martedì 24 gennaio 2023

RACCONTI – Prestigiatori invadenti

L’illusionista è pronta. Ha tutto quello che le serve sul tavolo per l’atto finale del suo capolavoro. Fa qualche gesto teatrale, fa schioccare le nocche delle mani, dice le parole magiche e si appresta a concludere lo spettacolo.

Ora manca solo un volontario. Nella stanzetta dove ci troviamo ci sono purtroppo solo io. Non ho scelta, faccio un passo avanti e mi siedo. Con l’aiuto del suo assistente la prestigiatrice Ametista afferra gli strumenti magici e mi chiede di aprire la bocca. Eseguo senza esitare da perfetto manuale da cavia da laboratorio. Con una mossa rapida mi infila una specie di fazzoletto di plastica in gola. Temo subito che mi voglia soffocare, ma lei mi rassicura subito che fa tutto parte del numero e che quello è una diga di gomma. L’istinto mi dice di risponderle che non sono un castoro giocattolo, ma per fortuna taccio. D’altronde non è facile parlare con due persone che rovistano nella mia cavità orale. Lei, Ametista, la maga dentista, continua raccontandomi che questa diga servirà a isolare il dente da trattare e a proteggerlo da strumenti rotanti e sostanze pericolose da ingerire. Cerco di credere a questo racconto che sembra fantascientifico mentre l’assistente fissa il foglio di plastica mantenendolo in tensione grazie a un telaio metallico. Ecco, ora mi sento Hannibal Lecter ne Il silenzio degli innocenti o don Camillo con Peppone che cerca di fargli ingurgitare olio di ricino.

Nel passaggio successivo la dentista scava con manipoli rotanti, uncini affusolati e attrezzi endodontici per la pulizia dei canali. In poche parole si prepara a torturarmi e schiaccia il tasto REC sulla telecamera piazzata davanti a me per iniziare a girare un film snuff. Poi mi annaffia l’interno delle guance con liquidi irriganti e i liquidi irritanti che in seguito aspira con cura assieme alla mia cara polpa dentale ormai deceduta. Una volta puliti, i canali della radice dentale vengono asciugati e sigillati con coni di un materiale simile alla gomma. Una cura così metodica dei canali non si fa neanche a Venezia e questo mi tranquillizza e mi fa sentire ben accudito.

Quando mi tolgono la diga di gomma e l’uncino che la teneva attaccata al dente mi sembra di respirare di nuovo. Ora è tutto finito. Per oggi, perché abbiamo ancora una visita da prenotare per completare la ricostruzione del dente. Potrebbe bastare una semplice otturazione oppure una ricostruzione più complessa. Mi informano sui prezzi della seconda opzione, la corona protesica, e sbianco più dei miei denti. Mi sembra uno scambio ingiusto: qualcosa come quattromila corone (svedesi) per una corona (odontoiatrica). Vorrei protestare ma non ho più il controllo della bocca. Meglio così.

Questo dunque è il trailer dello spettacolo di Ametista, la maga dentista, e che è conosciuto con il nome di devitalizzazione. Del dente, sì, ma anche di quel che resta di me stesso. Due ore fermo, quasi immobile, seduto sul lettino odontoiatrico, senza pause, con la bocca aperta e ormai priva di sensibilità mi hanno devitalizzato anche l’umore. Ora capisco come si sente una pornostar dopo una lunga e dura giornata di lavoro.

Me ne torno a casa. Non ho neanche il mio dente che è stato curato da mostrare alla fatina dentina. Provo comunque a fregarla mettendo lo scontrino sotto il cuscino, nella speranza di farle almeno pena e che mi lasci i soldini per estinguere il mutuo della casa.

mercoledì 18 gennaio 2023

RACCONTI – I nomadi

Con uno zainetto in spalla a testa, un paio di valigie sulla mano destra e una calcolatrice sulla sinistra io e la mia famiglia ci prepariamo ad atterrare in Italia per una sola settimana di vacanze invernali. Lo zaino contiene i giochi per i bambini e il tablet per intrattenerli, le valigie sono mezze vuote per far poi spazio a cibo e regali nel viaggio di ritorno e infine la calcolatrice è lo strumento essenziale per prevenire conflitti e faide famigliari. Infatti, secondo una rigidissima legge non scritta, il tempo da trascorrere per i nostri bambini dai nonni paterni e dai nonni materni deve essere diviso equamente. Non sono ammessi errori: pena, musi lunghi alla Modigliani e ricatti emotivi con sensi di colpa incorporati fino alla vacanza successiva. Con le dita tremanti pigio i tasti della calcolatrice e prego di ottenere il risultato esatto. Dunque, arriviamo venerdì alle ore 12.20 e ripartiremo il venerdì successivo alle ore 07.00 del mattino, per un totale di 6 giorni, 18 ore, 40 minuti e 30 secondi. Dovremo quindi soggiornare 3 giorni, 8 ore, 20 minuti e 15 secondi dai genitori di mia moglie in provincia di Padova e altrettanti dai miei genitori in provincia di Udine. Ovviamente vanno contate anche le 2 ore di viaggio, considerato territorio neutro come l’aeroporto Charles De Gaulle per Tom Hanks nei panni di Mehran Karimi Nasseri nel film The Terminal. Se tutto ciò vi sembra esagerato è solo perché probabilmente non conoscete la forza devastante di una nonna che crede che le sia stato ingiustamente tolto il tempo di spupazzarsi un paio di soffici nipotini di quattro e sei anni. Io se fossi in voi non tenterei di scoprirlo.
 
Dopo i baci e gli abbracci di rito all’aeroporto, il calcolo viene revisionato dai nonni più attentamente della finanziaria di governo e infine approvato. A quel punto la nostra vacanza può ufficialmente iniziare. Va da sé che, stando per così poco tempo in una casa ed essendo pronti a partire anche nel cuore della notte per rispettare tassativamente la divisione dei giorni, io e la mia famiglia ci sentiamo dei nomadi con la valigia sempre in mano.
 
La prima tappa è dai suoceri. Al contrario di molti stereotipi sono sempre stato amato, apprezzato e trattato da nababbo. L’ospitalità è impeccabile, la cucina sublime e la cordialità esemplare. Un difetto, però, c’è. Piccolo, ma visibile, soprattutto quando si è seduti sulla tavoletta del water. È qualcosa che attiva la parte perfettina e precisina del mio cervello e innesca comportamenti ossessivi-compulsivi: la carta igienica; o meglio, il verso nel quale viene srotolata, da sotto… il verso errato. Mentre medito se iniziare una campagna di conversione alla Torquemada ingaggiando diatribe verbali che guasterebbero anche i rapporti coniugali oppure se limitarmi ad agire di nascosto come supereroe della notte invertendo verso l’alto lo srotolamento della carta igienica, i miei figli irrompono in bagno con la loro solita delicatezza e rispetto della privacy. Avendolo visto così raramente, i bambini mi chiedono cosa sia il bidet e prima di ricevere risposta ne rimangono estasiati usandolo come parco giochi acquatico o nel migliore dei casi come lavandino per le mani.
 
Non resta che fare un giro in centro nella bella città murata, visitare librerie, negozi di vestiti ed entrare nei caffè (splash!) e nei panifici per abbuffarsi di tramezzini e pizze al taglio. Mentre i miei figli scorrazzano liberi e infrangono tutte le regole comportamentali in luogo pubblico scritte dalle nonne italiane da più di un secolo, tipo sbraitare sguaiati, correre e sudare senza la maglietta della salute addosso, mi guardo attorno e mi accorgo di un foglietto appeso a uno scaffale: “I libri possono essere consultati ma non usati come intrattenimento per i bambini”. Ripercorro con la memoria la mattinata appena trascorsa e mi rendo conto che tutto è normato da divieti sotto forma di cartelli, targhe e annunci che mi ricordano tanto le telecamere invadenti di 1984. Soltanto che siamo nel 2023 e io sto cercando di insegnare ai miei figli a leggere i libri e non i cartelli di divieto assurdi.
 
Dopo essere stati cacciati da alcuni negozi a forza di sguardi maligni, scatta la sveglia del timer impostato all’inizio del viaggio. Dobbiamo lasciare tutto quello che stiamo facendo, tazzina di caffè in mano, cornetto alla marmellata e possibilmente anche il conto da pagare agli amici, e partire verso casa dei miei genitori per ristabilire la parità di ore spese da una parte e dall’altra. In un lampo siamo già in macchina con le valigie pronte e i bambini già addormentati dopo la prima curva. Prendiamo l’autostrada e quando arriviamo al casello di destinazione lo spettro del passaggio dei pagamenti con carta di credito tanto comodi e comuni a Stoccolma al contante tanto ingombrante e amato in Italia si manifesta in tutto il suo disagio. Il casellante computerizzato mostra sullo schermo 2 euro e 90 centesimi. Dopo aver controllato in ogni tasca dei pantaloni, del giubbotto e in ogni portamonete dell’automobile mi accorgo di avere solo 2 euro e 80 in spiccioli e una banconota da 20 euro nel portafogli. Dietro di me si forma la fila sia di vetture che di maledizioni nei miei confronti. Non ho scelta. Inserisco la banconota nella macchinetta automatica che per l’occasione si trasforma immediatamente in una slot machine per darmi il resto e a metà si blocca perché si è accorta che la sto insultando. Maledetta intelligenza artificiale che in Veneto e Friuli riconosce le bestemmie! Da dietro parte il concerto di clacson mentre io recupero le monetine rimaste e chiedo scusa per la mia insolenza.
 
Il nostro nomadismo non continua solo sulle strade italiane, ma anche sotto le lenzuola di notte. No, non sto parlando del fascino latino di un moderno Casanova ma di una classica nottata da genitore: la sera comincia nel letto con mia moglie finché il figlio più piccolo si sveglia per stare con la mamma; io vado dal figlio più grande per non farlo stare da solo in una stanza nuova; poi il piccolo si trasferisce nel letto della nonna e il grande si sposta nel nostro letto appena si accorge che la mamma è libera; a quel punto tento il rientro nel letto matrimoniale e riesco a dormire fino al mattino… per ben 15 minuti perché sono già le 7 e i ritmi circadiani dei bambini sono duri a morire e sono rimasti quelli delle giornate scolastiche.
 
C’è però un motivo ben preciso che mi spinge a svegliarmi lo stesso con un sorriso. Oggi è il penultimo giorno in Italia ed è il momento della spesa lercia di tutti i prodotti che sono difficili o addirittura impossibili da reperire all’estero. Appena metto la monetina nel carrello parte la gara di Formula 1 tra le corsie. Senza pietà sorpasso vecchietti in cerca degli sconti e casalinghe esperte di rapporto qualità/prezzo e raccolgo i miei tesoretti. In pochi minuti il carrello è pieno di patatine Fonzies, biscotti Grisbì, vari tipi di cialde Loacker, prodotti Mulino Bianco e Galatine a pioggia. Taglio il traguardo della cassa e raccolgo l’applauso immaginario del pubblico. Solo dopo aver pagato mi accorgo della montagna di roba che ho acquistato e mi preparo mentalmente a lottare con la valigia e a fare i conti con i chili che la Ryanair ti concede di bagaglio a mano. Contano anche i chili che ho messo sulla pancia dopo tutte le mangiate? Ad ogni modo, un po’ di spazio lo devo lasciare anche per il pane alla zucca fatto in casa che con il suo fragrante odore e il suo dolce sapore sblocca ricordi dell’infanzia come la Madeleine di Proust.
 
Mentre torno dal supermercato con le borse piene di leccornie rifletto sugli ultimi giorni passati a casa. Da tre anni ero assente dal mio paesello e molte cose sono cambiate: nuove rotonde al posto dei vecchi incroci, centri commerciali deserti, criminalità triplicata, fabbriche chiuse e burocrazia asfissiante (ah no, quella è sempre uguale). Mi accorgo inoltre che il nomadismo ha contagiato anche i negozi: dove prima c’era una tabaccheria ora c’è un nuovo bar, il quale ha lasciato il suo locale a un parrucchiere; infine al posto del parrucchiere, della libreria e del fiorista ci sono vetrine vuote con le serrande abbassate e il cartello affittassi. In poche parole il mio piccolo paese sembra sempre di più Hill Valley del 1985 alternativo in Ritorno al Futuro, parte seconda.
 
In tutti questi cambiamenti, però, una sola certezza resta: l’amore delle nostre famiglie? Il calore dei vecchi amici? Sì, anche, ma la vera costante è un’altra: Mastrota che vende materassi in televisione.

martedì 10 gennaio 2023

RACCONTI – Faccia a faccia

Mi guardo riflesso sullo schermo nero del computer spento e l’immagine guarda me. Non so se sorridere o sputarmi in faccia. Faccio una via di mezzo: un ghigno. Devo andarmene da questa casa. Prima però devo uscire dalla mia stanza e affrontare gli altri. Mi stanno aspettando tutti. Manco solo io alla riunione di famiglia. Mi alzo e lascio il portatile aperto alle mie spalle. L’immagine sembra rimanere lì beffarda, quasi a dirmi “Io non mi muovo”. Ma io devo andare.

Esco dalla stanza. Controllo sullo specchio lungo del corridoio come mi sta il maglione. Ho una macchia all’altezza del petto. Tipico. Non sono l’unico a notarla.

Mio padre mi ferma, mi squadra dalla testa ai piedi. Mi chiede perché non metto mai una giacca, perché non sappia mai tenermi in ordine e perché stia sempre un po’ gobbo. Con il suo solito tono da sergente di ferro mi rimprovera di essere in ritardo. Lui pensa di sapere perché e non tarda a rinfacciarmelo. Smettila di studiare psicologia, mi dice. Lascia stare quelle perdite di tempo. Sono solo stupidaggini. Se solo avessi deciso di studiare ingegneria come mi aveva suggerito lui… non avrei comunque mai ottenuto il suo rispetto ma almeno avrei una camicia addosso e lui forse sarebbe meno incazzato. Mio padre mi tira un’altra brutta occhiataccia e mi lascia andare.

Vado a fare pipì e a sistemarmi i capelli allo specchio del bagno. Lì ci trovo mia zia Franca: una donna che col tempo ha perso un po’ di entusiasmo e di coraggio ma è ancora vispa. Lei ha vissuto il ’68 e non mi stupirei se di nascosto si facesse ancora le canne. Non lo farebbe mai a casa mia, ma qualcuno ha esagerato con il deodorante per ambienti in bagno. Avevo mal di pancia, mi dice. Faccio fatica a crederle. Lei però cambia argomento. So cosa facevi in camera tua da solo, mi fa con tono accogliente mentre mi prende sottobraccio. Vorrei dirle che non sono più un adolescente, ma sto zitto per pudore e per non creare una situazione imbarazzante. Tu stavi scrivendo, mi dice con mio grande sollievo. Non lo ascoltare tuo padre, continua. Se vuoi scrivere, scrivi. Segui il tuo cuore. Scrivi ogni volta che puoi. Lasciati andare. Non farti scappare tutte quelle belle idee che hai. Leggo sempre quello che scrivi, sai: sei forte! Mi rincuora sentire tutti i suoi incoraggiamenti. Esco dal bagno galvanizzato. In fin dei conti potrei restare a questa cena di famiglia.

Scendendo le scale controllo il cellulare e sul riflesso dello schermo noto un pelo bianco sulla barba. Rimango accigliato. Mia madre mi ferma e guardandomi in faccia mi chiede. Ti vedo pallido, stai bene? Non ho tempo di rispondere che lei mi abbraccia e mi sommerge di domande. Hai mangiato qualcosa? Sei sicuro di non voler stare in camera tua? Hm, forse è meglio prendere un po’ d’aria, no? Hai salutato lo zio Gianni e la zia Franca? Perché hai fatto arrabbiare tua sorella? Hai fatto quello che ti ha chiesto tuo padre? Hai chiuso la porta a chiave quando sei uscito ieri?

Scanso mia madre con una mano e vado oltre. Sono riuscito ad arrivare in fondo alle scale. La porta di casa è a un passo, prendo in mano il giubbotto e la tentazione di uscire è forte. Dove pensi di andare? Mia moglie mi blocca subito. Non penserai mica di andare via e lasciarmi qui da sola con tutta la tua famiglia? Non passi abbastanza tempo con noi, mi rimprovera. Guarda tuo figlio: gioca sempre da solo. Perché non stai più con lui? Butto l’occhio verso il bambino di due anni che, seduto sul pavimento, muove una macchinina lego. Lui risponde al mio sguardo e sorride. Brum-brum-papà, conferma lui l’invito. Sei sempre pieno di impegni: lavoro, hobbies, amici… ti sei dimenticato di noi. Un velo di tristezza mi avvolge. Lo capisco dal mio sguardo riflesso sullo specchio in fondo alle scale. Riappoggio il giubbotto e vado in salotto.

Pss! Pss! Mio cugino Alfredo richiama la mia attenzione. Che vorrà ora? Lascia stare tua moglie. Lascia stare tuo padre. E lascia stare anche mia madre che ti dice di buttarti sulla scrittura. Ah, ecco dove voleva arrivare. Rilassati un po’, mi fa lui appoggiato al muro mentre armeggia con un coltello d’argento rilucente che probabilmente si intascherà a fine serata. Goditi la vita. Lascia perdere quello che ti dicono gli altri. Fai il tuo lavoro di psicologo e lascia stare il resto… anzi, sai cosa? Lascia stare anche il tuo lavoro: prendi un volo di sola andata per gli Stati Uniti e fatti un bel coast-to-coast oppure vai in India, in Giamaica, in Messico… vai dove ti pare, guarda, ma vai via da qua. Lasciati andare, cazzo! Sei sempre così rigido. Facile parlare per lui che non ha moglie, figli e lavoro stabile…

Mi giro dall’altra parte ma lo faccio troppo velocemente e vado a sbattere contro l’anta della cristalliera. Noto subito che la mia fronte riflessa sulla vetrina è già rossa: mi verrà un bernoccolo. Male, vero? Mi chiede mia sorella col suo solito sarcasmo. Io annuisco. Quindi ora capisci come ci si sente a vedere la mamma che sta sempre peggio con l’ansia e tu sei l’unica persona che la sta aiutando, vero? Mia sorella è tagliente come sempre. Tu te ne sei andato dal paese e l’hai lasciata a me, vero? Torni qui per le feste e ammazzano pure il vitello grasso per te, vero? Ma durante il resto dell’anno a lei non ci pensi, vero? Vorrei risponderle che si sbaglia ma non mi lascia parlare. Forse perché credi che almeno il papà stia bene, vero? Invece non sai che lui è sempre più testardo e perso nella sua ricerca dell’ordine, vero? Sarai anche diventato padre ma mi sa che ti sei dimenticato di essere ancora un figlio, vero?

E dai respiro a questo ragazzo! Mio zio Toni con la sua voce decisa mi salva dai cazzotti di mia sorella. La mia faccia martoriata (l’ho vista io stessa riflessa sui suoi occhiali spessi) deve avergli fatto pietà. Lo zio Toni mi offre un bicchiere di vino e mi trascina fuori dalla calca di parenti e dal brusio generale. Mi guarda dritto negli occhi e sentenzia. Sei vuoi scrivere, scrivi! Buttati a capofitto e fanculo il resto. Se vuoi fare lo psicologo, studia! Trova la tua specialità e sbaraglia gli altri. Se vuoi fare il cazzone, cazzeggia… ma alla grande però! Ride e m’inonda con i suoi sputacchi e il fiato etilico. Fai quello che ti pare, conclude, ma fallo al cento per cento! Basta con ste mezze misure del cazzo! Mi dà una pacca sulle spalle e mi spinge via. Se solo sapessi veramente quello che voglio e che posso fare…

Senza accorgermene sono finalmente nell’ingresso. Nessuno mi guarda. Nessuno mi ferma. Ho bisogno di fare una passeggiata. Da solo. È il mio momento. Prendo al volo il giubbotto e mi sistemo il berretto in testa. Sono pronto. Gli altri si accorgono solo ora delle mie mosse e si ammutoliscono all’improvviso. Passo la soglia ed esco. Ce l’ho fatta. Sono fuori. Sono uscito dalla mia mente: mi sa proprio che devo togliere un po’ di specchi.