martedì 27 dicembre 2022

KISSENEFREGA – Il regalo

Tutto è al posto giusto: il numero 21 sulle spalle, la perfetta rifinitura della maglia giallo e blu, il piano bianco dritto e scivoloso, la rotazione e lo scorrimento fluido dei giocatori lungo le fenditure, il disco che viaggia senza trovare resistenza, le mazze da hockey che sferragliano una contro le altre. Tutto è perfetto. Due squadre, Svezia e Finlandia, che si sfidano in una partita che va ben oltre lo sport. Tutto è in ordine: il portiere con la maschera, i due arcigni difensori, le due ali scattanti e l’attaccante centrale pronto a segnare.
Questo è più di un semplice gioco. È più di un desiderio qualsiasi. Questo è il sogno di ogni bambino… quantomeno a partire dal 45° parallelo Nord in su e soprattutto in Svezia. Quello che vi descrivo è il mitico e inimitabile Stiga Play Off, Peter Forsberg Edition 2021. Ovvero l’ultima uscita dell’amatissimo gioco di hockey su tavolo. No, non è il gioco di hockey da tavolo (quello che in inglese viene chiamato air hockey). Non è nemmeno un semplice calciobalilla, biliardino o calcetto. Lo Stiga Play Off Table Hockey è molto di più. È movimento dei giocatori lungo tutto il campo da gioco. È mosse a 360 gradi, statiche o in agilità, passaggi filtranti in profondità o secchi ai lati. È abilità e strategia individuale e di squadra. Questo meraviglioso gioco è l’apoteosi di tut… va beh, avete capito, no? Smettiamola qua. Questo gioco è così amato che esiste pure una federazione che norma regole e tornei: la ITHF, International Table Hockey Federation. Le partite internazionali sono una gioia per gli occhi, se riesci a stare dietro alla velocità delle mosse e dei trucchetti che mettono in pratica gli sfidanti.
Ogni bambino svedese farebbe carte false per avere questo gioco nella sua cameretta. E ora si trova in casa nostra, come regalo di Natale per un bambino speciale che abita qui. Il pacco è stato scartato in fretta e furia. I giocatori, le porte e il segnapunti sono stati montati con la velocità della luce. Ogni mossa è stata eseguita con frenesia, con impazienza ed entusiasmo fino a giungere al tanto agognato momento di poter muovere le manopole e giocare fino alla morte giunta per disidratazione e mancanza di sonno.
Avreste dovuto vedere la sua faccia, i suoi saltelli sul posto per la gioia irrefrenabile. Avreste dovuto gustarvi il momento in cui ha accarezzato per la prima volta le manopole, in cui ha saggiato la scorrevolezza del disco sul piano di gioco, in cui ha inspirato profondamente l’inebriante odore di plastica nuova. Avreste dovuto vedere i suoi occhi lucidi al primo face-off (l’inizio della partita) e la felicità incontenibile e la corsa sotto la curva al primo gol realizzato. Da un lato tutto questo è emozionante e quasi commovente, ma dall’altro anche un po’ inquietante e imbarazzante. In fin dei conti stiamo parlando di un uomo adulto di quarant’anni.

E voi direte: e chi se ne frega di questo regalo? Beh, non prendetevela con me, non è colpa mia… io vi avevo avvisati: rileggete il titolo della rubrica, per piacere!

mercoledì 21 dicembre 2022

IL LAVORATORE – Antibiotici + Probiotici = Biotici?

Disturbi intestinali, un bicchiere d’acqua nella mano destra, due pillole di penicillina nella mano sinistra, una scatola di probiotici sul comodino e tanto mal di denti.
Come sono finito in questa invidiabile situazione?
Semplice. Bastano una tonnellata di stupidità e un pizzico di bugie.
Con stupidità si parla della mia, ovviamente. È vero che potrebbe essere considerato un effetto collaterale della pandemia. È vero che sarebbe potuto succedere lo stesso. Se però posticipi la visita di controllo dal dentista per tre anni di fila per paura che ti trovino qualcosa di brutto, ad esempio una carie gigante dalle sembianze mostruose che attacca i tuoi denti come in un orribile film dell’orrore di serie B degli anni ‘80, per poi ritrovarti con qualcosa di veramente brutto, ad esempio un cadavere in bocca (il mio molare) come in un’atroce verità di serie A degli anni 2020, allora tutto questo si può solo definire come stupidità. Chiunque ne converrebbe, ma non il me stesso degli ultimi anni che ha preferito fare il “maschio duro” e procrastinare tappandosi gli occhi nella speranza che tutti i malanni passino per intercessione divina. Non c’è da stupirsi che gli uomini muoiano prima… o quantomeno che si ritrovino a chiamare il dentista d’urgenza di domenica pomeriggio e farsi crivellare la mascella come in un film di Al Capone.
Passiamo ora alle bugie di questa storiella: qui si devono aprire due sottocategorie.
Prima tipologia o bugie davanti allo specchio: “I miei denti sono sani e non hanno mai avuto grossi problemi”; “È solo un po’ di febbre a 38 che sta scendendo, che sarà mai?”; “Sì, il linfonodo sotto la mascella si è gonfiato, ma se lo guardi da questa prospettiva sembra già meno infiammato”; “Al massimo peggiora, ma non è mai morto nessuno di sepsi… giusto? Giusto?”
Queste e altre simpatiche affermazioni mendaci sono classificabili come le bugie che ho raccontato a me stesso per non chiamare di nuovo il dentista dopo l’intervento d’urgenza. Sotto minaccia di mamma e moglie però ho dovuto richiamare la clinica e farmi dare un nuovo appuntamento.
Seconda tipologia o bugie sulla sedia reclinabile: “Ho avuto febbre a 40 per tre giorni”; “Faccio fatica ad aprire la bocca, a deglutire e a volte anche a respirare”; “Mi fanno male anche le orecchie”; “Il linfonodo è una palla da tennis”.
Queste sono invece le bugie che devo raccontare al medico svedese per farmi prescrivere gli antibiotici. Io pensavo che bastasse far affluire pensieri positivi e tanto, tanto supporto emotivo al mio sistema immunitario, magari con un bicchiere d’acqua e sale, per vincere le infezioni, ma a quanto pare non è sufficiente e servono anche gli antibiotici. In Svezia ottenerli è un’impresa ardua: sono infatti la terzultima nazione europea per uso di antibiotici e non hanno tutti i torti visto che mandati giù come acqua fresca portano allo sviluppo di resistenza di alcuni patogeni. Quindi in Svezia te li prescrivono solo se stai sul letto di morte e sei quasi spacciato. Si capisce subito che l’unica strada percorribile è quella della deprecabile ma essenziale esagerazione dei sintomi.
Eccomi qui quindi con le mie due pillole di antibiotici in mano. A guardarle meglio sembrano delle pepite d’oro del Klondike per la difficoltà che ho fatto per averle. Prima che il dentista ci ripensi e se le riprenda, metto in bocca le pastiglie e butto tutto giù con una bella sorsata d’acqua. Ora mi tocca cominciare con i fermenti lattici per compensare i danni alla flora batterica intestinale. Tutto questo mi lascia con un dubbio: antibiotici più probiotici mi trasformeranno in un batterio biotico?
 
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Ecco il link all’articolo su Il lavoratore:
https://italienaren.org/antibiotici-probiotici-biotici/

giovedì 15 dicembre 2022

IL LAVORATORE – AW

Succede una volta al mese. Di giovedì.
No, non è un nuovo programma televisivo di Giovanni Floris, ma quello che accade una volta al mese, di giovedì, al lavoro da me a Stoccolma.
Per definizione succede sempre dopo una giornata infinita passata ad ascoltare infiniti problemi degli infiniti pazienti della clinica dove lavoro. Quindi spesso sono a pezzi. Torno a casa? No, perché c’è l’inevitabile AW, AKA (Also Known As) After Work. Sì, anch’io trovo che ci siano un po’ troppi acronimi e parole inglesi per descrivere una festa aziendale. Si potrebbe definire più semplicemente come una serata con i colleghi alla quale DEVI* partecipare: per fare squadra, per non sembrare un sociopatico e soprattutto per bere e mangiare gratis. (*Nessuno mi obbliga, è solo il mio cervello bacato che si pone vincoli da solo)
In realtà non succede niente di strano, ma solo le solite cose in quasi qualsiasi festa lavorativa infrasettimanale in Svezia: birrette a bassa gradazione, vinelli di improbabili vigneti italiani, spuntini spesso vegani per andare in contro alle esigenze di tutti, patatine e formaggi puzzoni. Infine lei, l’immancabile zuppetta: di carote, di zucca, di pomodori, di ceci… di qualsiasi verdura che rispecchi la stagione in corso. Sembra che i miei colleghi non possano fare un After Work senza lei, la zuppa. Per fortuna mi piace molto e ne mangerei a chili. O si dice ne berrei a litri? Boh, è come quel vecchio succo Mangiaebevi: non l’ho mai provato perché non sapevo da che parte cominciare.
Dopo aver finito di mangiare, perché è finito il cibo e non perché siamo sazi (maledizione, non sono riuscito a fare il secondo giro di zuppa), si passa ai giochini, giochetti, quiz su qualsiasi argomento, intrattenimenti vari, chiacchiere stimolanti, chiacchiere noiose, chiacchiere spensierate in buona compagnia per scoprire anche i lati non lavorativi dei colleghi. Divertente sì, ma anche faticoso e io purtroppo non duro molto. Sento già il coro di “BUU!” del pubblico, soprattutto dei più giovani. Lo so, ma che ci volete fare, ormai sono vecchio. Non ho più l’età per fare certe cose e i bimbi a casa hanno nascosto le mie ultime riserve di energie in qualche cassetto ben chiuso. La chiave se la sono probabilmente ingoiata… assieme all’ultima cucchiaiata di zuppa.
Non reggo molto, quindi. Dopo un po’ ho già gli occhi rossi, la gola secca e il cervello che va a rilento, saturo di tutte queste parole svedesi che gli entrano dalle orecchie e gli escono dalla bocca e delle quali ormai non si assume più la responsabilità. Giuro che non è (solo) colpa delle birre! Per farla breve sono stanco, a pezzi, distrutto. Vorrei andare a casa ma non posso perché è il turno del mio gruppo di riordinare la cucina dopo la festicciola. Dopo che anche l’ultimo collega ha colto i nostri sguardi minacciosi e ha deciso “volontariamente” di andare a casa, puliamo tutto, facciamo partire le lavastoviglie, spegniamo tutte le luci, inseriamo l’allarme e ce ne andiamo.
Fuori è buio pesto. Vado verso la metro passando vicino al cimitero e ad alcune ditte di pompe funebri che espongono le lapidi nel giardino d’ingresso. Per un attimo mi sembra di vedere Michael Jackson ai bei tempi di Thriller, ma in realtà è solo un passante. Nel dubbio che si trasformi in uno zombie accelero il passo e giungo sano e salvo alla stazione. Nella fretta e nella frenesia di mettere tutto a posto il prima possibile non sono neanche riuscito a guardare l’orologio. Saranno almeno le ventitré e trenta o forse addirittura mezzanotte, penso con la testa pesante e lo sguardo stravolto. Poi guardo il cellulare: diciannove e quarantadue!
E domani si torna al lavoro.

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Ecco il link all’articolo su Il lavoratore:
https://italienaren.org/aw-after-work/

martedì 6 dicembre 2022

KISSENEFREGA – Sei punti

Quest’anno solo sei punti.
Non è il referto della mia cartella clinica dopo un trauma cranico. Non è neanche il conteggio di quello che è rimasto nella mia patente a fine anno. È solo il riassunto di un dramma esagerato da quattro soldi.
I punti li ho collezionati stamattina alle ore 8.05 per strada mentre portavo i miei figli a scuola. Avevo appena lasciato il più piccolo alle sue maestre e mi stavo dirigendo verso l’altro ingresso per portare il bambino più grande. Era una bellissima giornata: fredda ma soleggiata. Una di quelle giornate di dicembre stoccolmese che ti rinfrancano dopo un grigio e buio novembre. Come sempre accade in queste occasioni, camminavo serenamente senza aspettarmi minimamente quello che mi sarebbe successo da lì a pochi minuti. Infatti, svoltato l’angolo del palazzo, proprio mentre tenevo teneramente la mano di mio figlio e rispondevo ai suoi soliti perché, la tragedia era lì pronta ad attendermi. Era bastato sporgere la testa per vedere la prima pallottola sfiorarmi l’orecchio. Spinto dall’inerzia e ancora confuso sull’accaduto ho continuato a camminare fino a ritrovarmi a pochi metri dall’aggressore. A quel punto non c’era modo di evitare la mitragliata che mi ha colto al petto. Non ho fatto in tempo a reagire. Non ce n’era proprio la possibilità. La scarica di colpi mi ha piantato lì sul posto e mi ha fatto accasciare senza speranza.
Ho guardato in faccia mio figlio che non aveva ancora ben capito che cosa fosse successo. Avrei voluto dirgli addio, ma non ne ho avuto tempo. La mia attenzione era troppo focalizzata sul bersaglio di quella mitragliata. Ho controllato il petto e l’addome con lo sguardo angosciato di chi già sapeva quello che avrebbe trovato. Del sangue, però, non c’era traccia. Non ero morto. Non ero neanche ferito. Sono rimasto fermo e zitto per un paio di secondi, stupito della piega degli eventi. Poi purtroppo ho capito. Quelli che avevano trafitto il mio corpo non erano proiettili, erano note musicali. Di una specifica canzone, una che può farti fuori anche senza ucciderti.
Ho imprecato ad alta voce. Gli uccellini sugli alberi hanno smesso di cinguettare e sono volati via dai rami. I bambini hanno interrotto i loro giochi con la neve e sono rimasti a bocca aperta. Nonostante avessi parlato in italiano gli altri genitori si sono girati a guardarmi con repulsione. Hanno sicuramente capito il contenuto delle mie frasi dall’intonazione colorita. Oppure erano italiani anche loro. No, impossibile, se fosse così probabilmente avrebbero riso (in realtà se fossero italiani avrebbero pasta, ma non mi voglio soffermare sui dettagli). In lontananza ho sentito un lupo ululare nella notte. Le lancette dell’orologio del campanile si sono bloccate e… va beh, basta. Immagino abbiate capito.
Le note che mi hanno messo fuori gioco erano quelle di “Last Christmas” degli Wham! Il mio Whamageddon 2022 finisce qui: 6 dicembre, quindi sei punti.
Lo so, ho esagerato. Non è una tragedia. È solo un gioco stupido su internet che giunge al termine… e arrivederci al prossimo anno. La mia vita continua come prima. Non ci sarà nessun problema per me.
— Papà, cos’erano tutte quelle cose che hai detto col cane, il porco e la bestia? Erano divertenti… posso insegnarle ai miei amici? Posso raccontarle alla mamma?
Oh no, mi sbaglio. Ora sì che sono nei guai.
 
E voi direte: e chi se ne frega del Whamageddon? Beh, non prendetevela con me, non è colpa mia… io vi avevo avvisati: rileggete il titolo della rubrica, per piacere!

mercoledì 30 novembre 2022

RACCONTI – Remember, remember…

Remember, remember...
Atto unico

Novembre. Prova generale dello spettacolo “Sentiamoci bene” in un teatro di periferia di Stoccolma.
REGIA — (Sul palco dà indicazioni agli attori. È incazzata, come sempre) Porca miseria Salute, siamo professionisti! Non siamo qui a fare le cose per sport!
SPORT — Che c’entro io ora?
REGIA — Non ho detto per Sport… ho detto per sport, è chiaro?
SPORT — Chiaro, chiaro!
REGIA — Allora, dove eravamo rimasti? Ah sì, siamo professionisti. Lo so che l’ultimo mese di prove ha fatto schifo, ma domani abbiamo la prima e dobbiamo fare gli ultimi sforzi!
SALUTE – Va bene, capo. Mi spremo ancora un po’. Entro in scena e mi metto subito a sgobbare.
REGIA — Esatto! Così ti voglio. (Pausa durante la quale esce di scena e si mette in cabina di regia) Bene. Ricominciamo.
 
SALUTE — (Recitando e trascinandosi in scena) È mercoledì… uff… ora di pranzo... troppo tardi per sentire l’effetto rinvigorente di domenica scorsa e troppo presto per puntare al fine settimana successivo… uff… dovrei prendermi una pausa… Sì mi sa tanto che mi prendo un giorno libero! (Pausa più lunga)… mi prendo una pausa, un giorno libero… (pausa ancora più lunga)… non lavoro… uff…
 
REGIA — (Da fuori scena) Stop! Ma si può sapere dove cazzo è Lavoro? (Grida) Lavoro!
TUTTI — (Gridano e cercano dietro le quinte) Lavoro!
SPORT — (Rivolgendosi in regia) Coach, ho cercato di corsa dappertutto e non lo trovo.
REGIA — Ma come è possibile. Pensavo che fossimo tutti qui. (Al tecnico audio/luci) E tu perché ridi?
TECNICO — (Sghignazzando sotto i baffi) Non sto ridendo.
REGIA — Qualcuno di voi ha visto Lavoro a inizio prove?
LAVORO — (Entra trafelato dall’ingresso del teatro. Ha il fiatone e fatica a parlare) Eccomi! Scusate… è che… è che stamattina… è successo qualcosa di strano… (il tecnico ridacchia) non so bene come ma… ma mi è suonata la sveglia più tardi e quindi ho fatto tutto con un’ora di ritardo.
REGIA — (Capisce tutto e parla al tecnico) Sei stato tu vero?
TECNICO — (Cerca di trattenere le risate) A fare cosa?
REGIA — Hai spostato la lancetta dell’ora indietro di un’ora nella sveglia di Lavoro così è arrivato in ritardo.
TECNICO — (Non si trattiene più) Ma no… sarà stato il mio predecessore. Come potrei averlo fatto io! Non è legale! (Scoppia a ridere)
REGIA — Ma io ti ammazzo, sai! (Lo insegue) Io ti caccio a calci in culo! (Rinuncia a prenderlo e si ricompone) Andiamo avanti dai. Allora, ora Lavoro è pronto e si mette in posizione. (A Lavoro) Mi raccomando, interrompi Salute quando vuole prendersi un giorno di vacanza, ok? Andiamo!
 
SALUTE — (Recitando e trascinandosi in scena) È mercoledì… uff… ora di pranzo... troppo tardi per sentire l’effetto rinvigorente di domenica scorsa e troppo presto per puntare al fine settimana successivo… uff… dovrei prendermi una pausa… Sì mi sa tanto che mi prendo un giorno libero!
LAVORO — (Recitando) No! Non puoi! (Risata satanica) Non te lo permetterò. Non ti do le ferie. In vacanza ci vai solo a Natale!
SALUTE — Eh dai. Almeno un giorno. Non chiedo tanto.
LAVORO — No, devi lavorare per me ininterrottamente fino al 24 dicembre.
SALUTE — Non ce la faccio. Sto male. Mi manca la vitamina D e poi… (pausa. È confusa perché vede cadere foglie gialle, arancioni e rosse dal soffitto)
LAVORO — (Cerca di improvvisare) E poi, cosa? Un’altra delle tue lamentele?
 
REGIA — (Sussurra al tecnico) Ma che cacchio stai facendo?
TECNICO — Ah, non dovevo farle cadere ora?
REGIA — No, imbecille! Le foglie sono già cadute nel primo atto. Falle smettere. (Più ad alta voce agli attori in scena) Andate avanti, fate finta di niente.
 
SALUTE — (Recitando) E poi se non mi dai ferie io ti lascio e vado con Famiglia e mi faccio mantenere da Hobby!
LAVORO — (Ride fragorosamente) Questa è bella! Ti fai mantenere da Hobby? Chi quel nanerottolo con l’aria sognante? Ma se non riesce a mantenere neanche sé stesso.
BUIO
 
LAVORO — Ma come? Buio così presto?
TECNICO — Beh, sul copione c’è scritto così.
REGIA — No, no e no! Non ci va il buio adesso. Stai leggendo il copione vecchio.
TECNICO — Non è possibile: il copione è sempre lo stesso ogni anno.
REGIA — E invece quest’anno abbiamo deciso di cambiarlo.
TECNICO — Ma non si può…
REGIA — Si può, si può. Io sono Regia e io decido. Ora fai il bravo e metti su una bella luce gialla forte. Apri tutto. Smarmella la scena!
 
LAVORO — (Recitando) Questa è bella! Ti fai mantenere da Hobby? Chi quel nanerottolo con l’aria sognante? Ma se non riesce a mantenere neanche sé stesso.
SPORT — (Entra con due barattoli in mano) Non ti preoccupare Salute. Ti salvo io: ecco le endorfine… e se vieni fuori con me ti do anche questa.
SALUTE — Cos’è?
SPORT — Vitamina D.
SALUTE — Ah… temo che non mi basti.
 
REGIA — (Tra sé, mentre gli altri recitano) Che è sta luce? (Sottovoce al tecnico) Ti ho detto luce gialla forte, non grigia e triste. Che roba hai fatto? Alza. Oh, alza! (Si guarda attorno) Ma dov’è? Dov’è sparito quell’imbecille…
HOBBY — (È un tipo basso. Entra piangendo) Il tecnico mi ha insultato.
REGIA — Cosa?
HOBBY — Ha detto che non valgo niente e che non andrò mai da nessuna parte.
REGIA — Ma non è vero!
HOBBY — Ha detto che sono sopravvalutato e che tutte le bugie che mi racconto hanno le gambe corte… e poi ha indicato le mie gambette! (piange più di prima)
TECNICO — Non ho detto proprio così… e comunque lo pensano tutti qua dentro ma nessuno lo dice…
REGIA — Stai zitto tu, disgraziato! (Si avvicina a Hobby come una mamma premurosa) Hey, hey, hey… vieni qua! Tu sei piccolo sì, ma hai un sacco di energia che trasmetti a tutti. Se non ci fossi tu Salute starebbe da schifo!
SALUTE — Beh, a dire il vero, le paranoie di Hobby non è che mi fanno stare sempre così bene…
TECNICO — Vedi che ho ragione!
REGIA — (Dà un’occhiataccia a Salute e al tecnico) Ssst! Insomma. Stiamo cercando di recuperare la tenuta psicologica di un collega in difficoltà.
FAMIGLIA — Ci penso io! (abbraccia Hobby che un po’ alla volta smette di piangere)
HOBBY — Sto già meglio.
REGIA — Grazie Famiglia. Cosa farei senza di te. (Famiglia lo tiene stretto) Sì, ma ora lasciami stare. Staccati dalle mie gambe.
SPORT — Poi ci do un’occhiata anch’io: con una bella cors…
TUTTI — (Lo anticipano) …corsetta all’aria aperta o un po’ di esercizio in palestra passa tutto in fretta!
REGIA — Lo sappiamo Sport. Lo sappiamo.
SPORT — E allora perché non lo fate?
REGIA — (Pausa d’imbarazzo) Hm… andiamo avanti. Ci siamo tutti? (Gli altri annuiscono) Bene.
 
SPORT — (Recitando. Entra con due barattoli in mano) Non ti preoccupare Salute. Ti salvo io: ecco le endorfine… e se vieni fuori con me ti do anche questa.
SALUTE — Cos’è?
SPORT — Vitamina D.
SALUTE — Ah… temo che non mi basti.
FAMIGLIA — Certo perché hai bisogno anche dei miei abbracci.
HOBBY — …e della mia neve!
 
REGIA — Stop! Neve? Come neve?
HOBBY — Ne ho trovata una montagna proprio dietro l’angolo.
REGIA — (Al tecnico) Dimmi che tu non c’entri niente!
TECNICO — Ma un po’ di neve ci sta, dai! È il periodo giusto.
REGIA — No, noi non la vogliamo. (Agli altri) Vero?
TUTTI — No, non vogliamo la neve!
REGIA — Ecco. Visto? Niente neve. Bene, ora ricominciamo: entra Famiglia e dice “Certo perché hai bisogno dei miei abbracci.” E poi Hobby dice “…e della mia penna!” Non della mia neve. Andiamo, dai. Tutti in posizione. E Luci. (Pausa) Luci! (Pausa) Ho detto luci!
TECNICO — Stavo spalando la neve, ora le met…
REGIA — (Sbotta contro il tecnico) Oh, senti Novembre, hai rotto il cazzo! Sei il peggior tecnico luci che abbia mai visto per il nostro spettacolo “Sentiamoci bene”. Sei licenziato!
TECNICO — Mah, io… veramente…
REGIA — Ce la caveremo anche senza di te. Anzi, guarda: il tuo sostituto è già pronto alle porte d’ingresso. Fatelo entrare, va’.
DICEMBRE — (È un tipo grassottello, con barba e baffi bianchi, vestiti larghi rossi e bianchi. Entra un po’ impacciato, tutto aggrovigliato nelle luci multicolori natalizie. Ha un sorriso smagliante) Oh oh oh! Saluti a voi gente! Ho pensato a una canzoncina che scalderà gli animi. (Fa partire “Last Christmas” degli Wham!)
REGIA — (Mettendosi le mani davanti alla faccia) Oh mio Dio! E domani abbiamo la prima!
 
BUIO (Questa volta per davvero)

venerdì 25 novembre 2022

IL LAVORATORE – Neve!

Sabato
Neve! Che bello: tanti piccoli fiocchi bianchi che cadono dal cielo e illuminano la giornata. Corro a prendere lo slittino (no, non perché lo voglio io, ma perché lo vogliono i miei figli, sia chiaro), scendo in cortile con carote, fagioli e un peperone per fare un minestr… no, per decorare la faccia del pupazzo di neve gigante, preparo un igloo per poterci restare la notte e risparmiare un po’ sulla bolletta del riscaldamento e costruisco una barricata per la colossale ed epica battaglia a palle di neve tra famiglie del vicinato.
 
Domenica
Mi sveglio presto la mattina (no, non perché lo voglio io, ma perché lo vogliono i miei figli, sia chiaro) e scosto le tende della camera: neve. Evviva! Ne è scesa altra anche durante la notte e ora tutta la città è veramente ricoperta da un soffice strato di gelato pronto ad essere assaggiato nei suoi mille candidi gusti: fiordilatte, crema, cocco, vaniglia, limone, cioccolata… hm no, bambini, gli ultimi due gusti lasciateli stare. Mi tuffo a testa sul cumulo di neve dal balcone di casa anche se so che dovrò mettere ad asciugare tutti i vestiti sul termosifone per tutta la notte, ma chissenefrega, ormai non succede così spesso di godersi queste belle giornate.
 
Lunedì
Ha nevicato ancora: tutta la notte e tutto il giorno. Evviv… no, ora Ebbasta! Oggi è un lunedì qualsiasi di fine novembre e si lavora. Non voglio affrontare l’Odissea del viaggio in metro, arrivare fradicio in ritardo e dover comunque constatare che i miei pazienti gradualmente cancelleranno tutte le visite della giornata fino a ritrovarmi con gruppi di terapia formati da due persone: io e una altra persona, la mia collega.
 
Martedì
Slask! Questa è la parola del giorno da imparare in svedese. Credo che si possa tradurre come fanghiglia, quella che si forma quando c’è ancora tanta neve ma molta di essa comincia a sciogliersi perché siamo ancora sopra lo zero. Poltiglia che forma delle simpaticissime pozzanghere di acqua e melma sui bordi delle strade. Un miscuglio malefico che neanche una strega incazzata potrebbe pensare di preparare.


Ah, la neve a novembre. Quanti ricordi… la mia mente corre subito al 2016, per esempio, quando mio figlio aveva circa 5 mesi, mia moglie era a casa in maternità e io assonnato ero al lavoro, bloccato dalla neve caduta copiosa a formare uno strato di circa 40 centimetri. Fu la peggiore tempesta degli ultimi cent’anni. Non male se ti trovavi dall’altra parte della città, il servizio pubblico era inesistente e tutti i taxi occupati e/o bloccati. L’unica soluzione fu farsi una decina di chilometri a piedi nella tratta Nacka-Stoccolma, in compagnia di colleghi e migliaia di altri lavoratori desiderosi di tornarsene al calduccio di casa. Una bella passeggiata di salute, respirando gas di scarico di tutte le macchine imbottigliate nel traffico a colonna ininterrotta tra periferia e città.
 
Ritorno al presente ma non sembra essere cambiato molto: ritardi della metro talmente alti da far invidia a Trenitalia; tratte dell’autobus cancellate con i gestori del trasporto pubblico che come ogni anno cadono dalle nuvole assieme alla neve, sorpresi dal clima di novembre; automobilisti che spalano metri di neve attorno all’automobile con la paletta della sabbia dei figli per uscire dal parcheggio e appena possono scivolano letteralmente via sulle strade ghiacciate. Mi scappa un ghigno maligno al pensiero di quei coglioni che sono stati così sprovveduti da non essere ancora passati alle gomme invernali… ma il sorrisetto mi si ferma in gola. Aspetta un momento: merda, io sono uno di loro!

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Ecco il link all’articolo su Il lavoratore:
https://italienaren.org/neve/

lunedì 14 novembre 2022

RACCONTI – I corti (2)

143380… 2388… 39,8…
Bevo un caffè amaro. Ne bevo un altro.
142200… 2370… 39,5…
Dovrei cominciare a fare qualcosa.
139500… 2325… 38,75…
Non ho voglia di andare avanti ma devo. (Devo davvero?)
136800… 2280… 38…
Bevo un terzo caffè. Basta!
134400… 2240… 37,3333333333…
Sono troppo nervoso (ma va’?) Non ce la posso fare.
131220… 2187… 36,45…
Sto impazzendo. Sto dando i numeri.
130500… 2175… 36,25…
Tra poco ci sarà il pranzo e ci sono ancora:
129900 secondi… 2165 minuti… 36,083 ore…
tra me e venerdì pomeriggio… e poi la prima settimana di lavoro dopo una di malattia sarà finita.
 
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Devo rimanere fermo. Devo tenere gli occhi chiusi. Sono costretto a letto. Il sensore è posizionato sulla mia carotide. Si assicura che il mio battito sia presente, che io sia presente. Non ho scampo. Se solo provo a muovermi di un centimetro mi pianta le unghie sui fianchi e minaccia gli zebedei con le ginocchia. Fa male solo a pensarci.
Se uno dei due mi blocca, l’altro mi costringe a parlare. Non vorrei, ma devo. Devo raccontare tutto. Non bastano una, due o tre volte. No, devo raccontare proprio tutto. Quando ormai la voce è rauca e la presa sul collo si è allentata, loro sono soddisfatti.
Li sento russare. È il segnale. È il momento di andarsene. Molto lentamente. Molto silenziosamente. Altrimenti sarebbe la fine per me. Metto un pupazzo al mio posto ed esco dalla camera dei bambini dopo una maratona di storielle e di racconti.
 
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C’è un momento nella vita nel quale hai tutto quello che vorresti: compagnia di buoni amici, musica per le tue orecchie, cielo limpido e stellato sopra la tua testa. Tutto gira per il verso giusto e tutto ti è chiaro davanti agli occhi. Ti gusti una birra fresca in una calda sera estiva. Non potevi chiedere di meglio. Sei felice.
All’improvviso, però, succede quello che non ti aspettavi. Succede quello che più temevi e che assolutamente non volevi.
In un attimo tutto cambia e la vista si occlude. Cerchi di cambiare le cose ma la situazione non si smuove di un solo centimetro. Provi a fare quello che puoi ma ti senti impotente di fronte a qualcosa di così alto. Non ci vedi più dalla rabbia. La frustrazione prende il sopravvento. Cerchi di goderti lo stesso la serata, ma sai che non è più la stessa cosa. Nel frattempo la birra si sgasa e la musica finisce.
Il concerto dei vegliardi Jethro Tull è stato comunque bello (55 anni di attività e non sentirli) ma sarebbe stato sicuramente meglio senza uno spilungone Telespalla Bob che si siede nel posto davanti al tuo appena iniziato il concerto.

mercoledì 9 novembre 2022

RACCONTI – La bisca

La stanza è avvolta in una nuvola di fumo. Il lampadario a sospensione illumina solo il tavolo da gioco e il resto è in penombra. La luce scende dal soffitto come una vedova nera che tesse la sua tela. Di veleno se ne vedrà molto stasera. Tutti ne sono certi.
Le carte sono state mescolate a dovere. Nessuno ha imbrogliato. Le bevande forti sono state servite su bicchieri tumbler colmi di cubetti di ghiaccio. I dadi e le monete tintinnanti sono sparse ai lati. Tutto è disposto come da copione sulla tovaglia verde perfettamente tesa. Il tavolo da gioco è dunque pronto.
Mancano solo loro: i giocatori!
 
Il primo a entrare è il campione in carica e il protagonista assoluto di queste serate. Lui è il Boss. Lui è l’esperto. Ha fatto di questo gioco non solo una passione, ma quasi una professione e uno stile di vita. Entra spavaldo e deciso nella sala. È concentrato sul suo obiettivo. Non si lascia distrarre dal fumo e si siede al tavolo. Appoggia i gomiti sul tavolo e allunga la mano verso il suo bicchiere. In questo modo mostra il tatuaggio a forma di teschio che ha sull’avambraccio destro. Lui è un duro. Non osate dirgli che quello che ha sul braccio è un trasferello e che quello che sta bevendo non è whiskey ma coca-cola allungata con l’acqua. Rischiereste la vita.
 
Nel momento in cui appoggia il tumbler sul tavolo entra il suo primo sfidante. Lui è il Vecchio. I suoi occhi non si sono ancora abituati alla poca luce della stanza e sbatte il piede sullo stipite della porta. Fa finta che non si sia fatto niente per non dare un vantaggio psicologico al suo avversario. Tossisce per il fumo che abbonda nella stanza ma dice che sono i postumi di un brutto raffreddore di qualche settimana fa. Si avvicina al tavolo da gioco e si siede massaggiandosi la schiena per i dolori. Dà la colpa al tavolo da gioco troppo basso ma in realtà è l’età che avanza. Lo sa lui. Lo sa il Boss. Lo sanno tutti. Può sembrare un po’ rincoglionito ma appena ti distrai ti frega. È la sua tecnica.
 
Poi entra lei. Quella che tutti vogliono. Quella che tutti bramano. Lei è la Gnocca. Ancheggia appena scosta le tendine che la separano dal salone da gioco. Fa l’occhiolino a destra e sinistra. Sorride a ipotetici fotografi. Alla fine manda un bacio volante al Vecchio e dà una carezza sulla testa al Boss. Poi si siede… sul posto sbagliato. Gli altri la fissano e le fanno capire l’errore. Si rialza e va al posto giusto. Beve un sorso, ma dal bicchiere del Vecchio lasciando le impronte del rossetto sul bordo. Chiede scusa e ridacchia spensierata. È confusa? È solo una tecnica micidiale? Nessuno l’ha mai capito. Nemmeno lei. Lei guarda i suoi avversari e si sporge in avanti per scrutare le sue carte. Lei fa sempre così: ti distrai a guardarle le tette e a fine partita di lascia in mutande.
 
Infine arriva anche il più piccolo. Entra quasi di corsa alla ricerca di qualcosa… o per meglio dire di qualcuno. Appena vede la Gnocca infatti le passa vicino e la bacia sul collo lasciandole un filo di bava che gli è uscita dalla lingua a penzoloni. Solo dopo aver soddisfatto questo suo vizietto si accorge dello sguardo allibito degli altri. Così si ricompone, aggrotta le sopracciglia e raccoglie la sfida… che nessuno gli ha lanciato. Ti gela con i suoi occhi azzurri ghiaccio. Ha la pelle morbida e liscia ma spessa come una corazza. Lui è Baby-face. È competitivo al massimo: se provi a buttare giù le carte giuste per vincere, ti minaccia di piangere fino alla mattina successiva, poi si asciuga il moccolo sulla tua camicia e ti batte senza pietà. Se alla fine vince ti sfotte per una settimana.
 
Ora sono tutti pronti. Uno contro uno, uno contro tutti, tutti contro tutti.
Con il proprio mazzo in mano gli sfidanti si guardano di sbieco e trasudano agonismo misto a un filo di paura reciproca da tutti i pori. Si guardano attorno sospettosi e non si fidano di nessuno. Nemmeno della propria mamma. I preamboli sono ormai agli sgoccioli. È ora di iniziare a fare sul serio. Adesso i quattro giocatori sono uno di fronte all’altro e hanno le carte in mano. Qualcuno giubila, altri imprecano. Sono solo strategie di distrazione? Bluff? Solo la fine della partita ce lo dirà. Ognuno di loro posiziona alcune delle proprie carte dal dorso colorato sul campo da gioco, le altre si tengono in mano. Si lancia una moneta per determinare a chi spetta il primo turno e poi tutto può finalmente avere inizio.
La tensione taglia l’aria come una paletta scava nella sabbia fresca ma c’è poco da attendere. Si entra subito nel vivo con attacchi spietati, difese serrate, combinazioni di carte imprevedibili, colpi da maestro e attente pianificazioni. Chi sopravviverà fino all’ultimo? Chi avrà abbastanza energia da lottare ancora? Chi porterà a casa l’ultimo premio?
Solo i giocatori che sono disposti a sputare sangue per la propria squadra saranno in grado di dare risposte a queste domande. In fondo è proprio questo il bello di questo gioco. Questa è la grandezza di una partita di carte poke… poker? No, di una partita di carte Pokemon.

martedì 1 novembre 2022

RACCONTI – Lo straccio

Fuori piove. Anzi no, peggio: pioviggina. Quelle dieci gocce d’acqua al minuto che non richiedono l’ombrello e che aumentano l’umidità e ti bagnano i vestiti.
Fuori è buio. Non nero come la notte. È grigio come un topo. Che è peggio. Perché mette tristezza e incupirebbe anche Pippo o Gongolo dei sette nani.
Guardo il lavello. È pieno di piatti sporchi. Sono lì da ieri sera (o forse sono lì da sempre). Dovrei lavarli ma non ne ho voglia. Lì vicino lo straccio rosa mi aspetta e mi fissa con disprezzo. Sembra che mi dica che dovrei fare qualcosa per migliorare la situazione del lavello, ma oggi no. Oggi non ce la faccio.
Lo straccio però resta lì, davanti a me e non si muove. Non mi lascia andare via. Mi chiedo che cosa gli abbia fatto di male per guardarmi in quel modo. Mi chiedo che cosa voglia da me.
Lo straccio è logoro, strappato ai lati, ha diversi buchi al centro. È adagiato mollemente sulla pila di piatti. Se ne sta lì flaccido ma sembra che stia per cadere da un momento all’altro per farsi inghiottire dalle tazze e dai bicchieri ricolmi di liquame giallognolo e fondi di caffè. Sta in bilico tra il farsi sommergere da altre posate sozze o dal farsi travolgere da un’ondata di acqua gelida e detersivo.
Mi fa pena vederlo così mal messo.
Il lavandino sgocciola con regolarità in cima alla montagna di cose da lavare. Un piatto perde l’equilibrio, si sbilancia e crea una cascata di miscela di acqua e olio sul povero straccio. Lui cerca di ripararsi, piegandosi e sporgendo le braccia, ma non serve a nulla. È l’ennesima doccia fredda di questa giornata uggiosa. Non c’è niente da fare. Oggi non è la sua giornata. A dire il vero va avanti così da lunedì. Questa settimana non è la sua settimana. Da lunedì scorso. Questo mese non è il suo mese. Dovrebbe fare qualcosa per invertire la tendenza. Non so come… magari trovando un posto asciutto, lavando i piatti in Arno oppure sturando lo scarico per far scendere tutta la melma che c’è nel lavello. Nah, non ce la fa. Oggi non ce la fa. Domani, magari.
Lo straccio è sudicio, imbrattato, unto. Il rosa iniziale è ormai diventato un marroncino a chiazze nere. A vederlo così mi fa proprio schifo. Mi avvicino per guardarlo meglio e… bleah! Puzza. Emana fetore di pesce, di uova scadute, di verdura andata a male, di… di marcio. Di marcio ma con un leggero retrogusto di detersivo chimico alla brezza di mare. Una meraviglia insomma. Cerco di allontanarmi ma lui mi fissa di nuovo con sdegno. Non posso andarmene così.
Lo straccio andrebbe cambiato ma non si può. Me lo devo tenere così com’è. O forse potrei cambiarlo, ma costerebbe tempo e fatica. Non è ho voglia. Non ce la faccio. Oggi no. Domani, magari.
Così lo lascio lì zuppo e fradicio. Ripiegato su sé stesso che chiede pietà. Ridotto quasi a brandelli ma che in un modo o nell’altro fa il suo lavoro, che funziona. A volte mi chiedo come faccia, ma ce la fa. Nonostante sia così trasandato, anche oggi ha dato il suo contributo. Oggi sì. Domani, magari.
Forse c’è speranza. Basta che passi un’altra giornata e poi si vedrà.
Fuori non piove, pioviggina. Fuori è buio, non nero ma grigio. Il peggio che il clima possa offrire. Così non è certo d’aiuto.
Mi giro di nuovo verso lo straccio, ma quello che ho guardato finora non era il lavello, ma lo specchio.

giovedì 27 ottobre 2022

IL LAVORATORE – Delizie gialle

Sì! Le ho viste!
Ebbene sì. Le ho già viste. Sono al supermercato.
Mi hanno messo subito il buonumore. Io le adoro. Sono le gatte di Lucia. Buonissime. Ogni anno ne mangio a più non posso consapevole di avere un tempo limitato prima che non se ne trovino più in giro. Le mangio a colazione, pranzo, cena, merenda e anche come spuntino di mezzanotte. Sono insaziabile. Le gatte di Lucia mi fanno impazzire. Sono deliziose da sole, magari accompagnate da un caffè o un succo di frutta, ma anche imbevute nel latte se si sono un po’ seccate. Le preferisco semplici senza tante altre aggiunte, ma non mi tiro indietro se le gatte sono farcite di pasta alle mandorle o adornate di uvette.
No, non sono un sadico vicentino che si gusta felini in diverse salse. Quello che vi descrivo sono le Lussekatter, traducibile come le gatte di Lucia appunto, un tradizionale dolce svedese del periodo natalizio.
Vi ho già detto che le amo? Sì, vero… ma mi ripeto. Mi piacciono da morire quei panetti gialli, soffici e dolci al gusto di zafferano. Se fatti (bene) in casa sono un orgasmo per il palato quando la pasta ti si scioglie in bocca al contatto con la lingua. Con la loro tipica forma di numero otto o del segno dell’infinito sono una dipendenza dalla quale non si vede una fine. L’aroma di questo pasticcino caldo appena sfornato s’insinua come un serpentello nelle narici e mi costringe a ingurgitare quantità illimitate di questo dolcetto ben oltre il livello di sazietà. Le Lussekatter sono un peccato di gola, una tentazione diabolica che non mi lascia mai scampo (alcuni infatti ritengono il nome abbia origine da Lucifero).
Di solito le Lussekatter si consumano prevalentemente attorno al giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre, e anche se le amo alla follia (non ricordo di averlo scritto quindi lo ripeto per sicurezza) siamo pur sempre a fine ottobre. Mi sembra un po’ troppo presto per abbandonarmi tra le braccia di quell’impasto morbido e invitante e a quella superficie dorata e luccicante… mmm! Devo trattenermi. A fatica, ma devo farlo. Le gatte di Lucia dovranno aspettare. Ora compro solo il latte che mancava per la colazione di domani e poi torno dritto a casa per cena.
 
BLIP
— Signore, vuole una busta per portarsi via il chilo di Lussekatter che ha appena comprato?
— No, non serve. Le mangio subito. Dove devo pagare?
 
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Ecco il link all’articolo su Il lavoratore:
https://italienaren.org/delizie-gialle-roberto-riva/

venerdì 21 ottobre 2022

IL LAVORATORE – L’istituzione per eccellenza

Imprescindibile. Impareggiabile. Inimitabile. Inevitabile.
Non sto parlando del re, del senso civico svedese e neanche del welfare. No, qui si tessono le lodi di un elemento imprescindibile, un’istituzione appunto, non solo della cucina ma anche della società svedese. Polpette IKEA? Scansatevi. Kanelbulle, chi? Pancakes? Ma neanche per idea. Sto parlando di lui, l’idolo delle folle, il re della tavola, il dominatore del gusto… il mitico korv. Non mi riferisco al falukorv (quella specie di salvagente rosso tipico della cucina svedese) ma al comunissimo e universale korv che si trova nel baracchino sotto casa. Sì perché sotto ogni casa in Svezia, o quantomeno a Stoccolma e nelle grandi città, si può facilmente trovare l’immancabile chiosco che vende korv, che più sono luridi e unti e più sono buoni. In questi casi, infatti, vengono amichevolmente soprannominati korvazzi, soprattutto se ingurgitati alle tre di notte mentre si aspetta il bus notturno dopo una serata di bevute con gli amici.
Il korv non è una salsiccia e non è un wurstel o un hot-dog. Cioè sì, può essere entrambe le cose, ma in realtà è molto più di questo. È un punto fermo della società. È un’ancora di stabilità economica e identitaria. È una coperta di Linus per gli abitanti di questo paese.
Il korv lo trovi principalmente in due formati che portano a dubbi amletici davanti al menù del suddetto chioschetto stradale: grillad oppure kokt (attenzione amici anglofoni, non è una parolaccia). Può essere tradizionalmente di carne o vegano per rispettare ogni ideologia. Può avere chiare influenze teuto-italo-ispaniche oppure essere nostrano. Qui non si fa nessuna differenza, non c’è niente di strano in questo.
Il korv è come il prezzemolo. Sta bene dappertutto. A colazione (eh lo so, anche gli svedesi hanno difetti), a pranzo, a cena e come spuntino, sia prima che dopo la mezzanotte. Lo trovi alle feste dei bambini, alle riunioni condominiali, agli eventi sportivi, al festival del korv a Stoccolma e Göteborg (rispettivamente in giugno e novembre), nelle case della classe media e anche nei ristoranti di lusso. Sta bene con le patate, fritte o lesse, col pane, il ketchup e la senape, nella pasta come “salsa” (eh lo so, anche gli svedesi hanno difetti), nello stufato. In pratica non stufa mai.
Il korv non guarda al colore della pelle, all’orientamento sessuale, allo status sociale. Elargisce amore a prescindere. Sfama tutti, incondizionatamente: dal più grande al più piccino; dall’operaio stanco dopo una giornata di lavoro intensiva e fredda, all’imprenditore che ne afferra uno di fretta tra una riunione e l’altra; dal genitore indaffarato col passeggino al giovane hipster (che probabilmente se l’è insaccato in casa da solo); dal prete all’ateo; dal re all’anarchico.
C’è dunque un collegamento viscerale tra il korv e la società svedese. C’è una forte componente ereditaria nella predisposizione degli svedesi alla consumazione di korv in ogni momento e luogo. Ci deve essere una specie di imprinting genetico nelle cellule scandinave che portano all’amore per questo piatto. Non riesco a darmi altra spiegazione. Non avete mai notato, infatti, che i cromosomi hanno la forma di due korv attaccati al centro? Solo un caso? Io non credo.
Infine, non va neanche sottovalutata l’influenza ambientale. L’esempio sono i miei figli, nati in Svezia da genitori italiani. Cosa scelgono al ristorante davanti al menù con pasta al pesce, pizza, pinsa, piadine, fritture miste? Non serve neanche dirlo. Ovviamente il beneamato korv!
 
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Ecco il link all’articolo su Il lavoratore:
https://italienaren.org/listituzione-per-eccellenza/

mercoledì 12 ottobre 2022

IL LAVORATORE – Il soprammobile

Apro la porta e la campanellina suona. Il proprietario mi guarda con aria disinteressata e continua a compilare i suoi libri e controllare i cataloghi. Io comincio a guardarmi attorno.
Il negozio di souvenir è molto fornito. Trovo quadretti con paesaggi idilliaci, bicchierini celebrativi, statuine, magneti da frigorifero e strofinacci ricamati. Niente d’interessante.
Sto per uscire ma un oggetto attira la mia attenzione. Ne ho visti tanti di simili, ma questo è un pezzo unico. È nascosto nell’angolo anche se dovrebbe stare in mezzo al negozio per quanto è bello. Lo raccolgo dal tavolino sul quale era appoggiato. Lo osservo attentamente: è proprio meraviglioso. C’è di tutto, dall’arte al cibo, dalla natura alla tecnologia, dalle persone alla lingua. Quello che lo rende speciale è quello che rappresenta. È una palla di vetro souvenir. Quelle con il liquido e la neve finta. Quella che fa la bufera se la capovolgi.
Solo che questa si agita da sola. Non serve neanche toccarla perché vada sottosopra. E la neve è sempre di meno. Prima fa caldo. Tanto caldo. E secco. Per molto tempo. Afa ardente che brucia foreste e città, che fa sparire fiumi e laghi.
Poi piove. A catinelle e all’improvviso. Acquazzoni che devastano campagne e paesi. Se la distruzione non arriva con il torrente ci pensa il vento. Forte, a raffiche che spazzano via tutto.
E il ghiaccio si scioglie. Velocemente, portandosi dietro cose e persone. Si stacca e scende a valle.
Poi trema la terra. Ferocemente. In diversi punti. Si piega ma non si spezza.
Dopo un po’ sembra che la palla di vetro si sia calmata, ma è solo la quiete prima di un nuovo scossone. Sociale. Politico. Più forte di quello di prima. Si spezza ma non si piega. Si rompe qualcosa e poi l’acqua si tinge di nero.
Cerco di distrarmi Buttando l’occhio da un'altra parte: vedo montagne spettacolari e coste meravigliose, colline fiorite e pianure rigogliose, parchi verdi e città interessanti. Funziona. Non penso più a quello che succedeva prima. Guardo ancora e vedo grandi tradizioni e poca voglia di innovazione, osservo menti eccellenti e spiriti truffaldini, sento risate di cuore e pianti disperati. No, guardare dall’altra parte non funziona poi così bene.
Amo questo souvenir. C’è poco da dire. Come si fa a non volergli bene. Più lo guardo, però, e più mi rendo conto che non posso portarlo via con me. Lo devo tenere a distanza perché basta reggerlo in mano per qualche secondo e già si scuote tutto. Non posso farci niente con un oggetto così instabile. È stupendo, incantevole, sorprendente. Come tutti i soprammobili però è sì bello ma inutile. Lo devo lasciare nel negozio. Lo appoggio sul tavolo. Saluto il venditore che neanche mi risponde impegnato ancora a scartabellare tra i suoi documenti. Apro la porta. La campanella suona di nuovo. Io rimango ancora all’estero… hm, volevo dire all’esterno.
 
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Ecco il link all’articolo su Il lavoratore:
https://italienaren.org/il-soprammobile/

martedì 4 ottobre 2022

RACCONTI – I tassi d’interesse

È crisi.
No, non solo quella mia personale che è poco interessante e non fa notizia perché è sempre presente. Si parla ovviamente della crisi mondiale dei mutui. Tassi d’interesse alle stelle. Portafogli alle stalle.
Che si fa? Bisogna pensare al futuro e anche al presente. Si deve quindi correre ai riparti per cercare di salvare l’economia domestica e non ritrovarsi a mangiare riso e patate per il prossimo decennio. C’è solo una soluzione: riunione generale. Che detta così sembra come una mega riunione di tutti gli amministratori delegati in giacca e cravatta di Google, Apple e Amazon, quando in realtà siamo solo io e mia moglie stanchi e in pigiama davanti al computer dopo le nove di sera quando i bambini sono andati a dormire.
Il nostro obiettivo è cosa fare del mutuo. Al momento dell’acquisto dell’appartamento abbiamo spezzettato il mutuo in mille parti, forse nella vana speranza che la banca si scordi di qualcuna di loro. Alcune parti sono a interessi fissi, altre a interessi variabili con alta probabilità di pioggia e tempesta. Nessuna parte è a interessi sereni. Data la situazione sociopolitica attuale io e mia moglie abbiamo deciso di mettere tutto fisso per cercare di coprirci le spalle da imprevisti e rialzi drastici. Abbiamo di fronte a noi diverse opzioni e diverse percentuali. Guardiamo lo schermo per qualche minuto (ora?) senza dire niente. A volte tratteniamo il respiro, a volte deglutiamo rumorosamente nella speranza che sia l’altro a parlare per primo e proporre. Ci guardiamo negli occhi e contemporaneamente, come fanno tutte le coppiette innamorate in perfetta sintonia tra di loro, diciamo due opzioni completamente diverse. Così concordiamo che sia meglio rifletterci sopra e che la notte (insonne) ci porti consiglio.
 
Adoro procrastinare su cose importanti quali la salute e il pagamento delle tasse, ma quando ti accorgi che gli interessi della banca aumentano di giorno in giorno, anche di quasi un punto percentuale, forse è il momento di intervenire. Quindi la sera successiva i bambini sono a nanna e io e mia moglie ci ritroviamo davanti al computer per decidere. Osservo gli interessi sul sito della banca, guardo l’orologio appeso al muro per capire se almeno oggi riusciremo a prendere una decisione, ritorno con gli occhi sullo schermo e… incredibile: in quel mezzo secondo gli interessi sono aumentati di nuovo. Per sicurezza decido di non staccare più gli occhi dal computer. Mi faccio legare mani e piedi alla sedia e mi faccio installare un macchinario che mi tenga le palpebre aperte e fisse sullo schermo come in Arancia Meccanica. Almeno così sono sicuro che riuscirò davvero a fissare il mutuo senza batter ciglio.
Dopo un’accesa discussione basata su argomenti che non conosciamo quali il futuro dell’umanità e la strategia militare di Putin decidiamo che non è proprio il caso di squartare un animale per esaminarne le viscere e che faremo il meglio che possiamo. Votiamo così per fissare i tassi d’interesse a due anni. Mia moglie pone la firma elettronica ma deve farlo anche l’altro coniuge per essere valido. Ora dunque tocca a me. Tutto è nelle mie mani. Mancano 0.8 secondi alla fine del quarto quarto. Praticamente la partita è finita. Stiamo perdendo di un punto, ma io ho due tiri liberi a mia disposizione. Devo solo controfirmare e poi è fatta. Guardo il tabellone: gli interessi sono al 3.76 %, le mie energie psicofisiche al 2.76 %.
No, merda! Ho distolto lo sguardo dallo schermo. Sono aumentati ancora gli interessi? No, ma un gasdotto nel Mar Baltico si è rotto “da solo” (come dice mio figlio di quattro anni con il manico della tazza in mano e i cocci e il latte sparsi sul pavimento). Questo farà sicuramente aumentare gli interessi alla stessa velocità con cui il metano distruggerà l’ecosistema scandinavo.
INTERMEZZO. A volte m’immagino i banchieri seduti attorno a un tavolo aspettare con avidità una nuova catastrofe sociopolitica per aumentare sadicamente gli interessi dei mutui. Guerra in Ucraina? Aumentiamo gli interessi. Crisi energetica? Aumentiamo gli interessi. E giù di risate sataniche e mani che si sfregano. Qualsiasi evento avverso è un pretesto per flagellarci. Scarseggia il grano? Chiediamo più grana. Hai fatto cadere una goccia di caffè sul bancone della cucina senza passare lo straccio? Tassi più alti… ah no, l’ultimo esempio era mia madre. O forse mia moglie? Freud, ti prego, aiutami tu a rispondere. FINE INTERMEZZO.
 
Alla luce delle ultime notizie sul gasdotto Nord Stream, dunque, io e mia moglie cambiamo strategia e fissiamo questa parte del mutuo a quattro anni. Mi appare Gerry Scotti che mi chiede se è la mia risposta definitiva e se la accendiamo. La risposta l’avrò dopo la pubblicità o molto probabilmente fra un paio d’anni se sopravviverò.
Non c’è più tempo per pentirsi. Ormai sia mia moglie sia io abbiamo posto la firma digitale. Leggo le cifre riportate sul sito della banca che indicano quanti soldi dovremo sicuramente pagare per i prossimi quattro anni, a prescindere dall’andamento futuro degli interessi. So che sono numeri ma in quel momento li vedo più come piccoli chiodini neri. Chiodi sulle nostre bare ovviamente.
 
Sono sudatissimo, come Charles Barkley al momento dei tiri liberi, per restare nella metafora cestistica di qualche riga fa. Ho consumato un blister di Gaviscon e uno di Moment. Ora mi sento esausto, fisicamente e mentalmente, ma almeno è fatta… fino a dicembre, quando dovremo decidere per l’altra parte del mutuo che avevamo fissato a un anno al momento dell’acquisto dell’appartamento. Quella parte che volevo far dimenticare alla banca e che invece ho dimenticato io.
Niente paura. Ci penserò tra qualche mese. Posso procrastinare. È una cosa che mi riesce bene. Così tiro un sospiro di sollievo. In quel momento però squilla il telefono. È la compagnia elettrica. Mi dice che è arrivato il momento di rinegoziare i prezzi dell’elettricità: fisso o variabile?
Mi gira la testa e mi faccio un’altra domanda: apro una nuova scatola di Gaviscon o di Moment?

martedì 27 settembre 2022

IL LAVORATORE – La preparazione svedese

“Hej Roberto,
il Natale si avvicina e desideriamo ricordarti che le prenotazioni per l’annuale julbord (il tradizionale pranzo di Natale svedese, N.d.R.) presso il nostro ristorante sono già aperte. Affrettati a riservare un tavolo per te e i tuoi familiari, amici o colleghi di lavoro. Preparati a gustare le prelibatezze del nostro julbord, godendo della meravigliosa vista sull’arcipelago di Stoccolma. Non perdere tempo e prenotata la vera esperienza natalizia con noi. Ti aspettiamo!”
 
Fantastico! Eccezionale! Adoro lo julbord, specialmente in questo ristorante! Mi giro verso mia moglie e le chiedo che cosa stiamo aspettando a prenotare, ma lei mi guarda basita.
Siamo a metà settembre. Ecco che c’è. Mi ero fatto trasportare a dicembre dall’entusiasmo e dall’atmosfera sognante dell’e-mail. Le foglie ancora verdi e le ore di luce ancora accettabili mi riportano al presente: metà settembre appunto.
In Svezia, però, dopo il relax delle ferie estive è già l’inizio della nuova stagione: il “Preparansione” svedese (ATTENZIONE spoiler alert: generalizzazione in corso). Agli svedesi piace essere preparati, pronti e sempre sul pezzo. Agli svedesi non piace essere colti di sorpresa, perdere troppo il controllo o dover improvvisare. Per questo motivo il calendario svedese e, se dobbiamo dirla tutta, la società in generale è permeata di un pochettino di ansietta: da prestazione, d’attesa, da perfezionismo. Niente di grave, sia chiaro, in molti casi ha i suoi notevoli vantaggi ma a volte porta al rischio di essere con la testa già al passaggio successivo e di non vivere appieno il momento, il qui e adesso – här och nu (ATTENZIONE: ricordo che siamo ancora in fase di becera generalizzazione e stereotipia).
Andiamo dunque a presentare alcuni semplici esempi, oltre alla sopracitata prenotazione per il pranzo di Natale a settembre, che chiariscano il “Preparansione” svedese, ovvero l’ansia di essere sempre preparati.
Cominciamo con le festività. Il Natale, come tutti sanno, si festeggia il 25 dicembre. No! Come no? Eh no… il Natale in Svezia si festeggia il 24.
Di conseguenza, Pasqua si festeggia il sabato e non la domenica, midsommar (la meravigliosa festa dedicata al solstizio che cade il terzo sabato del mese di giugno) si festeggia di venerdì. Ovvio. La stessa definizione di midsommar, a mio modesto avviso, è un inno al “Preparansione” svedese in quanto è la festa di mezza estate… quando in realtà l’estate è astronomicamente appena iniziata!
Cominciate a seguirmi? Anche voi state annuendo e vi riconoscete in queste parole? Oppure pensate che stia dicendo un sacco di stupidaggini? In entrambi i casi avete ragione.
Ma non saltiamo alle conclusioni prima del previsto. Sarebbe un po’ ansioso, non trovate? Per chiarire il concetto ci sono altri esempi racchiusi in una semplice parola inglese: last minute (ATTENZIONE: generalizzazione specifica su Stoccolma in corso). Prenotare il giorno prima o il giorno stesso un posto a teatro o al cinema, una notte in hotel, un locale condominiale oppure un tavolo al ristorante diventa una missione impossibile anche per il miglior Tom Cruise. Scordatevi se il tavolo è da riservare per più di dieci persone anche se chiamate un mese prima. Capitolo a parte meriterebbe la settimana sugli sci dello sportlov a febbraio che di regola va prenotata in agosto dell’anno precedente.
Al lavoro le ferie pasquali, estive vanno chieste già a novembre o al massimo a gennaio. Capita spesso di partecipare a riunioni in preparazione alla riunione che deciderà quando fare la riunione nella quale si prenderà una decisione su un determinato problema (ATTENZIONE: esagerazione eseguita).
Il “Preparansione” svedese ha le sue origini sin dai primi anni di vita. Infatti, gli allievi agli ultimi due mesi di alcuni asili entrano in un gruppo (6-årsgruppen) che li prepara alla förskoleklass, che altro non è che un primo anno di ulteriore preparazione alla grundskolan (il corrispettivo della scuola elementare).
Non voglio essere mal interpretato: io adoro la Svezia e tutte le sue mille sfaccettature… anche quelle più ansiose. Se non fosse così me ne sarei già andato e in fin dei conti mi ci ritrovo in questo modo di essere. Infatti, questo pezzo lo chiudo così: metto il punto in anticipo qui. e poi finisco la frase
 
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Ecco il link all’articolo su Il lavoratore:

giovedì 22 settembre 2022

RACCONTI – Cronaca di uno svenimento

Cronaca di uno svenimento
Atto unico

(Una bella palestra ben attrezzata. A sinistra l’ingresso degli spogliatoi e un attrezzo per sollevamento pesi, sul fondo una panchina, una fontana per l’acqua. In mezzo dei pesi, una cyclette, un vogatore e una corda per saltare. A sinistra s’intravedono le scale che portano al piano di sotto con l’ingresso. Da lì entrano Cuore e Cervello.)
 
CUORE – Oh, eccoci qua! Finalmente oggi ci si allena un po’.
CERVELLO – Non si era detto di riposare?
CUORE – Certo, certo… dopo questa lezione di pesi e cardio.
CERVELLO – No. Si riposa ora. Torniamo a casa.
MUSCOLI – (nascosto dietro la panchina) Cervello ha ragione. Oggi non ho voglia di muovermi.
CUORE – Hm, ci devo pensare. (Fa un giro in palestra) Va bene, ci ho pensato: mi alleno, ma non spingo troppo, promesso.
CERVELLO – Ci vai piano?
CUORE – Sì, ti ho detto che non spingo. Fidati.
CERVELLO – Ma hai mangiato, vero?
CUORE – Ovvio, per chi mi hai preso?
STOMACO – (spuntando con la faccia dallo spogliatoio) Non è vero, sta me…
CUORE – (chiude in fretta la porta in faccia a Stomaco) …sto mettendo su troppi chili e quindi devo allenarmi. Tranquillo ho pranzato alle undici e mezza.
CERVELLO – E…
CUORE – E ho mangiato una banana quindici minuti fa.
CERVELLO – Non credo che basti.
CUORE – Va bene così, fidati. So gestire lo sforzo.
CERVELLO – See… come l’altra volta che sei sceso dalla bici di spinning bianco cadavere e ti sei dovuto stendere mezz’ora in corridoio per evitare una sincope.
MUSCOLI – Cosa? È già successo? Andiamo via, vi prego!
CUORE – Stiamo calmi. È successo tanti anni fa. Ora siamo più maturi, ci conosciamo meglio. Sappiamo i nostri punti di forza.
CERVELLO – È la conoscenza dei limiti che ci manca.
CUORE – E poi quella volta là eravamo tornati in palestra troppo presto dopo una forte influenza.
CERVELLO – Ti ricordo che sei stato raffreddato la settimana scorsa…
CUORE – Embè?
PANZA – (entra prepotentemente dallo spogliatoio) Allora, iniziamo? Mi avete convinto a venire in palestra, almeno facciamo qualcosa. Non riuscirete a farmi andare via solo muovendo i muscoli della lingua.
MUSCOLI – Ma che ne sa di muscoli questo? È solo una palla di lardo!
PANZA – (piange e si aggrappa a Cuore) Muscoli è cattivo! Io ci provo, ma lui ce l’ha con me.
CUORE – (coccolando Panza) Tranquillo. Dopo ceniamo con un hamburger e magari ci beviamo anche una birretta, ok?
PANZA – (asciugandosi le lacrime e singhiozzando) Sì, grazie. Tu sì che mi capisci!
CUORE – Bravo… ma ora staccati un po’ da me per favore che dobbiamo iniziare l’allenamento.
MUSCOLI – Va bene, va bene. Tutta questa discussione mi sta scaldando! Iniziamo e facciamola finita.
CUORE – Così ti voglio! (Muscoli esegue gli ordini di Cuore) Piegati là. Corri così. Rema sul vogatore. Pedala più velocemente. Ora riposa. Bene. Io mi sento già meglio.
PANZA – Oddio, sto morendo! Quant’è passata, mezz’ora?
CERVELLO – (guarda l’orologio biologico) Dieci minuti.
PANZA – Voglio morire!
CUORE – Stai tranquillo che vai alla grande.
STOMACO – (entrando dal camerino) Non che c’è qualcosa da sgranocchiare? O un Gatorade da bere?
CERVELLO – In effetti… a me farebbe comodo.
MUSCOLI – Anche a me!
PANZA – Io vorrei una pizza invece.
CUORE – Stomaco, ti ho già dato una banana. Dove l’hai messa?
STOMACO – Boh. Vado a cercarla (esce).
CUORE – Vai muscoli, che il minuto di pausa è finito. Si ricomincia. Come siamo messi?
CERVELLO – Abbiamo già fatto una buona serie di esercizi. Direi che basta per oggi.
CUORE – Avevo chiesto a Muscoli.
MUSCOLI – Insomma… Faccio fatica. Sono sotto sforzo da venti minuti. Io mi fermerei volentieri.
PISELLO – (alzandosi da sotto) Macché! Non la vedi quella gnocca là? Continua. Non possiamo mica passare per dei mollaccioni.
CUORE – Oh, ma chi ti ha dato tutto quel sangue adesso?
PISELLO – (ride) Indovina un po’… tu!
CERVELLO – (a Cuore) Sei un coglione!
CUORE – Però Pisello non ha tutti i torti. Dai Muscoli, facciamo ancora solo un paio di ripetizioni!
CERVELLO – Obietto! Mi sento strano. Non mi sento lucido. Fermiamoci tutti per favore.
CUORE – Andiamo. Ancora dieci minuti e poi la lezione è terminata. Non possiamo mollare ora.
STOMACO – (entrando in scena con un pezzo di banana mangiucchiata in mano) L’ho trovata finalmente! Qualcuno ne vuole un pezzo?
TUTTI – (in coro) No! (Stomaco esce)
CERVELLO – Oddio, mi viene da vomitare. (Traballa) Mi sento male.
STOMACO – (rientrando in scena) Oh, ma chi è quello stronzo che mi ha rubato tutto il glucosio che avevo nella mia sacca della palestra?
CUORE – (fischiettando) Io non ne so niente.
MUSCOLI – Cervello? Che faccio?
CUORE – Vai pure avanti. Fai cinque salti sulla corda e solleva un paio di volte quel peso da dieci chili. Manca poco.
CERVELLO – (Va verso la panchina) Mi gira la testa. Mi devo sedere. Mi sento mancare.
CUORE – Esagerato.
MUSCOLI – Basta ora. Non ce la faccio più. (Segue Cervello sulla panchina).
CUORE – (Guarda Panza disteso per terra) Pure voi vi arrendete?
STOMACO – Qualcuno dovrebbe almeno dare dell’acqua a Cervello… e un po’ anche a me.
CUORE – Prenditela da solo, no?
STOMACO – Di solito è compito di Muscoli, ma guardalo, non riesce neanche ad alzare un braccio.
PISELLO – Che figuraccia! Quella gnocca di prima ci sta guardato con pietà.
CUORE – Eh smettila. Ti sembra il momento di pensare a queste cose adesso?
MUSCOLI – (Cerca di sollevare Cervello ma fanno fatica a stare in piedi) Datemi una mano per favore.
CUORE – Arrivo, arrivo. Ti aiuto io. Devo fare sempre tutto io qua. Dai Cervello, stenditi un po’ prima che mi svieni davanti a tut... (non fa in tempo a dare una mano)
Cervello – (cade a terra disteso) Aiuto, non ci vedo più!

Buio.

venerdì 16 settembre 2022

KISSENEFREGA – Il club

Una limousine nera si ferma davanti a un imponente palazzo barocco situato nella periferia della città, quasi in campagna. Dopo qualche secondo di pausa ne esce un uomo in abito da sera nero e mantello. Porta una maschera in stile veneziano in faccia. Quell’uomo sono io.
 
Mi avvicino al portone del palazzo. Osservo con un po’ di timore ed eccitazione le due statue poste ai lati: un drago alato alla destra e un’aquila reale a sinistra. Col picchiotto a forma di testa di leone busso alla porta e attendo con ansia. In pochi secondi un maggiordomo apre.
«Parola d’ordine, signore?»
«Fidelio!» Rispondo senza esitare.
L’uomo però scuote la testa.
«Apriti sesamo.» Riprovo. Stesso risultato.
«Un fiorino…» Lo dico cercando di imitare l’accento napoletano. L’uomo scuote la testa ancora.
«Mi manda Walt Disney? Savoia o morte? La signora cammina con la borsa e il fosso si salta senza rincorsa?» L’ultima la dico come se fossi Antani, ma non basta.
Esausto esclamo: «Oh, Grande Giove… la parola d’ordine è…»
E l’uomo mi fa entrare.
«Bene, signore. Vedo che sa pensare quadrimensionalmente.» Aggiunge con un sorriso che posso solo immaginare perché è nascosto dalla maschera. Un cameriere mi toglie il mantello dalle spalle. Anche lui porta una maschera. Tutti qui dentro portano una maschera veneziana sul volto. Me ne accorgo quando comincio a camminare sul tappeto rosso del lungo corridoio poco illuminato che porta alle altre stanze del palazzo.
La mia attenzione viene subito attratta dalle grida di piacere e sofferenza che arrivano dalla prima camera. Mi affaccio e vedo due persone che fanno cose oscene. Rabbrividisco ma allo stesso tempo ne sono attratto. Faccio un passo dentro per vedere meglio. Un uomo mezzo nudo sta seduto su una sedia. Una donna sta in piedi dietro di lui. Lei gli massaggia vigorosamente le spalle dolenti. Lui grida per la sofferenza e per il temporaneo sollievo. Non posso restare un minuto più a guardare la scena.
Mi sposto subito verso la stanza successiva. Capisco subito che questa è la stanza più brutta di tutte. Ci sono solo uomini. Sono tutti rasati alla perfezione e hanno i capelli impomatati. Sono in giacca e cravatta che, a quanto pare, mettono anche di sabato e di domenica mattina per andare a bere il caffè al bar. Parlano di investimenti, di carriera, di macchine nuove, di giardinaggio e non ridono mai, neanche davanti a un dibattito politico italiano. Sembrano tremendamente seri e maturi. Li lascio subito stare. Non voglio neanche entrarci qui.
Vado avanti verso una nuova stanza dove trovo molti uomini e donne che parlano tra di loro in maniera composta anche se qualcuno sembra essere più concitato di altri. Non capisco bene di cosa stanno disquisendo, ma l’atmosfera sembra comunque molto distesa. Oh, che bello. I muscoli della fronte e delle mandibole si allentano. Penso che potrei unirmi alle loro discussioni, ma quando mi avvicino a una coppia capisco il contenuto della loro conversazione e mi si gela il sangue. Stanno parlando del tempo che farà domani. Una delle due dice che ci sarà il sole perché il cielo era rosso stasera. L’altra sostiene di aver controllato diversi siti di meteo e afferma sicura che invece pioverà. Io scappo prima che si accorgano della mia presenza e mi lancio in un altro gruppetto di persone. Con mio grande orrore la musico non cambia. «I giovani non sono più quelli di una volta…» Dice uno. «La nostra generazione è fatta di un'altra pasta.» Dice l’altro. «Si stava meglio quando si stava peggio.» Aggiunge il terzo. Robe da farti accapponare la pelle, ma non è finita perché arriva un’altra persona che con grande eccitazione esclama: «Hanno aperto un nuovo cantiere, ci andiamo?»
Mi basta e avanza. Esco dal camerone e torno nel corridoio. Sono deluso. Comincio a passare in rassegna velocemente le altre stanze senza grosse speranze e aspettative.
Nei bagni trovo chi si tinge i capelli e chi si strappa i peli bianchi dalla barba con una pinzetta davanti allo specchio. Nella biblioteca osservo con curiosità gente seduta sulla poltrona con le braccia distese in avanti per reggere un giornale nel tentativo di controbattere una miopia cavalcante. A ogni passaggio in corridoio mi sento male. Nel salone centrale vedo molti uomini e donne di mezza età perdere freni inibitori, lanciarsi in risate sproporzionate e imbarazzanti balli di gruppo dopo aver bevuto solo un paio di birre o un bicchiere di vino. Vedo le stesse persone coricarsi per “riposare” già alle nove di sera nelle camere da notte dopo aver messo a letto i propri figli.
Ho visto abbastanza. Devo scappare da questo luogo di perdizione. Devo andarmene, ma non posso. Le porte sono sorvegliate da un paio di scimmioni con una maschera da King Kong che nasconde una faccia da gorilla, le finestre sono sbarrate. Sto sudando freddo. Non posso restare in questo palazzo. Devo nascondermi da qualche parte prima che il personale del palazzo mi prenda e mi porti di forza in una di quelle tremende stanze che ho appena visitato.
In preda al panico apro la prima porta che trovo ed entro in una stanza silenziosa e semibuia. Al centro, illuminato da un faro di luce bianca, è posizionato un grande armadio a due ante. Un armadio di legno di rovere, massiccio e intarsiato. Chiudo la porta alle mie spalle e mi concentro sul mobile misterioso. Man mano che mi avvicino, delle note di pianoforte, prima singole, deboli e distanziate le une dalle altre, poi sempre più intense e in rapida successione riecheggiano. Il pathos aumenta finché appoggio la mano sulla maniglia dell’armadio e la musica si ferma di colpo. È solo nella mia mente oppure c’è qualcuno che segue le mie mosse. D’improvviso mi sento osservato ma questo non mi impedisce di tirare la maniglia e aprire l’armadio. Dentro non c’è niente. È buio. Molto buio, da non vedere il fondo. Questa può essere la mia salvezza da questo terribile palazzo e da tutte le sue maledette stanze. Qui posso starmene tranquillo. Nessuno mi romperà le scatole. Potrò evitare i contatti sociali, gli obblighi e gli impegni. Qui sarà un luogo sicuro per me, dove scaccolarmi, spaparanzarmi sul divano, guardare serie tv demenziali o vecchi film degli anni ’90 dei quali conosco tutte le battute a memoria senza essere giudicato. In questo armadio posso nascondermi dal mondo.
Mi faccio coraggio, entro con un piede, poi con l’altro. Sono dentro. Richiudo le ante dell’armadio dietro di me e i miei occhi si sono già abituati all’oscurità. Non è poi così buio e mi accorgo di non essere solo. Sono uomini e donne della mia età o più vecchi. Sono amici, conoscenti, parenti. Mi guardano e mi sorridano amaramente. Tengono in mano dei palloncini e reggono dei festoni.
Mi giro per scappare ma le ante sono bloccate. Incisa con le unghie sulla parte interna della porta dell’armadio una scritta recita: “Benvenuto nel club dell’anta!”
 
E voi direte: e chi se ne frega del tuo nuovo club? Beh, non prendetevela con me, non è colpa mia… io vi avevo avvisati: rileggete il titolo della rubrica, per piacere!

martedì 13 settembre 2022

IL LAVORATORE – Valdagen

Quest’anno si vota anche in Svezia. Avrei potuto votare in anticipo ma ho rimandato ogni giorno finché mi son dimenticato, nonostante la città fosse imbrattata da cartelli elettorali (che spesso chiedono di pensare all’ambiente) e nonostante ricevessi banane e succhi di frutta in regalo assieme ai volantini dai volontari che ti aspettano fuori dalla metro come mamme premurose. Nulla è però perduto perché posso ancora votare al valdagen, il giorno delle elezioni, anche detto giorno della balena per gli amici.
È domenica 11 settembre. Mi sveglio con calma, faccio colazione e bevo il caffè. Non ricordo se prima vado in bagno o prima a votare. In Italia un’attività avrebbe stimolato l’altra, ma qui in Svezia per fortuna la cosa è ancora irrilevante. Così esco di casa. L’aria è frizzante e il sole è pallido e mi gusto la passeggiata verso il mio seggio elettorale. D’altronde in Svezia si vota una volta ogni quattro anni per tutto – governo, regioni e comuni – contemporaneamente, con un notevole risparmio di tempo e denaro pubblico (sarebbe bello se in Italia si prendesse appunti su questo) ed è quindi un evento poco frequente. Me lo voglio godere.
Arrivo al liceo adibito a seggio, mi cresce un brufolo e mi avvolge una nostalgia da ritorno ai banchi di scuola. Mi passa subito quando vedo i volontari dei vari partiti politici che mi aspettano all’ingresso con i loro fogliettini elettorali (i cosiddetti valsedlar). Cosa sono? Sono dei piccoli fogli di circa 10x14 cm, tanto leggeri da sembrare essere fatti di carta velina, uno per partito politico e uno per i diversi voti – governo, regione e comune –, con i nomi dei candidati eleggibili. Dopo aver scelto il partito che si vuole votare, si inseriscono i foglietti nelle buste elettorali che spariranno poi nel minestrone delle urne. Un metodo che io trovo un po’ buffo e bizzarro ma simpatico, soprattutto per noi italiani abituati ai lenzuoli elettorali spessi quanto la pasta frolla.
Quindi avrei potuto ritirare i foglietti di uno specifico partito all’ingresso della scuola e mostrare a tutti quello che avrei votato (viva il voto segreto). No, non ci sto. Così entro nel seggio, scelgo i foglietti elettorali che voglio io dietro uno schermo ed entro nella mia sezione con i foglietti in mano. Se non facessi attenzione tutti potrebbero vedere per chi ho votato (viva il voto segreto, parte II), ma io li tengo a faccia in giù, mi nascondo dietro un altro schermo e infilo i foglietti nelle bustine. Butto l’occhio a sinistra e senza volerlo, senza sforzo, riesco a vedere cosa ha votato la mia vicina (viva il voto segreto, parte III). Se non ci fosse stato il foglietto del mio partito avrei potuto prendere un foglietto bianco, scriverci il nome del partito e, facoltativamente, anche quello di un candidato e magari aggiungerci “Ti metti con me? Sì – No”, da lanciare alla bella ragazza seduta nell’ultimo banco. Per fortuna io non ne ho avuto bisogno: sono sposato.
Dopo aver votato, dunque, consegno le mie bustine al commissario del seggio che controlla il mio documento d’identità e urla il mio personnummer. Manca solo che aggiunga con un ghigno “Ti avrei dato qualche anno in più…” oppure che gridi per chi ho votato (viva il voto segreto, parte IV). In compenso nessuno mi scatta una foto mentre infilo il mio voto nell’urna con un sorriso da paralisi facciale come i candidati al governo.
Poi esco. Torno a casa. Nonostante sia orgoglioso di aver adempiuto a un mio diritto e dovere di cittadino svedese, lungo la strada mi assale un filo d’ansia: avrò fatto la scelta giusta? Avrò fatto bene ad anteporre le mie ideologie a qualche interesse personale (o era il contrario, non ricordo… maledetta sindrome da memoria corta dell’elettore medio)? Per fortuna la Svezia ha un apparato politico abbastanza funzionante a prescindere da chi verrà eletto e questo un po’ mi rassicura. Poi però, a casa, l’occhio mi cade sul plico elettorale inviatomi dall’ambasciata italiana per le prossime elezioni di fine settembre e mi viene il mal di pancia.
 
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Ecco il link all’articolo su Il lavoratore:
https://italienaren.org/valdagen-il-giorno-delle-elezioni/

mercoledì 7 settembre 2022

RACCONTI – Senza via di fuga

TOC-TOC!
Bussano alla porta.
Kevin si blocca all’improvviso. Il mezzo panino che si è preparato per spuntino con prosciutto scaduto, pancarrè ammuffito e cipolline ferme nella salamoia da almeno un paio di mesi gli rimane tra faringe ed epiglottide.
SSST!
Ogni suo singolo muscolo corporeo si contrae e si prepara al peggio. Il coltello che ha usato per spalmare il burro d’arachidi cade dal tavolo ma lui riesce a trattenerlo tra le chiappe prima che tocchi terra.
TOC-TOC!
Bussano di nuovo.
Il battito cardiaco va a mille, ma Kevin Smith non batte ciglio. Ormai è abituato a tenere sotto controllo tutte le sue funzioni vitali. Niente può essere lasciato al caso nella sua situazione critica.
IIIH!
La maniglia comincia ad abbassarsi.
Non c’è più tempo per pensare. Bisogna agire. Con uno slancio deciso balza fuori dalla finestra, non prima di aver strappato dalle pareti i poster di Stallone in “Rambo” e Van Damme in “Accerchiato”, quelli deve portarli via con sé come santini protettori. Con le braccia si protegge dai pezzi di vetro che ha rotto e vola giù dal secondo piano.
SWISH & STUMP!
Atterra sul marciapiede con una capriola per attutire il colpo. Non ha neanche un graffio. Kevin è indistruttibile. Si toglie la polvere dalle spalle e scappa via veloce come il vento.
TSÈ!
Non lo avranno mai.
 
Nella stanza che Kevin ha appena lasciato entrano tre loschi individui. Portano sempre gli occhiali da sole, sempre, anche di notte e quando entrano in uno sgabuzzino buio. Non sorridono mai, neanche quando ridono. Il primo è alto, snello, dal naso a punta e dai capelli corti a spazzola. È rapido come il vento e potente come un dritto di Federer. È cintura nera di Kung-fu, IXX Dan. È così rapido che nessuno è mai riuscito a sentire come si chiama, così tutti lo identificano per il rumore che fa quando passa: Sneeze.
Il secondo è un energumeno, grosso e largo con gli occhi che sprofondano e quasi spariscono dentro la faccia. Inspira sempre troppo profondamente quando è arrabbiato e poi esplode buttando fuori tutta l’aria e a volte anche le tonsille. E lui è sempre arrabbiato. Se ti trovi sulla sua strada non perdona. Maneggia tutte le armi che l’essere umano abbia mai usato in una guerra. Lui si chiama Cough.
Il terzo è il più piccolo ma il più appiccicaticcio e viscido di tutti. Viaggia sempre attaccato alle gambe dell’armadio Cough che non si accorge mai della sua presenza perché non riesce a guardare sotto la linea della propria cintura. Appena può s’incolla al primo che passa e non si stacca più. Possiede il segreto del più antico Kata custodito dai bambini di tutto il mondo: l’arte di saper rompere i coglioni. Nessuno può levarselo di torno. Lui è Snut.
Niente e nessuno può fermare quei tre. Loro sono i tre scagnozzi del boss.
GRRR!
Il loro obiettivo, però, è scappato. Nessuno può fermarli, ma Kevin può sfuggir loro. Il capo non la prenderà bene. Il loro capo non perdona tanto facilmente chi fallisce. Il loro capo odia quando i suoi sgherri tornano a mani vuote e magari anche a mani pulite.
 
Mr. Crown è un omarello basso, tondo, con la gobba e dai piedi corti. Ha le guance butterate, le orecchie a sventola, l’alito che puzza e lo sguardo strabico e truce. Nonostante tutto ciò ha anche dei difetti, ma nessuno osa sfidarlo e mettere in dubbio la sua potenza nell’organizzazione criminale Vairus. Lui ne è il re. Per questo tiene sempre una corona in testa, un bomber con borchie sulle spalle e anfibi neri con spuntoni di metallo. È sempre felice di vedervi ma sfortunatamente quella che tiene in tasca è una pistola.
 
Loro hanno preso Jennifer, la moglie di Kevin Smith.
E Kevin ha lottato. Si è difeso. Ha combattuto come poteva. Ma alla fine è dovuto scappare per difendere Johnny e Seth, i suoi due figli maschi.
La mafia del Vairus, però, ha preso anche loro. Prima uno, sotto i suoi occhi mentre Kevin si era distratto a guardare un’altra mamma all’asilo, e poi l’altro, all’uscita della scuola.
AAAH!
Quei bastardi!
(Gli scagnozzi della mafia Vairus, non i suoi figli)
Kevin urla al cielo la sua rabbia e disperazione, mentre corre sotto la pioggia della città senza nome e senza pietà, dove quasi tutti sono sottomessi a Mr. Crown e ai suoi tre scagnozzi Sneeze, Cough e Snot.
Kevin suda freddo al solo pensiero di quella terribile organizzazione che tiene in ostaggio la sua famiglia da ormai una settimana. Kevin è costretto a muoversi in continuazione, a evitare le facce sconosciute, a stare sempre allerta e a tenere sempre libera una via di scampo come una finestra aperta o un condotto della ventilazione. È costretto a vivere in stanze microscopiche dalla luce bassa, l’aerazione pessima, senza armadi e a dormire su divani scomodi come un padre separato in casa. Lui che separato non è. Lui che ama ed è amato da moglie e figli. Estrae una foto di Jennifer, Johnny e Seth dal portafoglio e la guarda melanconico. Si chiede se un giorno potrà rivederli.
SIGH!
Vorrebbe piangere ma non può. Non c’è tempo. Deve correre. Deve scappare. Sneeze, Cough o Snut potrebbero essere alle sue calcagna e piombargli addosso in qualsiasi momento. Quei tre scagnozzi non si fermano mai. Faranno di tutto per rifarsi agli occhi del loro boss Mr. Crown. Quei tre aspettano solo una sua mossa falsa. Quei tre non riposano mai. Neanche Kevin quindi può farlo. Deve continuare a vigilare e a non distrarsi.
 
PANT!
Che fatica a essere sempre in guardia.
Un’altra settimana è andata. Kevin è incolume. La mafia del Vairus ha cercato di attaccarlo in ogni modo, ma lui si è difeso strenuamente. Con tutti i mezzi a sua disposizione. Con tutte le forze che aveva.
Mr. Crown è fortissimo. Negli ultimi anni non ha dato scampo agli abitanti della città senza nome, ma non ha preso tutti. Kevin infatti è rimasto incredibilmente incolume, nonostante gli attacchi delle ultime due settimane.
Ed è proprio negli ultimi giorni che la mafia Vairus ha commesso un errore. Si è concentrata troppo su Kevin e ha schierato tutte le forze nel tentativo di catturarlo. Così ha allentato la sorveglianza su moglie e figli che con pazienza sono riusciti a scavare un tunnel sotterraneo ed evadere dalle grinfie di Mr. Crown. Jennifer è scappata con Johnny e Seth in braccio ed è tornata dal marito.
URRÀ!
L’incubo è finito. Kevin può riabbracciare la sua famiglia. Tutti questi sforzi, però, sono costati cari. Kevin è a pezzi, distrutto, logorato fisicamente e psicologicamente, dentro e fuori. Non appena rivede i suoi cari crolla a terra disperato. Si sente sottosopra, coi crampi agli occhi e le lacrime ai polpacci. Il suo volto è sfigurato, suda copiosamente e non ce la fa più. Sembra parlare con amici lontani e sbracciare a vuoto contro nemici immaginari in preda alle allucinazioni. Dà l’impressione di essere in fin di vita. Quindi alla fine la mafia Vairus ha trovato un modo di arrivare anche a lui? Con un filo di voce chiede alla moglie di dare un abbraccio ai bambini e di dir loro che lui li ha sempre amati e che li amerà per sempre. Poi si accascia al suolo.
GASP!
La moglie Jennifer accorre al capezzale del marito con un bicchiere d’acqua in mano. Gli inumidisce le labbra e lo consola accarezzandogli la testa. Kevin sta solo riposando ma scotta sulla fronte. Jennifer gli misura la temperatura.
OH NOOO!
È la fine: Kevin è un uomo invincibile, un lottatore instancabile, un guerriero corazzato, ma come tutti gli uomini non può nulla contro questo nemico. No, negativo, non si tratta di Mr. Crown. Kevin ha solo un po’ di febbre a 37.3.