mercoledì 30 marzo 2022

RACCONTI – La dichiarazione

Le cifre non sono il mio forte.
Coi numeri non sono mai andato molto d’accordo.
Non ricordo mai quanto ho pagato le cose che ho comprato e chiunque potrebbe fregarmi, anche i bambini che vendono i biscotti porta a porta o la limonata per strada come nei film americani.
Di tasse, poi, non ci capisco proprio niente.
 
Avendo studiato all’università e fatto pacchia parassitando sulle spalle dei miei genitori ho fatto la mia prima dichiarazione dei redditi soltanto a 25 anni, quando ho iniziato a guadagnare i miei primi dindini (già il fatto che li chiami così non fa di me una persona normale). Nessun problema se in famiglia hai una mamma e una sorella commercialista, vero? Peccato che io fossi in Svezia e loro in Italia. Sfiga!
Nonostante fossi cresciuto a pane e 740, risotti di 730, torte al 770 e altre cifre varie che ora non ricordo (ve l’ho detto che non ci so fare coi numeri!) ero tremendamente impaurito della dichiarazione dei redditi svedese, che si presenta puntuale in primavera come il nevischio dopo che ti eri illuso che il caldo fosse arrivato. La mia paura era quella di sbagliare qualcosa, vuoi per la lingua straniera, vuoi per le mie incapacità matematiche, e di ritrovarmi a fare la fine di Al Capone, criminale sopraffino incastrato per frode fiscale.
Con mio profondo sollievo scoprì subito che il modulo per la dichiarazione dello Skatteverket (l’INPS svedese) era già precompilato con la somma da pagare allo stato. Quello che dovevo fare per completare l’operazione era controllare che la somma combaciasse con quella che il mio datore di lavoro mi aveva spedito via posta nel cedolino e rispedire all’ente statale il modulo firmato.
Devo ammettere che la prima volta ero alquanto diffidente ma nonostante la mia riluttanza mi feci convincere a mandare il tutto così come stava scritto, non prima di essermi abbondantemente cosparso il pertugio anale con della vaselina per paura di rimanerne brutalmente sodomizzato.
Per fortuna lo stato svedese è buono. Lo stato svedese è onesto. E tutto ha sempre funzionato alla perfezione, soprattutto da quando si è passati al digitale ed è bastato un clic per confermare. Tutto è sempre filato liscio per 15 anni… fino a oggi.
Come ho ampiamente rotto le pall… hm, intendevo dire, ampiamente documentato nei miei precedenti racconti, a dicembre ho traslocato.
Lo stato svedese è molto buono e non solo ti consente di decidere come ma anche quando pagare le tasse sul profitto ricavato dalla vendita del precedente appartamento. Quando poi ho scoperto che si può addirittura ottenere la sospensione del pagamento, chiamato “uppskov” dagli amici svedesi, ho fatto uno più uno (occhio qui a fare dell’ironia nei miei confronti) e ho capito che di fatto non devi più pagare. Da non crederci.
Così sono subito corso nella mia mente a immaginare l’ipotetico dialogo tra me e lo stato svedese:
 
— Caro cittadino Roberto, lei deve pagarci le tasse sulla vendita del suo appartamento!
— Devo proprio?
— Sì. Deve proprio, mi spiace.
— Sua Maestà, chiedo con profonda umiltà: non c’è un modo di evitarlo?
— Hm, non so. Mi faccia pensare...
— Per favore, prometto che farò il bravo e che farò tutti i compiti se non mi farà pagare le tasse.
— Ma è difficile. E cosa dirò agli altri che…
— La prego, la prego, la prego, la prego!
— Ah… ma sì. Va bene. Le abbuono le tasse. Non posso resistere a quegli occhioni da gatto con gli stivali.
 
Ovviamente le tasse le dovrò pagare, prima o poi. Non si scappa. Come recita il proverbio, sono le uniche cose certe assieme alla morte. Lo stato svedese è buono, non stupido. Però posso continuare a posticipare eventualmente fino alla vendita della prossima casa e per il momento usare quei soldi per ammortizzare il mutuo. Fantastico.
Quello che devo fare è “solo” compilare correttamente i moduli della dichiarazione dei redditi, aggiungendo le cifre dai vari scontrini e fatture per detrarre le tasse di tutti i lavori di rinnovo fatti in casa.
Così una sera, con l’aiuto fondamentale dell’allibratrice (mia moglie), inserisco i dati e digito i numeri nelle caselle giuste, controllo, correggo e ricontrollo i documenti come se dovessi cercare di evitare lo scandalo del Watergate e salvare le chiappe a Nixon. Sudo mille camicie ma alla fine faccio tutto come si deve e supero le mie paure per i numeri e vado ben oltre le mie aspettative.
Sono pronto a spedire il modulo on-line. Sto per schiacciare il tasto d’invio, ma la pagina si blocca. Tempo scaduto. La mia sessione sul sito è terminata. Dovrò reinserire tutti i dati da capo. Non avevo schiacciato il tasto “spara” (salva in svedese).
Vorrei spararmi (ma non a salve).

mercoledì 23 marzo 2022

RACCONTI – Che pizza!

Sono appena sceso nel seminterrato della cattedrale di Stoccolma. Sono da solo per gentile concessione del Vescovo della città. Il silenzio è assordante.
Mi avvicino a passi cauti verso l’altare principale, prestando il dovuto rispetto che questo luogo richiede. Faccio il segno della croce, inspiro profondamente e procedo con un passo in avanti deciso.
Ora sono di fronte alla teca. È una pregiatissima custodia poggiata su un piedistallo che ne eleva il contenuto verso il cielo. La teca rotondeggiante è ricoperta d’oro con meravigliosi intarsi settecenteschi. Il vetro che protegge il contenuto è luccicante e perfettamente lucidato. In cima campeggia una croce anch’essa dorata con un rubino rosso incastonato al centro.
Per qualche secondo rimango a bocca aperta nell’osservare cotanta bellezza e armonia. Poi m’infilo dei guanti di seta, apro la teca con cautela e ne estraggo il contenuto trattenendo il fiato per l’emozione. Lì dentro c’è una reliquia. In quella teca incantevole c’è qualcosa di sacro: bordo alto, leggermente abbrustolito ma morbido, base cotta a puntino ma non cadente… e soprattutto, mmm, profumino inebriante. Questa, signore e signori, è la pizza perfetta.
L’ho fatta io!
Mi è costata fatica, pratica e tanta, ma tanta dedizione.
Perché mi sono fissato per raggiungere la perfezione per il mio piatto preferito quando potrei semplicemente andare in una delle tante ottime pizzerie italiane di Stoccolma? Perché devo pagare la bolletta rincarata dell’elettricità, ho appena comprato un volo estivo per l’Italia che mi è costato una fortuna e ho due figli piccoli da sfamare. Quindi, dopo quello quarantennale della casa, non posso permettermi un altro mutuo per pagare il conto delle suddette pizzerie italiane a Stoccolma. Sono costretto a fare da me.
Potrei andare nelle pizzerie svedesi?
No, grazie e vi spiego anche perché (lo so che è abbastanza ovvio ma mi piace puntualizzare).
 
Farina.
- Come faccio io, italiano all’estero.
Uso rigorosamente farina Caputo, acquistata di contrabbando dal grossista napoletano di fiducia nel quartiere più nascosto della città. Una polvere bianca che pago più della cocaina.
- Come fa uno svedese.
Usa farina qualsiasi: di grano duro, di grano saraceno, integrale… la prima che trova. Non gli importa una segale di quale sia la farina migliore.
 
Acqua.
- Come faccio io, italiano all’estero.
Mescolo l’impasto con acqua a temperatura di 13,5 gradi. Ci aggiungo un pizzico di sale.
- Coma fa uno svedese.
Mescola il tutto con vatten* (*che vuol dire acqua)… ops, ha dimenticato il sale!
 
Lievito.
­- Come faccio io, italiano all’estero.
Lievito madre messo in coltura e mantenuto come se fosse mio figlio. Anzi, ogni tanto gli do in pasto un dito di mio figlio per farlo crescere (sia il lievito sia il figlio).
- Come fa uno svedese.
Bakpulver, ovvero lievito chimico che usa per qualsiasi altro dolcetto natalizio. Magari gli scappa anche un po’ di zafferano.
 
Impasto.
- Come faccio io, italiano all’estero.
Impasto a mano per 15-20 minuti, faccio riposare per 30 minuti, formo i panetti calcolati grazie al calcolatore online di quantità della pasta, faccio lievitare per 6-8 ore a temperatura ambiente. Infine stendo con passione e precisione l’impasto fino a ottenere un cerchio perfetto (controllo con il compasso per essere sicuro o in mancanza di esso, chiedo al mio amico Giotto).
- Come fa uno svedese.
Mette tutto insieme e mescola con la frusta elettrica finché l’impasto diventa un blocco di cemento armato pronto per costruire un rifugio antiatomico. Con il martello di Thor schiaccia l’impasto fino a ottenere una forma vagamente rotondeggiante.
 
Salsa.
- Come faccio io, italiano all’estero.
Coltivo piantine di pomodori San Marzano nel balcone di casa dove, con un complesso sistema di riscaldamento e aereazione, sono riuscito a ricreare il microclima del golfo di Napoli. Sfrutto i miei figli per raccogliere i pomodori. Poi li pelo (i pomodori, non i miei figli) e li schiaccio delicatamente con una forchetta. aggiungo un filo d’olio extra vergine d’oliva e un pizzico di sale.
- Come fa uno svedese.
Prende un barattolo nuovo di ketchup Heinz e lo spreme sull’impasto.
- Come fa un venusiano.
Mescola un Mars, un Milky Way e alcuni Pan di Stelle assieme alle Galatine tritate. Poi prende… hm, no, questo non c’entra niente. L’ho messo qui solo per vedere se stavate ancora seguendo la narrazione.
 
Mozzarella.
- Come faccio io, italiano all’estero.
Mozzarella di Bufala Campana dop* (*dop ovviamente sta per “dop aver lett quest raccont i napoletani m’accidon”) ordinata a Napoli e spedita in un pacco celere mantenuto a temperatura ambiente.
- Come fa uno svedese.
Un formaggio qualsiasi: dall’halloumi al cheddar bianco, passando per il Gouda e la plastica bruciata.
 
Condimenti.
- Come faccio io, italiano all’estero.
Vedi i due paragrafi precedenti… cioè niente. Solo pomodori e mozzarella e qualche foglia fresca di basilico. C’è bisogno d’altro per la pizza perfetta?
- Come fa uno svedese.
Aggiunge tutto, ma proprio tutto. Dagli ormai classicissimi “Pollo e curry”, “Hawaii” e “Alla banana” si passa con nonchalance alle avanzate “Pizza carbonara” (con panna e pancetta) e “Pizza al cappuccino” (si spiega da sola) che sono delle specie di meta-castronerie culinarie.
 
Forno.
- Come faccio io, italiano all’estero.
Forno in pietra incastonato in un angolo della cucina che si alimenta a legna ricavata dalle saune che ho smontato di nascosto nei vari angoli della città scandinava. La temperatura sale a 450 gradi, cuoce la pizza in meno di 4 minuti e fa risparmiare sulla bolletta del riscaldamento.
- Come fa uno svedese.
Scalda la pizza sul grill assieme ai wurstel e agli hamburger.
 
Consumazione.
- Come faccio io, italiano all’estero.
Servo la pizza sul piatto. La osservo in religioso silenzio per qualche minuto e piango dalla gioia prima di gustarmela fino all’ultima fetta.
- Come fa uno svedese.
Piega la pizza in quattro e la mangia take-away aggiungendoci un filo di senape in cima.
 
 
P.S.: Scusatemi italiani, vi ho mentito! Non sono così integralista, soprattutto per ragioni pratiche. Al posto della Caputo spesso sono costretto a usare una miscela di farina di grano tenero e di Manitoba. Vivo in Svezia e i pomodori si congelano in terrazzo, quindi compro la passata (però Mutti!) Al supermercato svedese compro una mozzarella [(di “bufala”*)#]… che spesso metto sulla pizza in cottura (i bambini la vogliono filante altrimenti non la mangiano). Però mi son comprato un fornelletto Ariete per arrivare a 400 gradi.
 
P.P.S.: Scusatemi svedesi, ho abusato di stereotipi e falsità! Anche gli svedesi possono fare una buona pizza se istruiti adeguatamente ma, mi raccomando, non prendete mai iniziative personali!

mercoledì 16 marzo 2022

RACCONTI – Lucertole

Passeggio con la mia famiglia lungo Strandvägen e poi a Djurgården in questa splendida giornata di marzo a Stoccolma. La primavera è quasi arrivata e insieme alla natura si risvegliano anche queste meravigliose creature a sangue freddo. Mentre cammino ne esamino l’aspetto e ne osservo il loro comportamento bizzarro.
Alle prime temperature che superano lo zero, fanno immediatamente capolino dalle loro tane e in men che non si dica te li ritrovi a zampettare lungo tutti i marciapiedi della città. Questi animali bipedi con i loro corpi snelli e longilinei si muovono con rapidità e destrezza sull’asfalto cittadino, evitando di essere investiti dalle automobili, solo per giungere e sdraiarsi il prima possibile sulle panchine e sulle banchine in riva al mare. Qualora le laboriose attività quotidiane impedissero loro di andare a riflettersi su tanti specchi d’acqua cittadini, le lucertole svedesi si soffermano in ogni angolo a contemplare il sole. Le osservo appiattite sui muri dei palazzi più illuminati del quartiere.
Le lucertole svedesi sono una specie tradizionalmente contraddistinta da un manto chiaro e da un capo dorato, ma che negli ultimi venti o trent’anni ha subito un’evoluzione che l’ha portata a raggiungere anche altre pigmentazioni. Non appena si avvicina la stagione estiva le gambe perdono il loro strato di squame verdi fino all’altezza delle ginocchia come fossero dei pantaloncini o delle gonne che lasciano scoperte il resto delle zampe nonostante il vento gelido e le temperature polari nelle zone d’ombra della città.
Se nella loro ossessiva ricerca di un posto al sole non trovano una pietra calda dove stendersi, si accontentano anche di un bar che abbia il servizio all’aperto. Questi animali si nutrono di qualsiasi cosa trovino: dai resti di una pizza di dubbia qualità ad abbondanti porzioni di ketchup con un po’ di wurstel. Alcuni esemplari sono infatti carnivori, altri erbivori e altri ancora vegani. Nessuno di loro, però, disdegna una bella birra fresca o un bicchiere di vino rosé da far decantare tra le mani mentre discutono sognanti dei loro programmi per la prossima estate.
Una volta terminate le loro attività sociali tornano pian piano nelle loro tane in attesa della prossima giornata di sole, chi barcollando sulle proprie zampette, chi salendo in autobus e chi con gli odiatissimi monopattini elettrici che infestano la città.
In fin dei conti le lucertole svedesi non sono poi degli animali così strani. Certo, di primo acchito possono sembrare bizzarri, ma dopo quindici lunghi inverni e altrettante primavere passate a Stoccolma mi rendo conto di essere diventato anch’io come loro. Ogni volta che vedo più di tre raggi di sole in contemporanea mi getto all’aria aperta senza pensarci due volte spesso dimenticando di vestirmi adeguatamente, mangio in terrazzo ad ogni occasione buona anche se devo imbacuccarmi con le coperte fino agli occhi tanto da sembrare una mummia e quando aspetto la metro o l’autobus mi sposto nel fascio di luce più vicino come fosse un distributore automatico di vitamina D. C’è poco da fare, grattando bene sotto la pelle, infatti, anch’io ho uno strato verde di squame. Ormai sono uno di loro: sono uno dei Visitors!

giovedì 10 marzo 2022

KISSENEFREGA – La torta del bambino

Oggi, cari bambini, sul vostro canale preferito di cucina “Giallo Lillipuziano”, vi propongo una torta molto sfiziosa da gustare da soli o in compagnia. Appena arrivate al parco giochi con i vostri genitori, prendete il primo contenitore abbandonato per terra vicino alla sabbia (per esempio un secchiello crepato, una pentola rotta e senza manico, una scatoletta di plastica sporca che neanche un tossico toccherebbe) e metteteci dentro 400 grammi di sabbia. Poi aggiungete con una paletta che avete rubato a vostro fratello o sorella 200 millilitri di acqua piovana (preferibilmente putrida e piena di moscerini), quanto basta di aghi di pino (o foglie di qualsiasi pianta di stagione che vi capiti tra le mani) e 50 grammi di sassetti irregolari. Mescolate con un bastoncino che custodite gelosamente da almeno un’ora (neanche fosse fatto d’oro) fino a ottenere un impasto omogeneo che possa sporcare il più possibile voi e tutta la vostra famiglia. Osservate impotenti la rottura del bastoncino sopraccitato mentre date l’ultima superflua mescolata. Arrabbiatevi irragionevolmente con la bambina che gioca vicino a voi, anche se lei è completamente innocente. Cambiate di nuovo umore all’improvviso. Trovate una scatola di cartone (probabilmente pisciata da un gatto) all’angolo del parchetto e fingete che sia un forno di nuovissima generazione. Offendete e colpite con un rastrelletto chiunque osi contraddirvi (soprattutto il papà). Riponete il contenitore con l’impasto all’interno della scatola e lasciatelo nel ripiano (inclinato) a 60 gradi per 20 secondi. Togliete il forno dal contenitore (sì, sì, avete capito bene… se vi sembra impossibile, fatevi un ripasso di fisica infantile e poi ne riparliamo). Lasciate a temperatura ambiente per un paio di secondi. Prendete un setaccio e spolverate sopra giusto un po’ di sabbia secca (tipo fino a coprire il contenitore perché vi siete ovviamente fatti prendere la mano). Fate riposare all’ombra per 10 secondi e poi servite immediatamente in faccia al papà. Obbligate il papà a dire che è buona e che si sentiva chiaramente il gusto del cioccolato (cioccolato? Aspettate un attimo, siete proprio sicuri che fosse cioccolata quella cosa marrone nell’impasto? Eppure avevo visto passare un cane da quella parte poco fa). Mangiate il resto della torta con soddisfazione prima che il papà riesca a fermarvi (tanto è occupato a togliersi la sabbia dagli occhi e dai vestiti). Ripetete la procedura, venti o trenta volte (o almeno fino allo sfinimento psico-emotivo del papà). Infine cambiate improvvisamente interesse e andate a saltare a piedi pari con le scarpe di tela nuove di zecca sulle pozzanghere di fango.
 
E voi direte: e chi se ne frega di questa ricetta? Beh, non prendetevela con me, non è colpa mia… io vi avevo avvisati: rileggete il titolo della rubrica, per piacere!

giovedì 3 marzo 2022

RACCONTI – Strade

Spesso immagino la mia vita e quella delle altre persone come se fosse una strada. È una metafora molto usata ma sempre maledettamente calzante.
Strade strette dei giardini botanici che si dividono in tanti bivi e poi si ricongiungono e si separano di nuovo, ma che non vanno oltre le recinzioni del parco, come quelle di un bambino.
Strade delle Highway a Los Angeles: complesse, trafficate, sporche, che s’intersecano e s’incrociano in continuazione, una va su e l’altra che va giù, una che entra e una che esce e alla fine non si capisce più niente, come per un adolescente.
Strade della pazza e affascinante rotonda “The Magic Roundabout” in Inghilterra con mille giravolte, segnali da capire, decisioni da prendere e tante possibilità di ripensamenti, passi indietro, ansie da prestazione… e guida dal lato sbagliato come quando ci si affaccia alla vita adulta dopo la scuola.
Strade con un punto di partenza e uno di arrivo preciso e definito come quando prendi e parti per seguire il tuo percorso di vita sicuro della tua scelta.
Strade dell’Arizona che si perdono all’orizzonte e spariscono sotto la sabbia del deserto come quando c’è qualcosa che non va e nessuno ti può aiutare.
Strade di una qualsiasi città svedese, prevedibili e decise a tavolino: potrebbero bendarti, piazzarti all’incrocio di Kungsgatan e Drottninggatan, liberarti gli occhi e non sapresti dire se si tratta di Stoccolma, Göteborg oppure Malmö. Un po’ come quando stai bene ma ti sembra di esserti conformato un po’ troppo alle regole.
Strade medievali strette, contorte, disordinate di molti centri storici italiani. Come quando tutto cambia troppo in fretta, hai pestato una merda e per una volta tanto vorresti un percorso facile e dritto davanti a te.
Strade del ponte di Brooklyn: forti, eleganti e imponenti che ti servono per passare da un punto all’altro nel tuo percorso.
Strade in salita di Trieste con la Bora che ti soffia in faccia a 140 km/h e letteralmente non ti fa passare come quando tutto ti è contro.
Strade in discesa di Trieste con la Bora che ti soffia alle spalle e ti aiuta a scendere. Giusto per ricordarti che se si sale poi si scende (tanto per rimanere in metafore abusate).
Strade… o meglio, calli di Venezia, dove il bello non è arrivare ma perdersi come quando ti metti in gioco, magari togliendosi dalla faccia la maschera da Carnevale e rischiando di cadere in acqua.
Strade di un nastro trasportatore che continuano all’infinito, senza sosta, come quando vorresti riposare, startene un po’ fermo a pensare, ma sei costretto ad andare comunque avanti… e senza sapere dove andrai a finire.
Strade del parcheggio sotto casa, con le ruote sgonfie o con le catene, come quei giorni in cui vorresti tanto ripartire, farti un giro a vuoto ma sei senza benzina in testa e in corpo.
Strade che… strade? Dove stiamo andando non c’è bisogno di strade! Come quando seguiamo il consiglio di Doc Brown e spicchiamo finalmente il volo verso i nostri obiettivi, con o senza una DeLorean volante.