmi subito. Invece… lei è tornata: occhi sgranati e pensieri a mille. L’energia che avevo perso per tutto il giorno non mi lascia dormire in pace. Oggi proprio no.

venerdì 15 ottobre 2021

KISSENEFREGA – La disfunzione

Ho una disfunzione afasica-cognitiva della circonvoluzione frontale inferiore di Chomskyana memoria.
Eh? Che cosa ho appena detto? Chiedo scusa!
Quello che voglio dire è che non so più parlare italiano. Mi vergogno un po’ ad ammetterlo ma è così. Più passano gli anni vissuti in Svezia a parlare costantemente svedese e più mi ritrovo a iniziare una frase in italiano ma a concluderla in a completely different language*. Credo che ci sia bisogno di una neuropsychological inquiry* che porti a un diagnostic report* per descrivere questo mio abuso di parole svedesi per concetti che uso tutti i giorni a lavoro anche quando parlo in italiano. Quando me ne accorgo mi sforzo di usare parole italiane ma spesso fisso il vuoto per qualche secondo alla ricerca della parola più… hm… hm… adeguata a completare la frase. Per non parlare delle volte che non riesco a fittare* il verbo giusto e uso quello svedese, ma a metà strada mi regretto* e lo coniugo come se fosse un verbo italiano. E quando sono stanco and sovrappensiero inserisco inconsciamente also congiunzioni svedesi, isn’t?* Il meglio di me lo do in vacanza in Italia quando entrando in un negozio saluto con un bel “Hi”* e se urto qualcuno è sempre “Sorry”!*
E niente… per fortuna, però, che tutto questo mi capitare solo quando parlo, perché quando si tratterebbe di scrivere me la cavassi anche piuttosto più meglio che quando mi volendo esprimermi verbalmente… hm, wait a minute! Oh no, my bad!*
* Certo, tutte le parole straniere dovrebbero essere in svedese ma qui le scrivo in inglese annars de flesta av er fattar ingenting.

E voi direte: e chi se ne frega della tua disfunzione? Beh, non prendetevela con me, non è colpa mia… io vi avevo avvisati: rileggete il titolo della rubrica, per piacere!

venerdì 8 ottobre 2021

RACCONTI – VAB

Sono al lavoro durante una riunione noiosissima e delicatissima nella quale si deciderà chi si deve pigliare i pazienti più tosti e incasinati dei prossimi mesi. Nel pomeriggio devo sostituire una collega in un gruppo di terapia famoso in tutta la clinica per avere solo pazienti particolarmente lamentosi, difficili da trattare e per giunta scettici sulla terapia che proponiamo. Una sorta di “No-CBT” ma vaccinati. Oggi è pure il mio giorno di pulizia della cucina e degli spazi comuni della clinica.
Mentre mi inietto in vena un’altra tazza di amarissimo cafè svedese per mantenermi in vita, sento il cellulare vibrare. È l’asilo di mio figlio. Mi assento un secondo per rispondere. Le maestre mi comunicano che mio figlio ha un’influenza intestinale (la temutissima magsjuka svedese). Penso agli attacchi di vomito e diarrea del mio piccolino. Penso a quanto quel cucciolo stia soffrendo. Penso che a breve contagerà anche me e tutto il resto della famiglia. Dovrei disperarmi e piangere, invece dentro di me comincio a ridere. Non sono un cattivo genitore che gode delle sofferenze dei miei figli, ma sghignazzo lo stesso. Mi trattengo. Cerco di non far vedere il mio senso di sollievo. Mi ricompongo e rientro alla riunione.
Prima ancora che qualcuno possa farmi domande, affibbiarmi incarichi o piantarmi un pippone asfissiante, esclamo con voce mesta:
— Devo andare!
La platea di dottoresse, infermiere e colleghe psicologhe mi guardano con aria tra l’incredulo e l’incazzato. Faccio passare un secondo di silenzio scenico e aggiungo.
— VAB.
Basta così. Non dico nient’altro. Loro capiscono. I loro volti si distendono. Annuiscono con comprensione, un velo di sdegno e un filino d’invidia.
La risata dentro di me esplode fragorosamente. Solo anni di studi e di pratica clinica sul controllo delle emozioni mi permettono di mantenere la faccia da poker (leggasi faccia da culo) e di uscire dalla sala riunioni, dalla clinica, da questa colossale giornata di merda (figurata) al lavoro. Ad attendermi c’è una colossale giornata di merda (letterale) a casa. Ma oggi è meglio così.
Fine della storiella.
 
Come? Cos’è il VAB?
Ah, non lo sapete? Ma allora vi devo spiegare tutto! Va beh... vediamo.
Il VAB è sacro. È il Graal dei genitori. È il Tana-libera-tutti del nascondino per adulti con figli. È il dono dell’invulnerabilità. È una legge ad personam o una prescrizione berlusconiana durante un processo andato a puttane. Basta pronunciarlo e ti catapulta nella Chicago degli anni ’30 rendendoti uno della squadra assieme a Kevin Costner, Sean Connery, Andy Garcia e Charles Martin Smith. È il William Wallace dentro di te che urla “Libertààààà!”
 
Non si capisce ancora? Uffa! Si vede proprio che non abitate in Svezia.
Il V.A.B. è un acronimo: “Vård Av Barn”. Traducendo letteralmente dallo svedese all’italiano significa “Cura del bambino”. Si sottintende che il bimbo sia malato. In pratica la previdenza sociale svedese ti paga per stare a casa con i figli quando loro sono malati. I nonni non servono. E a giudicare dalla strategia svedese anti covid sembra proprio che la pensino così. Qui ci pensa lo Zio Sven.
Sembra tutto molto bello, vero? Meraviglioso?
Eh, no! Coi bambini malati c’è anche l’altro lato della medaglia. Il lato oscuro della forza.
Immergiamoci, infatti, in un universo parallelo o semplicemente in un’altra giornata. Sono in metro verso la spa più fica della città. Oggi non si lavora. No, anzi, riformulo. Oggi si “lavora”: conferenza di massimo 2-3 ore passata tra una discussione su come migliorare i nostri manuali clinici e un’abbuffata di dolcetti, poi pranzo a base di sushi con lo Yukata addosso e per finire tutto il pomeriggio tra saune, bagni termali, frutta e chiacchiere spensierate coi colleghi. Tutto pagato dal datore di lavoro.
Arrivato alla spa discuto sorridente con i colleghi sulla giornata che ci aspetta. Lo squillo del cellulare mi distrae. È l’asilo di mio figlio. Le maestre mi annunciano che mio figlio sta male. Influenza intestinale.
Mi cade il cellulare dalle mani. Impreco brutalmente in italiano consapevole che i miei colleghi svedesi siano convinti che stia cantando una canzone d’amore di Eros Ramazzotti.
— Devo andare!
Tutti mi guardano stralunati. Non fanno in tempo a chiedermi chiarimenti perché sono io a spiegare.
— VAB.
Non devo aggiungere altro. Qualcuno mi compatisce con una pacca sulle spalle, altri scuotono la testa in un gesto di solidarietà, ma appena volto loro le spalle se la ridono. Dentro di sé ovviamente. Infatti appena mi giro, rimangono in religioso silenzio. Neanche fossero Fantozzi con la polpetta ancora in bocca. Non mi resta che tornare a prendere mio figlio con la cacca fino al collo.
 
Morale della favola: non importa che tu abbia una giornata paradisiaca o una infermale al lavoro, alla fine il VAB ti lascia sempre a casa con tuo figlio e un malanno purgatorio.

giovedì 30 settembre 2021

RACCONTI – La chiamata

— Ci siete? Mi sentite?
No, non è una seduta spiritica. È una videochiamata su Whatsapp. Da una parte del filo ci sono io, mia moglie e miei due figli in Svezia e dall’altra parte i miei genitori in Italia.
— Ciao mamma! Mi vedi?
Non ho risposta.
Passano un paio di secondi. Nessuna risposta.
In quei due lunghissimi secondi c’è di tutto. Passo con una facilità imbarazzante dalla gioia di rivedere i miei genitori al senso di colpa per tener loro lontani i nipotini. Dalla speranza che i miei figli si avvicinino a fare un saluto alla tristezza perché i miei genitori non sono qui con noi… o meglio perché noi non siamo lì con loro. Il creatore del cartone animato Inside Out sarebbe impazzito se avesse potuto guardare dentro il mio cervello in quel momento.
Non faccio in tempo a riprendermi che succede l’inevitabile con le comunicazioni a distanza. Il video si blocca. Giusto, mancava la rabbia a completare il quadretto e dentro di me vorrei lanciare il cellulare talmente lontano da raggiungere i miei genitori in Friuli.
Si sente abbastanza bene ma non si vede più niente. Mia madre parla a voce più alta per compensare. Lei crede che sia un metodo infallibile per sconfiggere la tecnologia moderna. La assecondo e alzo la voce anch’io. Intanto la scritta sullo schermo mi informa, molto gentilmente e con discrezione devo dire, che il video è andato in pausa.
Ma che vuol dire? In pausa? È stanco? Ha bisogno di riposare prima di continuare la chiamata? Ha chiamato i sindacati e ora è in sciopero perché l’ho usato troppo?
Do qualche colpo al cellulare da bravo (quasi) quarantenne nostalgico che si ricorda ancora come si trattavano i computer negli anni novanta. Il video riprende. Ottimo. Il vecchio classico metodo funziona ancora. Mi sento più saggio.
Mia madre comincia a parlare a macchinetta per dirmi tutto quello che mi aveva già detto prima quando il video non funzionava. Inutile spiegarle che il problema non era l’audio. Dopo questa inutile ripetizione di informazioni sulle vicissitudini di tutto il parentado, mia mamma si congratula e applaude le mie straordinarie capacità di risoluzione dei problemi. Mi fa sentire di nuovo quel ragazzino che ha appena imparato ad allacciarsi le scarpe… a strappo col velcro. Mia madre mi sorride e dai gesti capisco che sta tessendo le mie lodi. È felice. Lo sarei anche io se potessi sentirla. L’audio infatti è sparito. Potrei allenarmi a leggere il labiale se solo mia madre tenesse la telecamera del cellulare puntata sulla sua faccia e non alternativamente sul soffitto o sul pavimento. Sto per dare un altro colpo al telefono ma l’apparecchio si accorge delle mie intenzioni e si ravvede. L’audio riparte, ma ora va a velocità quadruplicata per recuperare tutto quello che mi sono perso. Nel frattempo mia madre continua a parlare muovendo le labbra. Per un istante ho l’impressione che il video stia mostrando le immagini di mia madre che pronuncia parole ancora non dette. Ho una strana sensazione. Una specie di déjà-vu al contrario.
È un cellulare o una macchina del tempo?
Che strazio. E io che volevo solo far vedere i bambini ai miei genitori. Mostrar loro come sono cresciuti e costringere i bambini a parlare un po’ in italiano dato che con me e mia moglie italiana lo parlano con la stessa intensità e frequenza di una medicina amara che esce da un contagocce intasato. Dove abbiamo sbagliato? Piango dentro di me, mentre mi sposto in salotto alla ricerca di quei due birbanti di tre e cinque anni. I bimbi però sono rapiti dagli alieni… hm, dalla televisione. Che poi è un po’ la stessa cosa se ci pensi. Almeno così credevo quando guardavo i Visitors in televisione, cagandomi addosso dalla paura.
In sostanza è impossibile attirare l’attenzione dei bambini verso la videochiamata. Inutili le richieste di mia madre di mandarle un bacio. I bambini sono completamente assorbiti dai cartoni animati. Quando sto per perdere la speranza e chiudere la videochiamata, i bambini si girano verso il cellulare e incredibilmente salutano e parlano con i miei genitori. Con un certo fastidio raccontano pure quello che hanno fatto oggi a scuola.
Che è successo? Un miracolo? Lo schermo ha iniziato a sanguinare dagli occhi?
No, mia moglie ha spento la televisione e minacciato i bambini di togliere loro i cartoni per i prossimi quindici giorni se non parlano al telefono con i nonni. Tutto con la sola forza dello sguardo (forse ho capito chi sia la vera aliena qua dentro).
La conversazione non dura molto. Niente illusioni. Non appena i cartoni ripartono i bambini ricominciano a guardare la televisione e io continuo ad avere problemi di connessione. Sia con i miei figli rapiti dal tubo catodico, sia con i miei genitori persi dall’altro lato della filo.
Provo a raccontare cosa mi è successo al lavoro, ma loro non mi sentono. Lo ripeto almeno cinque o sei volte, usando sinonimi, parafrasi e pure endecasillabi sciolti, ma loro mi sentono a singhiozzo. Impreco.
— Non dire quelle brutte parole!
Ah questo l’hanno sentito bene… ma è l’antenna di Radio Maria che interferisce a intermittenza selettiva la chiamata e mi punisce per non essere un bravo cattolico?
Provo tutte le stanze della casa. Niente. Non c’è campo. Non c’è scampo. Le parole vanno ancora a scatti. Ricomporre le frasi che stanno dicendo i miei genitori è impossibile come terminare un puzzle raffigurante una litografia di M.C. Escher. Nel disperato tentativo di riprendere la linea mi metto in piedi su una gamba sola sullo sgabello dell’ingresso. Sporgo il braccio verso il router e con la mano cerco l’angolo giusto dove so che prende meglio.
Non funziona neanche così. Purtroppo non è la prima volta che mi succede. Dovrò parlarne con la compagnia telefonica.
Dopo aver ripetutamente rischiato di perdere l’equilibrio fisico e mentale, mi arrendo.
— Mamma, papà… ci sentiamo un altro giorno!
Per un attimo c’è silenzio, anche se in sottofondo mi sembra di sentire una risata satanica provenire dai microchip del cellulare. Il telefono ha vinto.
— No, aspetta!
È mio padre che si ravvede.
— Ora usciamo.
Usciamo? Da dove? Dagli inferi?
Poi mi spiegano. E sono io a rimanere in silenzio. Incredulo.
I miei genitori sono a casa di amici. In una cantina. Nel seminterrato. Una specie di bunker antiatomico insomma.
Mi viene una gran voglia di rinchiuderli là dentro.

martedì 28 settembre 2021

PUBBLICAZIONI – Alla scoperta dell’acqua calda



Pubblicato nel 2020, “Alla scoperta dell’acqua calda” è un romanzo basato su un’avventura distopica fantastica che mette in evidenza con un tocco d’ironia quanto sia importante usare senso critico nel leggere la scienza e differenziarla dalle notizie infondate e dannose per la società. L’idea nasce dalle mie esperienze dirette e indirette nel mondo accademico e dall’ispirazione tratta dai sarcastici premi IgNobel che onorano la ricerca improbabile e in qualche modo divertente.
 
Il libro purtroppo non ha avuto presentazioni letterarie dal vivo a causa della pandemia da Covid-19 che ha limitato gli eventi pubblici e mi ha tenuto per quasi due anni lontano dall’Italia. Sono stati però realizzati due video trailer (versione ufficiale e versione ironica in linea con il tono del romanzo). Inoltre, al romanzo “Alla scoperta dell’acqua calda” sono state dedicate recensioni molto positive da alcuni blog letterari (Chicchi di pensieriAncora un altro libro, Lunatica’s book, Il bistrot dei libri, Le mie ossessioni librose) e interviste all’autore (Il lavoratore).
 
Quarta di copertina
Che cosa ci fanno alcuni scienziati imprigionati in una remota isola del Pacifico? Per scoprirlo dobbiamo fare un salto in un ipotetico futuro dove la ricerca che non porta vantaggi per la società è punita con l’incarcerazione. Il protagonista Fleming, con l’aiuto di Einstein, Pascal, Copernico e Kelvin, mette in atto un piano rocambolesco per salvare la comunità scientifica dell’isola e intraprende un viaggio alla ricerca della propria identità per scoprire se la prigione sia quella sull’isola o quella dentro sé stesso.
Grazie alla metafora di un’avventura distopica, questo romanzo vuole far riflettere sull’importanza di saper leggere criticamente la scienza e di stimolare le persone a capire la differenza tra ricerca utile e notizie infondate.


“Alla scoperta dell’acqua calda” si può acquistare nei seguenti formati:
- cartaceo: su Amazon;
- e-book: su AmazonKoboGoogle Books o nello shop on-line dell’autore e regista Alex Cantarelli.

venerdì 24 settembre 2021

RACCONTI – L’impresa

Sono partito dall’Italia più di 14 anni fa con pochi oggetti personali, una valigia, neanche tanto grande, e tanti sogni, alcuni realizzati e altri no. Oggi mi ritrovo davanti alla cantina di casa mia a Stoccolma con un matrimonio, due bambini e duemilatrecentoventicinque oggetti vari sul groppone (tranquilli, moglie e figli non sono rinchiusi in cantina, sono sani e salvi a casa). Sì, proprio così: 2325 oggetti. Li ho contati, uno a uno. Ma come cazzo è successo?
Cerchiamo di riordinare le idee. Premetto che io non ho nessun squilibrio mentale. Che sia chiaro: non sono matto. Non ho nessun disturbo psichiatrico. Neanche quello dove accumuli compulsivamente e patologicamente oggetti e beni materiali, anche se inutili o dannosi, senza riuscire mai a liberartene. Hoarding si chiama in inglese. Almeno così mi ha spiegato quel signore in camice bianco che mi prescrive Xanax ogni mese.
Dopo le idee passiamo a riordinare la mia cantina. Già, perché devo vincere una sfida epica. Una delle sfide più dure che l’umanità debba affrontare: il trasloco! Terrore e stridore di denti. Chiedo gentilmente alla regia di enfatizzare il momento con la giusta colonna sonora. Musiche tratte dai film di Alfred Hitchcock o di Dario Argento dovrebbero andare bene, grazie.
Prima del trasloco bisogna svuotare la cantina. Così ora sono di fronte a questa invalicabile muraglia cinese, questo mastodontico Pirellone, questo blocco di Tetris dove anche se allinei alla perfezione le scatole sul pavimento non spariscono come nel gioco. Osservo il mio nemico con le mie belle bustone IKEA, cinque blu e una gialla (quella che non dovresti portare via dal negozio ma che sono riuscito a intascarmi qualche anno fa). Lo so, sono una brutta persona. In Svezia il furto della busta gialla è un’azione moralmente molto deplorevole… più spregevole di non fare la raccolta differenziata e seconda solo al preferire una BMW a una Volvo.
Basta con le ciance. È ora di passare all’azione. Mi metto l’elmetto (quello della bici… si fa con quello che passa il convento) e mi getto a capofitto sugli scatoloni. Comincio a tirare fuori cose da tutte le parti: vecchi vestiti dei bambini, vestiti di mia moglie, vestiti miei, vecchi vestiti dei bambini (l’ho già scritto, lo so, ma sono talmente tanti che mi sembrava giusto ripeterlo almeno due volte per rendere loro giustizia). Per un secondo mi fermo, riflettendo sul fatto che potremmo aprire un negozio di H&M senza problemi. Poi ricomincio a scavare. Trovo scatole vuote di elettrodomestici che abbiamo in casa da anni (potrebbero essere utili se un giorno dovessimo venderli), giocattoli da bebè, libri orrendi che non leggerò mai (ops, è lo scatolone con le copie avanzate del mio ultimo romanzo), vasi, cuscini (potrebbero servirmi dato che probabilmente passerò la notte qui), kit per allenare il gatto a fare i bisogni nel water di casa, una tavoletta del cesso vecchia (ok… credo che sia arrivato il momento di mettere in dubbio il fatto che io non abbia disturbi mentali), una rete da pallavolo con trivella per fare i buchi per i pali (sì, avete letto bene!), pattini da ghiaccio di tutte le misure, quadri, triangoli, cerchi, rettangoli, ruote della macchina per l’inverno e per finire un coniglio bianco e una colomba che escono dal cilindro del mago. Voilà!
Il gioco di prestigio, però, non è ancora terminato. Un po’ alla volta tolgo tutte le scatole, borse e altra robaccia. Comincio a vedere la luce in fondo al tunnel. Come quando gratti il fondo sporco di una pentola ma ti accorgi che stai raschiando anche il teflon. Ho già fatto dieci giri dalla cantina a casa con le mie bustone IKEA cariche fino all’orlo. Finalmente riempio l’ultimo scatolone con un paio di scarpe che non uso da almeno dieci anni e sono pronto a lasciare la cantina… vuota! La guardo con soddisfazione e con l’orgoglio tipico di chi ha appena raspato via l’ultima cucchiaiata di Nutella dal vasetto.
Torno a casa da eroe. Da vichingo con lo scalpo dei miei nemici. Mia moglie mi aspetta festante sulla soglia di casa. Mi accoglie con tono di voce gioioso.
— Ho appena parlato con gli amministratori condominiali. Siccome ci trasferiamo nello stesso condominio come i nuovi padroni di casa del nostro appartamento, ci lasciano tenere le rispettive cantine. Non dobbiamo svuotare la nostra!
La scatola che stavo reggendo mi cade davanti ai piedi. Le mie braccia ci rimangono attaccate.

lunedì 20 settembre 2021

PISSICOLOGIA – Avanti e indietro

«Che faccio? Provo? Hm… oggi c’è troppa gente.
E se poi aspetto troppo e non la trovo più? Vero, devo farmi avanti.
E se poi è quella sbagliata? Ma la tengo d’occhio da tanti giorni ormai: è giusta per me.
E se poi pagherò cara questa scelta? Ne vale la pena, guarda che bella!
E se poi non mi lascia respirare? Non dire sciocchezze, sai che non è una di quelle.
E se poi mi pento di quello che ho fatto? Non c’è problema, posso cercarne un’altra.
E se poi non trovo altre che mi piacciono? Non c’è solo questo posto per cercarne.»
«Ci stai ancora pensando?»
Carlo Gustavo annuisce: «Sai che non so mai decidermi!»
«E comprala sta maglietta!» Sigismondo si spazientisce «Non possiamo mica stare qui tutto il giorno!»
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Il pomeriggio dello stesso giorno.
«Vedi, è come nel GAD.»
«Che?»
«Generalized Anxiety Disorder… in italiano è DAG: disturbo d’ansia generalizzato.» Sigismondo prende fiato «L’ho detto in inglese per fare un po’ il figo.»
«Che cosa vuoi dire?» Carlo Gustavo si sforza.
«Ripensavo a quello che mi hai detto prima al negozio di articoli sportivi sulla tua indecisione.»
«Ah, capito.»
«Quant’era? Trenta, quaranta?»
«Sì, la maglietta mi è costata trenta euro.» Puntualizza Carlo Gustavo. «Dici che è troppo?»
«No, non è questo il discorso!» Ribatte Sigismondo. «Devi lasciare stare i pensieri intrusivi.» Carlo Gustavo fa fatica a rispondere e Sigismondo continua. «Non avere paura di tutti quei pensieri “E se poi…”, lasciali andare.»
«Come? Dovrei lasciarli stare? Ma mi fanno stare male!»
«Vero, ma solo nel breve termine. Se invece li lasci stare dopo un po’ ti abitui. Cosa succede se invece li contrasti con tutte quelle risposte e tutti quei pensieri rassicuranti?»
Carlo Gustavo fa fatica a capire a che gioco sta giocando l’amico. Sigismondo ne approfitta e coglie la palla al balzo: «Te lo dico io. Diventano più forti di prima! Diventano ancora più convincenti e più difficili da controbattere.»
«Non capisco.» Carlo Gustavo ancora una volta non ci arriva.
«Guarda, è come una partita di tennis contro Roger Federer. Puoi provare a sfidarlo. Magari, se lui si distrae, ogni tanto fai qualche punto. Puoi addirittura andare vicino a vincere un game. Ma alla fine sai che lui è molto più forte di te. Sai benissimo che non lo batterai mai!» Sigismondo rifiata. «Tu lanci la palla di là e lui ti risponde con una palla veloce e tagliata. Tu riesci miracolosamente a rispondere, ma lui ti rispedisce la pallina nell’angolo opposto. Ti fa correre come un matto da una parte all’altra. Avanti e indietro. Alla fine, lui vince la partita senza neanche sudare e tu sei a pezzi, stremato e sconfitto.»
«E allora che faccio?» Carlo Gustavo forse ha capito dove vuole andare a finire Sigismondo. «Dovrei smettere di lanciare la palla a Federer? Magari già dall’inizio?» Sigismondo annuisce. «Non posso controllare le risposte di Federer. L’unica cosa che posso controllare e la mia battuta. Se io non gli lancio la palla, lui non mi risponde e non possiamo continuare a giocare…» Carlo Gustavo si ferma di colpo, colto da un’epifania. «Se io non gli lancio il servizio, dopo un po’ Federer si stufa di giocare e la partita finisce senza né vinti né vincitori!»
«Evvai!» Sigismondo esulta. «Game, set and match!»
«Ma così non vale!» Carlo Gustavo lancia la racchetta per terra mentre osserva la palla rimbalzare più volte nel suo campo di gioco.
«Io non sono Federer… ti sei fermato e io ho fatto l’ultimo punto decisivo! Mi devi trenta euro!»