giovedì 23 dicembre 2021

RACCONTI – Rimorso al futuro

Ce l’ho fatta! Incredibile, ma ci sono riuscito. Ora sono nel bagno di questo locale dove suonano musica hard rock dal vivo. Che bei ricordi. Ci sono arrivato nel momento esatto. Che memoria. Sono infatti davanti a un ragazzo di ventisei anni, tre mesi e dodici giorni.
— Non lo fare! — gli dico — Non bere quella birra che ti sta aspettando al tavolo con gli amici. Stasera ti fermerà la polizia e ti toglierà la patente.
— Che cazzo vuoi? È solo la seconda birra. Non sono mica così scemo da guidare ubriaco.
— Lo so, ma basta per l’etilometro.
— Ma smettila. E poi chi cazzo sei tu per dirmelo? Ma vattene a fanculo!
Niente. Non ha capito chi ero e non mi ha ascoltato. Se ne va. Devo andare via anch’io. Chiudo gli occhi, mi concentro, appoggio l’indice della mano destra sulla tempia destra e l’indice della mano sinistra sulla tempia sinistra. Passano un paio di secondi e sparisco nel nulla tra lo stupore di un signore in piedi davanti all’orinatoio che per cercare di capire cosa sia successo si è pisciato sui pantaloni.
Chi era quel ragazzo con cui parlavo? Ma come chi? Ero sempre io. Non si vedeva la somiglianza? Va bene, ora ho qualche ruga e qualche capello bianco in più ma sono sempre io. Credevo che fosse più facile… ahhhh! Urlo dal dolore ma ricompaio esattamente dove volevo: qualche anno prima. Sono in macchina. Sono sul sedile posteriore della mia* (*di mia madre) Fiat Uno.
— Bacia quella ragazza stasera! Lei ci sta.
Il mio me stesso diciannovenne, sette mesi e ventun giorni per poco non sbanda con l’auto quando si accorge che ci sono anch’io.
— Ancora tu, ma si può sapere che cazzo vuoi? Mi hai fatto venire un colpo.
— Sì, sempre io. Ti ho detto: bacia quella ragazza stasera.
— Ma non saremo soli, ci sono altri compagni di classe.
— Lo so, ma alla fine rimarrete solo tu e lei… e ci sarà un motivo, vero?
— Mah… non so.
— Il motivo è che lei ci sta! Credimi.
Lui esita.
— Devo andare ora, fai come ti dico. Non fare il coglione come al solito!
— Oh coglione sarai tu! Ah, e la prossima volta avverti prima di arrivare così all’improvviso… hey, ma dove sei sparito?
Il mio me stesso da giovane ha fermato l’auto per cercarmi, ma ovviamente non mi troverà. Io sono già da un’altra parte. Ricompaio, infatti, davanti a me stesso a ventiquattro anni, undici mesi e due giorni. Appena mi vede sbuffa.
— Coglione, quella ragazza di sei anni fa mi ha dato un ceffone quando ho provato a baciarla!
— Hm… scusa. Mi sbagliavo: non ci stava. Errore mio.
— Cazzo vuoi ora?
— Ho solo cinque minuti, poi sparisco.
— Lo so… allora?
— La vedi quella ragazza là in fondo che ti aspetta? Non la baciare.
— Ma è il mio appuntamento di stasera. Ci sto provando da mesi e ora finalmente ha deciso di uscire con me e ora tu mi…
— Ti ho detto di non baciarla. Ti si attacca come una cozza e non te la togli più di dosso.
— Hm. E prima bacia quella… poi non baciare questa. Oh senti Coso, lasciami in pace.
— Ma no, fidati.
Mi spinge via e va verso la ragazza. Con gli occhi pieni di libidine andrà sicuramente a baciarla. Sbaglia. Di brutto. Se ne pentirà… me ne pentirò. Devo fare meglio di così. Se voglio salvare la mia vita, devo fare meglio. Mi nascondo in un vicolo, chiudo gli occhi, mi concentro, dita sulle tempie e… via!
Sono all’uscita di un liceo scientifico. Il mio liceo scientifico. Eccomi là a diciotto anni, cinque mesi e sedici giorni. Fermo subito me stesso mentre passeggio da solo verso la fermata della corriera.
— Ti posso rubare un minuto?
— Hm… che cosa vuoi? Non compro niente… non voglio fumo. Aspetta, io e te ci siamo già visti prima?
— Non credo. Senti. Tu vorresti studiare psicologia, vero?
— Hm… sì — lui è stupito, lo capisco —Come fai a saperlo?
Come faccio a saperlo? Lo so perché lo sai tu. Troppo complicato da spiegare e non ho tempo per farlo. Quindi mi invento una scusa.
— Te ne ho sentito parlare con quella tua compagnia di classe là giù. Beh, ti posso dare un consiglio? Studia altro. Non andare all’università per fare psicologia. Non in Italia almeno. È una passione, lo so, ma farai una fatica matta a trovare lavoro. Ti dovrai sobbarcare i mille problemi degli altri e non avrai tempo di sistemare i tuoi. Sarai sempre al limite dell’esaurimento emotivo e molto spesso i pazienti non ti ringrazieranno neanche. Vero, ogni tanto sarà gratificante aver aiutato gli altri, ma chiediti se ne vale davvero la pena. — non lo lascio rispondere — Studia informatica… è il futuro. Studia economia… avrai il posto di lavoro assicurato. Studia… (Dio perdonami per quello che sto per dire) ingegneria. Studia…
— Ma io faccio schifo in matematica.
— Hm… hai ragione. Lascia stare le ultime due! Studia architettura… l’unica sufficienza che hai è in disegno tecnico e storia dell’arte.
— Beh, anche filosofia e storia…
Lo prendo per le spalle e lo scuoto.
— Filosofia e storia? Filosofia e storia? Ma senti quello che stai dicendo? Quelle materie ti porteranno alla rovina.
— Mi piace anche scrivere!
— Faccio finta di non aver sentito… tu sei un pazzo!
Sono un pazzo. Il me stesso mi rifila una bella spinta e si allontana a passo spedito. Ha ragione. Così sto sbagliando di brutto. Se voglio evitare una vita piena di dubbi e indecisioni, devo agire in modo diverso. Non faccio in tempo a piangermi addosso che il dolore alle tempie aumenta. Mi concentro e riesco a comandarlo.
Sono ancora davanti allo stesso liceo. Non mi sono spostato di tanto. Fisicamente no, ma temporalmente sì. Mi sono appena visto all’età di quattordici anni, sette mesi e cinque giorni entrare dall’ingresso principale. Devo raggiungermi al più presto. Sono le sette e quarantacinque del mattino. Tra poco inizieranno le lezioni. C’è un sacco di gente e lui, cioè io, si è appena fermato a controllare in quale classe dovrà andare oggi. Mi faccio largo tra la folla e lo fermo. Quello davanti a me è solo un ragazzetto sbarbato, insicuro, sensibile e un po’ sfigato con quegli occhiali dalle lenti spesse quanto il fondo di una bottiglia e i primi brufoli che gli falcidieranno la faccia per i prossimi sette o otto anni.
— Scusami Roberto* (*nome di fantasia) — lui è stupito di vedermi, crederà che sia il genitore di qualche altro studente — Volevo dirti che…
Che cosa gli posso dire? Mah, di osare a essere sé stesso? Di andare avanti per la propria strada nonostante le difficoltà? Sì, potrei, ma sarebbero solo frasi fatte. Che cosa me ne sarei fatto di essere me stesso se all’epoca non sapevo chi ero veramente (come se lo sapessi ora…)? Che cosa ne avrei concluso seguendo la mia strada se mi sentivo perso? Forse non gli direi niente di tutto questo, ma gli darei una pacca sulle spalle e gli direi che io ci sarò sempre per lui, più di quanto lui creda. Poi gli direi anche di lanciarsi, di lasciarsi andare, di perdere il controllo ogni tanto, di provarci sempre, di seguire l’istinto quando sembra la scelta giusta ma hai lo stesso il mal di pancia per la paura. Gli direi che spesso sbaglierà, ma che fa parte del gioco. E allora gioca, ragazzo!
Il mio me stesso adolescente raddrizza la schiena e guarda fiero in avanti. Vedendolo così sicuro di sé stesso, una ragazza gli sorride e si avvicina a lui per parlargli. Beh dai, incredibile: sono riuscito a fare del bene. Oddio, aspetta un secondo: quella è la ragazza più bella della scuola, il sogno bagnato di ogni adolescente, la top model del liceo, il visino e corpicino migliori degli anni ’90 (lei però non sa che ora è ingrassata di trenta chili e ha la faccia butterata… l’ho incontrata ieri al supermercato). Tutto questo è un sogno che si sta realizzando. Sento le campane a festa nella mia testa. No, non sono capane. È un ronzio fastidioso. È un suono ripetitivo che mi penetra le tempie. Il suono è ritmico e non accenna a smettere. Non riesco a fare niente. Alla fine sento dei colpi ben assestati sulle gambe. Mi fanno male. Finalmente ho capito cosa sta succedendo. Questo non è un sogno. Non è mai andata così. Quello che vedo non è mai successo.
Apro gli occhi, anche se erano già aperti e fissi verso un punto vuoto. È il 20 dicembre del 2021. Sono di nuovo nel presente. Stavo solo rimuginando sul passato. L’ho fatto un’altra volta. Ci sono ricascato. Devo smetterla. Sono appena tornato in bicicletta dal mio lavoro come psicologo. Sono nel salotto di casa mia. Mio figlio mi strattona i pantaloni mentre sbatte ripetutamente un oggetto contro il mobile. Gli sorrido. Guardo più in là e c’è mia moglie che gioca con i lego assieme all’altro mio figlio. Siamo felici. Questo mi basta. Se le scelte che ho fatto mi hanno portato a questo punto non c’è niente da cambiare. Niente rimpianti o rimorsi.
Mio figlio mi colpisce ancora con qualcosa sulle gambe. Io mi giro di scatto e urto leggermente il mobile con lo smartphone che ho appena comprato. Solo in quel momento mi accorgo che l’oggetto che tiene in mano è un Nokia 3310. Ancora integro e intatto dopo tutti questi anni. Sullo schermo del mio nuovo smartphone invece si è appena formata una crepa.
Beh, forse qualche rimpianto dei tempi passati ce l’abbiamo.

giovedì 16 dicembre 2021

RACCONTI – Scendere giù

Una volta…
— Scendi in Italia per Natale?
— Sì, certo.
— Beata te. Io resto in Svezia. C’ho il trasloco.
— Mi spiace… ma sai che faccio io? Appena atterro mi sparo subito un bell’espresso come si deve. Anche il bar dell’aeroporto è meglio dell’Espresso House a Stoccolma.
— Lo so. Non farmici pensare.
— Arrivata a casa vado da nonna Rosa che mi ha preparato un piatto di bucatini all’amatriciana. Oh, col guanciale, mica con la pancetta come si fa qua.
— Che invidia!
— Nel pomeriggio faccio un giro in centro e mi ubriaco di spritz a un euro a cinquanta l’uno. In Svezia ci compri l’aranciata con gli stessi soldi.
— Maledetta!
— La sera m’ingolfo di pizze al taglio, tramezzini, piadine, arancini e focacce fino a scoppiare.
— Mi vengono le lacrime.
— Poi incontro tutti i miei vecchi amici al bar. Baci, abbracci e tanti ricordi. Quanto mi mancano.
— Smettila ti prego.
— E questo sarà solo il primo giorno. Starò giù una settimana.
— C’è uno spazietto per me in valigia?


Oggi…
— Scendi in Italia per Natale?
— Sì, certo.
— Beata te. Io resto in Svezia. C’ho il trasloco.
— Mi spiace… ma sai che faccio io? Appena atterro mi sparo subito una bella mascherina FFP3 e passa la paura. In aereo mi facevano mettere solo la FFP2, pensa te.
— Lo so. Non farmici pensare.
— Arrivata a casa mi faccio almeno una settimana di isolamento, altrimenti col cazzo che posso andare a trovare nonna Rosa che è stanca da post Covid e ha a malapena la forza di preparami una minestrina sciocca.
— Che invidia!
— Nel pomeriggio del primo giorno di libertà vado a farmi la terza dose. Ho appena compiuto quarant’anni… oh, servirà a qualcosa essere vecchi, no?
— Maledetta!
— La sera vado al ristorante col mio green pass così mi posso sedere. Se me lo dimentico posso andare ad accalcarmi in un bar stando in piedi al bancone.
— Mi vengono le lacrime.
— Poi incontro tutti i miei vicini di casa. Ci parliamo da terrazzo a terrazzo. I miei vecchi amici vivono in una regione limitrofa che ora è zona rossa e quindi sono chiusi in casa. Non li potrò vedere.
— Smettila ti prego.
— E questo sarà solo la prima settimana. Cioè, l’unica settimana.
— C’è uno spazietto per me in valigia?

giovedì 9 dicembre 2021

RACCONTI – La firma

Sono comodamente seduto sulla sedia della cucina di casa mia. Oddio, non proprio comodo, comodo, a dire il vero. La sedia è confortevole e la seduta soffice, ma è più la parte psicologica che mi preoccupa al momento. Davanti a me sul tavolo ci sono un po’ di fogli e una penna.
Non sarebbe niente di grave se non riguardasse un mutuo per la casa. Al pensiero che mancano “solo” 40 anni per estinguerlo mi fa star male. Cerco di deglutire ma non ce la faccio perché le mie ghiandole salivari sono più aride del cuore di un miliardario. Assieme a mia moglie comincio a leggere attentamente le condizioni, i tassi d’interesse, le clausole. La tensione mi gioca un brutto scherzo e all’improvviso la carta mi sembra papiro e lo svedese geroglifico antico.
Finisco la pagina ed è il momento di firmare. M’immagino Satana al mio fianco che invece della penna mi porge una lametta. La prendo, mi faccio un piccolo taglio sul polso e uso il sangue per firmare. Con il mio scarabocchio a fine pagine questa agonia dovrebbe essere terminata ma c’è un'altra pagina da leggere e firmare. Sento delle risate in lontananza. Non ci faccio caso. Prendo un altro po’ di sangue dal polso e firmo. È finita!
No, c’è un’altra pagina che mi attende. Ormai firmo in automatico. Potrei avere sotto il naso i Panama Papers senza accorgermene ed essere appena diventato firmatario di una ditta di smaltimento rifiuti per il riciclaggio di denaro sporco. Alle orecchie mi giungono chiaramente voci di disperati che m’intimano di andarmene. Eppure nella stanza ci siamo solo io e mia moglie. I bambini sono a letto. Non capisco. Che siano le voci degli svedesi che mi invitano a partire per le Canarie in inverno?
Scuoto la testa e giro la pagina successiva. Sì, perché le pagine non sono ancora finite. A ogni nuovo foglio da sottoscrivere sento sempre più caldo. Mi chiedo se i miei figli abbiano acceso il forno per gioco come fanno di solito. Controllo ossessivamente circa una cinquantina di volte, ma la manopola del forno è sempre sullo zero.
Firmando col sangue pagina dopo pagina mi sto dissanguando. Manca poco alla fine della pila di scartoffie che mi ritrovo sul tavolo, ma io continuo a sudare. La pressione si abbassa, la vista si appanna e io comincio ad avere le visioni. Ora davanti a me vedo un dottore. Sono finito in ospedale? No, non è un dottore qualsiasi questo è un dottore del XVI secolo. Brutto segno: devo aver perso tanto sangue. Il medico ha un abito lungo e nero, un colletto pieghettato bianco, un cappello in testa e parla tedesco. Madonna, sto proprio male! Cerco di ancorarmi alla sedia ma ormai ho perso il contatto con la realtà. Con un ghigno sulle labbra il dottore mi dice “Willkommen im Klub”. Rimango interdetto per qualche secondo. Poi la visione scompare. Ritorno alla realtà. Guardo i polsi: sono sani. Mi guardo in giro: non c’è traccia di sangue. Sono sudatissimo e mia moglie è preoccupata. La rassicuro che ho solo bisogno di un bicchiere di acqua.
Mi alzo a fatica. Vado verso il lavello. Bevo e finalmente capisco.
Quello della visione non era un medico in famiglia di una fiction Rai ma era il Dottor Faust.

venerdì 3 dicembre 2021

RACCONTI – Il servizio

Mi fanno schifo. È scritto in grande sulla lavagna.
— Ripetete insieme a me.
— Mi fanno schifo!
Non li vogliamo. È la frase successiva.
— Su, forza, tutti assieme.
— Non li vogliamo!
Mandiamoli via. L’oratore della lezione odierna indica con una bacchetta la terza frase. Non ha bisogno di esortare il pubblico.
— Mandiamoli via!
Annuisce soddisfatto. Non è un maestro e il pubblico non è fatto di una scolaresca. Non è neanche un leader politico dall’ego ipertrofico di un qualsiasi partito xenofobo che sputacchia saliva e sentenze ogni cinque parole. L’oratore è un guru di un seminario formativo in Svezia. Cammina sul palco con una sicurezza disarmante e assorbe senza battere ciglio sia l’energia delle migliaia di persone presenti nell’anfiteatro sia quella del faro occhio di bue puntato su di lui.
— Molto bene! Noi i clienti non li vogliamo. Ora che questo concetto è chiaro per tutti possiamo andare avanti. Ci sono delle domande?
Si gira a braccia aperte verso il pubblico mostrando chiaramente la scritta “Il cliente ha sempre torto” stampata sulla maglietta nera a collo alto.
— Prima di tutto volevo ringraziarla per le sue parole. Sono di vera ispirazione per tutti noi che facciamo questo lavoro! Grazie mille! Poi volevo chiederle, ma se un cliente mi chiede un bicchiere di vino rosso?
— Tu portane uno di succo di mirtilli.
Il cameriere prende febbrilmente appunti, mentre una ragazza di un call center chiede.
— Se si lamentano che la tariffa telefonica è aumentata?
— Voi ricordate loro che la concorrenza fa prezzi molto più vantaggiosi e suggerite di cambiare. Se sei in difficoltà, fai cadere sbadatamente la linea, ops! Bene… il prossimo là in fondo.
— Scenario ipotetico: mancano dieci minuti alla chiusura del negozio, un ragazzo sta per entrare con passo spedito dicendo che ci metterà un secondo perché sa già cosa comprare. Che faccio?
— Devi essere nuovo come buttafuori, vero? Non ti preoccupare. Siamo qui per imparare. Allora, tu fermi subito il soggetto pericoloso e lo tieni fuori dal negozio… anche se insiste! Il Signore ti ha dato tutta quella montagna di muscoli? E allora usala, perdìo!
Una giovane donna alza timidamente la mano.
— Spesso i clienti stranieri del mio ristorante si lamentano per la tavola non apparecchiata e per i ritardi nella consegna dei piatti. Come posso affrontarli?
— Bella domanda. Sono contento che tu me l’abbia posta. Allora amici ristoratori. Ci pensate voi a ricordare le cinque regole d’oro alla vostra collega?
Un coro di cuochi, camerieri e capi sala riecheggia in tutto l’auditorium.
— 1) Cerca sempre di non rispondere. 2) Se proprio devi farlo, scegli la risposta più sgarbata. 3) Le posate se le prendono da soli. 4) Lancia i piatti sul tavolo come in un saloon del Far West. 5) E soprattutto mai, ma proprio mai sorridere.
— Bravi! Vi meritate un applauso.
Il pubblico esegue.
— Sapete cosa vi dico? Che vi meritate di più. Per voi… per tutti voi ci vuole un premio!
Il pubblico si esalta ed esulta a ogni frase del guru.
— Sì, quest’anno vi siete superati! Siete i più forti. Siete i migliori. E i migliori si meritano una ricompensa. Prima di andare a casa passate dal nostro stand e ritirate lo zerbino “Mal-venuti”, la targhetta “Mi casa es mi casa” oppure il set di sottobicchieri con la scritta “Vattene a fanculo” che compare solo quando il cliente ha già pagato.
Grida di giubilo accolgono le parole del guru. Un commesso di un negozio di elettronica elude la sicurezza e si fionda sul palco per abbracciare il grande oratore. Il momento di tensione viene subito stemperato dal gesto umano del guru che ricambia l'abbraccio dell’invasore di palco e lo riaccompagna tra la folla. Il guru lascia il palco tra gli applausi scroscianti del pubblico. Mentre esce stringe mani e batte il cinque a chiunque riesca a sporgersi in avanti verso il proprio idolo.
 
Mentre in lontananza si sentono ancora i piedi battuti a tempo sugli spalti, le urla forsennate da psicosi collettiva e i cori d’incitamento da stadio ora voglio rivolgermi a te che stai leggendo in questo momento. A te che sei stato rimbalzato come un palloncino a elio da un buttafuori svedese. A te che sei rimasto invisibile agli occhi del cameriere di un bar di Stoccolma mentre cercavi ripetutamente di ordinare. A te che sei stato schifato, escluso, minimizzato, isolato. A te che ti chiedi perché. Sì, proprio a te. Ricorda che non sei solo. Ricorda che diventa tutto più semplice, più facile da digerire, più facile da accettare se provi a immaginare tutto questo: la conferenza annuale del servizio clienti in Svezia.