Sono al lavoro durante una riunione
noiosissima e delicatissima nella quale si deciderà chi si deve pigliare i
pazienti più tosti e incasinati dei prossimi mesi. Nel pomeriggio devo sostituire
una collega in un gruppo di terapia famoso in tutta la clinica per avere solo
pazienti particolarmente lamentosi, difficili da trattare e per giunta scettici
sulla terapia che proponiamo. Una sorta di “No-CBT” ma vaccinati. Oggi è pure
il mio giorno di pulizia della cucina e degli spazi comuni della clinica.
Mentre mi inietto in vena un’altra tazza di amarissimo cafè svedese per mantenermi in vita, sento il cellulare vibrare. È l’asilo di mio figlio. Mi assento un secondo per rispondere. Le maestre mi comunicano che mio figlio ha un’influenza intestinale (la temutissima magsjuka svedese). Penso agli attacchi di vomito e diarrea del mio piccolino. Penso a quanto quel cucciolo stia soffrendo. Penso che a breve contagerà anche me e tutto il resto della famiglia. Dovrei disperarmi e piangere, invece dentro di me comincio a ridere. Non sono un cattivo genitore che gode delle sofferenze dei miei figli, ma sghignazzo lo stesso. Mi trattengo. Cerco di non far vedere il mio senso di sollievo. Mi ricompongo e rientro alla riunione.
Prima ancora che qualcuno possa farmi domande, affibbiarmi incarichi o piantarmi un pippone asfissiante, esclamo con voce mesta:
— Devo andare!
La platea di dottoresse, infermiere e colleghe psicologhe mi guardano con aria tra l’incredulo e l’incazzato. Faccio passare un secondo di silenzio scenico e aggiungo.
— VAB.
Basta così. Non dico nient’altro. Loro capiscono. I loro volti si distendono. Annuiscono con comprensione, un velo di sdegno e un filino d’invidia.
La risata dentro di me esplode fragorosamente. Solo anni di studi e di pratica clinica sul controllo delle emozioni mi permettono di mantenere la faccia da poker (leggasi faccia da culo) e di uscire dalla sala riunioni, dalla clinica, da questa colossale giornata di merda (figurata) al lavoro. Ad attendermi c’è una colossale giornata di merda (letterale) a casa. Ma oggi è meglio così.
Fine della storiella.
Come? Cos’è il VAB?
Ah, non lo sapete? Ma allora vi devo spiegare tutto! Va beh... vediamo.
Il VAB è sacro. È il Graal dei genitori. È il Tana-libera-tutti del nascondino per adulti con figli. È il dono dell’invulnerabilità. È una legge ad personam o una prescrizione berlusconiana durante un processo andato a puttane. Basta pronunciarlo e ti catapulta nella Chicago degli anni ’30 rendendoti uno della squadra assieme a Kevin Costner, Sean Connery, Andy Garcia e Charles Martin Smith. È il William Wallace dentro di te che urla “Libertààààà!”
Non si capisce ancora? Uffa! Si vede
proprio che non abitate in Svezia.
Il V.A.B. è un acronimo: “Vård Av Barn”. Traducendo letteralmente dallo svedese all’italiano significa “Cura del bambino”. Si sottintende che il bimbo sia malato. In pratica la previdenza sociale svedese ti paga per stare a casa con i figli quando loro sono malati. I nonni non servono. E a giudicare dalla strategia svedese anti covid sembra proprio che la pensino così. Qui ci pensa lo Zio Sven.
Sembra tutto molto bello, vero? Meraviglioso?
Eh, no! Coi bambini malati c’è anche l’altro lato della medaglia. Il lato oscuro della forza.
Immergiamoci, infatti, in un universo parallelo o semplicemente in un’altra giornata. Sono in metro verso la spa più fica della città. Oggi non si lavora. No, anzi, riformulo. Oggi si “lavora”: conferenza di massimo 2-3 ore passata tra una discussione su come migliorare i nostri manuali clinici e un’abbuffata di dolcetti, poi pranzo a base di sushi con lo Yukata addosso e per finire tutto il pomeriggio tra saune, bagni termali, frutta e chiacchiere spensierate coi colleghi. Tutto pagato dal datore di lavoro.
Arrivato alla spa discuto sorridente con i colleghi sulla giornata che ci aspetta. Lo squillo del cellulare mi distrae. È l’asilo di mio figlio. Le maestre mi annunciano che mio figlio sta male. Influenza intestinale.
Mi cade il cellulare dalle mani. Impreco brutalmente in italiano consapevole che i miei colleghi svedesi siano convinti che stia cantando una canzone d’amore di Eros Ramazzotti.
— Devo andare!
Tutti mi guardano stralunati. Non fanno in tempo a chiedermi chiarimenti perché sono io a spiegare.
— VAB.
Non devo aggiungere altro. Qualcuno mi compatisce con una pacca sulle spalle, altri scuotono la testa in un gesto di solidarietà, ma appena volto loro le spalle se la ridono. Dentro di sé ovviamente. Infatti appena mi giro, rimangono in religioso silenzio. Neanche fossero Fantozzi con la polpetta ancora in bocca. Non mi resta che tornare a prendere mio figlio con la cacca fino al collo.
Morale della favola: non importa che
tu abbia una giornata paradisiaca o una infermale al lavoro, alla fine il VAB
ti lascia sempre a casa con tuo figlio e un malanno purgatorio.
Mentre mi inietto in vena un’altra tazza di amarissimo cafè svedese per mantenermi in vita, sento il cellulare vibrare. È l’asilo di mio figlio. Mi assento un secondo per rispondere. Le maestre mi comunicano che mio figlio ha un’influenza intestinale (la temutissima magsjuka svedese). Penso agli attacchi di vomito e diarrea del mio piccolino. Penso a quanto quel cucciolo stia soffrendo. Penso che a breve contagerà anche me e tutto il resto della famiglia. Dovrei disperarmi e piangere, invece dentro di me comincio a ridere. Non sono un cattivo genitore che gode delle sofferenze dei miei figli, ma sghignazzo lo stesso. Mi trattengo. Cerco di non far vedere il mio senso di sollievo. Mi ricompongo e rientro alla riunione.
Prima ancora che qualcuno possa farmi domande, affibbiarmi incarichi o piantarmi un pippone asfissiante, esclamo con voce mesta:
— Devo andare!
La platea di dottoresse, infermiere e colleghe psicologhe mi guardano con aria tra l’incredulo e l’incazzato. Faccio passare un secondo di silenzio scenico e aggiungo.
— VAB.
Basta così. Non dico nient’altro. Loro capiscono. I loro volti si distendono. Annuiscono con comprensione, un velo di sdegno e un filino d’invidia.
La risata dentro di me esplode fragorosamente. Solo anni di studi e di pratica clinica sul controllo delle emozioni mi permettono di mantenere la faccia da poker (leggasi faccia da culo) e di uscire dalla sala riunioni, dalla clinica, da questa colossale giornata di merda (figurata) al lavoro. Ad attendermi c’è una colossale giornata di merda (letterale) a casa. Ma oggi è meglio così.
Fine della storiella.
Ah, non lo sapete? Ma allora vi devo spiegare tutto! Va beh... vediamo.
Il VAB è sacro. È il Graal dei genitori. È il Tana-libera-tutti del nascondino per adulti con figli. È il dono dell’invulnerabilità. È una legge ad personam o una prescrizione berlusconiana durante un processo andato a puttane. Basta pronunciarlo e ti catapulta nella Chicago degli anni ’30 rendendoti uno della squadra assieme a Kevin Costner, Sean Connery, Andy Garcia e Charles Martin Smith. È il William Wallace dentro di te che urla “Libertààààà!”
Il V.A.B. è un acronimo: “Vård Av Barn”. Traducendo letteralmente dallo svedese all’italiano significa “Cura del bambino”. Si sottintende che il bimbo sia malato. In pratica la previdenza sociale svedese ti paga per stare a casa con i figli quando loro sono malati. I nonni non servono. E a giudicare dalla strategia svedese anti covid sembra proprio che la pensino così. Qui ci pensa lo Zio Sven.
Sembra tutto molto bello, vero? Meraviglioso?
Eh, no! Coi bambini malati c’è anche l’altro lato della medaglia. Il lato oscuro della forza.
Immergiamoci, infatti, in un universo parallelo o semplicemente in un’altra giornata. Sono in metro verso la spa più fica della città. Oggi non si lavora. No, anzi, riformulo. Oggi si “lavora”: conferenza di massimo 2-3 ore passata tra una discussione su come migliorare i nostri manuali clinici e un’abbuffata di dolcetti, poi pranzo a base di sushi con lo Yukata addosso e per finire tutto il pomeriggio tra saune, bagni termali, frutta e chiacchiere spensierate coi colleghi. Tutto pagato dal datore di lavoro.
Arrivato alla spa discuto sorridente con i colleghi sulla giornata che ci aspetta. Lo squillo del cellulare mi distrae. È l’asilo di mio figlio. Le maestre mi annunciano che mio figlio sta male. Influenza intestinale.
Mi cade il cellulare dalle mani. Impreco brutalmente in italiano consapevole che i miei colleghi svedesi siano convinti che stia cantando una canzone d’amore di Eros Ramazzotti.
— Devo andare!
Tutti mi guardano stralunati. Non fanno in tempo a chiedermi chiarimenti perché sono io a spiegare.
— VAB.
Non devo aggiungere altro. Qualcuno mi compatisce con una pacca sulle spalle, altri scuotono la testa in un gesto di solidarietà, ma appena volto loro le spalle se la ridono. Dentro di sé ovviamente. Infatti appena mi giro, rimangono in religioso silenzio. Neanche fossero Fantozzi con la polpetta ancora in bocca. Non mi resta che tornare a prendere mio figlio con la cacca fino al collo.
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