martedì 19 luglio 2022

RACCONTI – Il dispositivo svedese

Sono seduto sullo sdraio in spiaggia. Mio figlio è a qualche metro di distanza, indica una bella ragazza distesa sull’asciugamano nei pressi di un ombrellone vicino e urla.
— Papà, di chi è questa troia?
Io lo guardo e senza esitare rispondo con un sorriso.
— È mia! Ora vengo a prendermela!
Gelo nello stabilimento balneare anche se ci sono 38 gradi. Il fidanzato della ragazza in questione, un energumeno di due metri per uno di soli muscoli, prima s’indispettisce poi fa finta di non aver sentito e mi risparmia la vita solo per non provocare a mio figlio il trauma di vedere il proprio padre pestato a sangue. Mi lancia comunque un’occhiataccia per farmi capire tutto questo concetto appena espresso. Anche il suo sguardo fa comunque male e io comincio a massaggiarmi la spalla dolorante. Non capisco questo astio nei miei confronti.
All’ultimo secondo però ho un’intuizione. Cerco subito nel marsupio finché trovo quello che volevo: un paio di occhiali speciali color giallo-blu e una specie di auricolare da infilare nell’orecchio. È il mio dispositivo svedese che mi aiuta a reinterpretare gli eventi appena successi. È essenziale se si manca dall’Italia da più di dieci mesi.
Schiaccio indietro veloce e…
— Papà, di chi è questa tröja*?
Mio figlio regge un maglioncino leggero tenendo il braccio teso di lato e accidentalmente indica anche la bella ragazza vicina d’ombrellone. Io non noto la bella ragazza (va beh… l’avevo notata prima, ma non noto che mio figlio la sta indicando) e mi concentro solo sulla maglia. Sorrido e rispondo.
— È mia! Ora vengo a prendermela!
Niente di strano, vero? Col dispositivo svedese tutto torna nella norma. Nel dubbio me ne vado prima che l’energumeno cambi idea sulla sorte che mi spetta.
(* piccolo vocabolario svedese-italiano: tröja = maglione).
 
Nel tardo pomeriggio stiamo passeggiando serenamente per Lignano. Passando vicino a un bar animato da abitudinari bevitori di vino e sfegatati bestemmiatori, i miei figli si contendono qualcosa che tengono in mano. Litigano e alzano la voce.
— Sono mie. Ora gioco io, ‘io can!
— No. Tocca a me, ‘io can!
Un arzillo signore friulano di circa ottant’anni, incallito giocatore di briscola, tresette e morra, ferma la sua partita per alzarsi dal tavolo. Mi si avvicina commosso, mi dà una pacca sulle spalle e mi fa i complimenti.
— Finalmente qualcuno che cresce i bambini come si deve!
Poi torna al suo posto, non prima di aver scatarrato sul marciapiede una sostanza viscida verde.
Non capisco, ma ringrazio per cortesia (per il complimento, non per lo sputacchio).
Nel frattempo prendo il dispositivo svedese. Infilo occhiali e auricolare e rivedo la scena.
I miei figli stanno litigando su chi debba giocare con le carte Pokemon che abbiamo appena comprato.
— Sono mie. Ora gioco io. Jag kan**!
— No. Tocca a me. Jag kan**!
 Ah… ora mi è tutto più chiaro. Proseguiamo per la nostra strada cambiando marciapiede per evitare di schiacciare altre sorpresine lasciate dagli abitatori del bar.
(** vocabolario SVE-ITA: jag kan = Io posso… detto velocemente suona come la popolare bestemmia del triveneto).
 
Il giorno dopo, di nuovo in spiaggia. I bambini giocano sulla battigia con dei nuovi amichetti. Ridono, scherzano e si divertono felici finché mio figlio Sebastian grida a suo fratello.
— Alexander puttanier m’incula!
Io osservo interessato lo sviluppo della prossima mossa di Alexander.
Le madri degli altri bambini invece s’irrigidiscono, si avvicinano ai loro figli e li portano via, lanciandomi uno sguardo di disprezzo per il linguaggio sboccato che consento ai miei figli.
Io penso che non abbiano fatto niente di male, ma poi mi ricordo di inforcare il dispositivo svedese e rivivere l’evento.
Rewind e…
I bambini stanno giocando con le biglie sulla sabbia bagnata. La partita è concitata. Mio figlio Sebastian è in testa e spera ovviamente di non essere superato. La sua biglia è in cima a un dosso.
— Alexander, putta ner min kula***!
Incita beffardamente il fratello Alexander a colpire la sua biglia così da rimanergli dietro e allo stesso tempo far avanzare ancora Sebastian.
Ora ho capito l’accaduto. Mi giro a cercare di spiegare agli altri genitori, ma è troppo tardi: mi hanno segnalato al bagnino.
(*** vocabolario SVE-ITA: putta ner = spingi giù; min kula = la mia biglia).
 
Qualche giorno dopo siamo al bar del lungomare. È il primo pomeriggio e cerchiamo refrigerio all’ombra del tendone. Mi volto a destra e a sinistra. Non c’è molta gente. Guardo mia moglie con voglia e penso sia il momento giusto per approfittarne ora che i bambini sonnecchiano sulla panchina.
— Mi dai la fica?
Credevo di averlo sussurrato, invece devo averlo detto a voce abbastanza alta. Lei si arrabbia.  
— No! L’hai già avuta stamattina a tavola quando c’erano i bambini. Basta!
Un signore che non avevo notato, seduto a qualche tavolo dietro di noi, indomito berlusconiano voyeurista dei bei tempi, rizza le orecchie e si risveglia allupato dal sonnellino post prandiale.
Non capisco perché ci rivolga quello sguardo fantozziano davanti alla televisione nell’attesa che qualcuno si tolga le mutande. Poi ricordo di controllare con il dispositivo svedese che fortunatamente porto sempre con me.
Mia moglie sta mangiando un bombolone alla marmellata. Ce ne sono anche in Svezia, ma quelli dei bar italiani mi piacciono di più e io non so proprio resistere. Mi pento di non averne ordinato uno anch’io e chiedo golosamente a mia moglie.
— Mi dai la fika****?
Lei non ci sta. Vuole mangiarsi tutto il bombolone e mi rinfaccia di averle fregato il cornetto al cioccolato stamattina durante lo spuntino. Io rimango deluso.
Anche il signore sulla sessantina del tavolo vicino è confuso e scontento per non essere riuscito a godersi la scena da sexy commedia all’italiana degli anni ’70 che si era illuso di vedere.
Vorrei spiegargli cosa intendevo dire, ma lui ha già ricominciato a russare.
(**** vocabolario SVE-ITA: fika = classico termine svedese che sta a indicare una pausa durante la giornata, spesso accompagnata da un caffè e/o da un dolcetto).
 
Le vacanze al mare in Italia stanno andando bene, ma non benissimo.

giovedì 7 luglio 2022

IL LAVORATORE – PPD

Prima c’era. Adesso non c’è più.
Così, all’improvviso.
Hai fatto tanto. Faticato. Sudato. Sognato. E poi d’un tratto tutto finisce.
 
Qualcosa a dire il vero rimane. Il vuoto. Un grande ed enorme buco nero dentro di te. Si nutre dei tuoi pensieri e soprattutto delle tue emozioni.
Ti lascia sempre il segno. A volte fa male come un pugno di sorpresa sullo stomaco, a volte è piacevole come l’ultima carezza di una nonna anziana che purtroppo non rivedrai più.
È un panorama che ti lascia senza fiato. A volte perché ti prende alla sprovvista tappandoti la bocca con violenza per rubarti il portafogli, a volte perché ti toglie le parole per quanto è bello ed emozionante.
È un biglietto di un concerto degli anni ‘90. Richiama alla memoria bei ricordi di musica a palla, sudore e spintoni in massa, ma ti sbatte in faccia che sei ormai un vecchio che non reggerebbe più nemmeno un minuto in quella bolgia.
 
Si chiama Post Production Depression, PPD.
Depressione da fine produzione artistica. Esiste. Si chiama così. Davvero. It’s a thing. È na robba. Non vi sto prendendo in giro.
 
È come quando ti guardi le partite, t’informi sui protagonisti, analizzi le statistiche con cura e poi finiscono i mondiali di calcio o i playoff NBA e non sai più cosa guardare. Soprattutto se hai goduto tanto per la vittoria dell’Italia o dei Chicago Bulls… hm, questi ultimi due casi non sono poi così frequenti e rilevanti, meglio sceglierne altri.
È come quando finisci l’università. Hai studiato molto. Anche le materie che non c’entravano niente col tuo corso di laurea che sono state inserite nel programma solo per fare numero. Il giorno dopo aver discusso la tesi, ancora in preda agli effluvi alcolici e al mal di testa post sbornia della festa di laurea, ti alzi dal letto, metti giù prima il piede destro e poi quello sinistro e ti chiedi: “E adesso che faccio?”
È come quando finiscono le vacanze al mare che hai pianificato nei dettagli e che hai agognato con impazienza dopo due anni di pandemia durante i quali non hai potuto viaggiare e sai che lunedì dovrai tornare al lavoro.
È come quando finisce la tua serie televisiva preferita che avevi scelto sapientemente e che avevi aspettato con ansia e ora hai la sensazione che non ci sia più niente che valga la pena guardare nonostante la tua lista su Netflix sia lunga dieci pagine.
È come quando finisce uno spettacolo teatrale dei “varför inte” che hai preparato per mesi con gente stupenda e generosa. Uno sforzo collettivo e sacrifici enormi di tempo ed energie, solamente per il bene comune. Un processo creativo che ha messo tutti alla prova e che ha chiesto molto, ma che alla fine ha ripagato con gli interessi.
Ecco, sì. Questo era l’esempio che cercavo per descrivere la PPD.
 
La depressione da fine produzione teatrale mi lascia vuoto e stanco, fisicamente e mentalmente. Vorrei solo prendermi una lunga pausa ma il sabato successivo, sovrappensiero, mi presento per sbaglio davanti alla sala prove anche se non c’è ovviamente nessuno ad attendermi.
Mi ritrovo a pensare che niente abbia più significato e che non ci sia più nulla che valga la pena fare nella vita. Sono però impaziente di ricominciare con la prossima stagione teatrale e mille idee mi balzano in testa come caprette al pascolo.
Cammino nostalgico per la città e ripenso alle prove, pianifico nuovi esercizi d’improvvisazione, canticchio le canzoni dello spettacolo e mi riscopro a sorridere pensando “Due settimane fa a quest’ora ce la stavamo facendo sotto per la paura a un paio d’ore dalla prima.” Un secondo dopo provo rabbia per non aver avuto la possibilità di andare in scena in più serate, in più città, di non aver raggiunto ancora più pubblico. Però poi sorrido rivedendo le foto in costume scenico e le foto del dietro le quinte.
Sono felice di essere stato parte di questo progetto che è cresciuto tra le nostre mani, partito da un asettico copione bidimensionale di carta a una serie di vivaci scene tridimensionali fatte da persone in carne e ossa. Da semplici descrizioni d’inchiostro a battute con intenzione, parti di scenografia, luci e suoni, tutto realizzato con gran passione. Mi mancano già gli altri membri del gruppo… e mi commuovo quando il pubblico ci fa i complimenti e ci dice che il nostro affiatamento era evidente sul palco.
Che tempesta di emozioni. Che altalena di sensazioni. Che spettacolo!
 
Stamattina mi sono svegliato come al solito. Ho messo giù prima il piede destro e poi quello sinistro e mi sono chiesto: “E adesso che faccio? C’è un rimedio a questa depressione da fine produzione teatrale?”
Un rimedio per fortuna esiste.
Ripartire con altri progetti creativi che diano forza ed energia.
Eccomi, dunque, documento Word del mio Blog da Strapazzo.
Eccomi chat Whatsapp del prossimo spettacolo teatrale dei “varför inte”.
Eccomi redazione de Il lavoratore.


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Ecco il link al sito de Il lavoratore.