— Ci siete? Mi sentite?
No, non è una seduta spiritica. È una videochiamata su Whatsapp. Da una parte del filo ci sono io, mia moglie e miei due figli in Svezia e dall’altra parte i miei genitori in Italia.
— Ciao mamma! Mi vedi?
Non ho risposta.
Passano un paio di secondi. Nessuna risposta.
In quei due lunghissimi secondi c’è di tutto. Passo con una facilità imbarazzante dalla gioia di rivedere i miei genitori al senso di colpa per tener loro lontani i nipotini. Dalla speranza che i miei figli si avvicinino a fare un saluto alla tristezza perché i miei genitori non sono qui con noi… o meglio perché noi non siamo lì con loro. Il creatore del cartone animato Inside Out sarebbe impazzito se avesse potuto guardare dentro il mio cervello in quel momento.
Non faccio in tempo a riprendermi che succede l’inevitabile con le comunicazioni a distanza. Il video si blocca. Giusto, mancava la rabbia a completare il quadretto e dentro di me vorrei lanciare il cellulare talmente lontano da raggiungere i miei genitori in Friuli.
Si sente abbastanza bene ma non si vede più niente. Mia madre parla a voce più alta per compensare. Lei crede che sia un metodo infallibile per sconfiggere la tecnologia moderna. La assecondo e alzo la voce anch’io. Intanto la scritta sullo schermo mi informa, molto gentilmente e con discrezione devo dire, che il video è andato in pausa.
Ma che vuol dire? In pausa? È stanco? Ha bisogno di riposare prima di continuare la chiamata? Ha chiamato i sindacati e ora è in sciopero perché l’ho usato troppo?
Do qualche colpo al cellulare da bravo (quasi) quarantenne nostalgico che si ricorda ancora come si trattavano i computer negli anni novanta. Il video riprende. Ottimo. Il vecchio classico metodo funziona ancora. Mi sento più saggio.
Mia madre comincia a parlare a macchinetta per dirmi tutto quello che mi aveva già detto prima quando il video non funzionava. Inutile spiegarle che il problema non era l’audio. Dopo questa inutile ripetizione di informazioni sulle vicissitudini di tutto il parentado, mia mamma si congratula e applaude le mie straordinarie capacità di risoluzione dei problemi. Mi fa sentire di nuovo quel ragazzino che ha appena imparato ad allacciarsi le scarpe… a strappo col velcro. Mia madre mi sorride e dai gesti capisco che sta tessendo le mie lodi. È felice. Lo sarei anche io se potessi sentirla. L’audio infatti è sparito. Potrei allenarmi a leggere il labiale se solo mia madre tenesse la telecamera del cellulare puntata sulla sua faccia e non alternativamente sul soffitto o sul pavimento. Sto per dare un altro colpo al telefono ma l’apparecchio si accorge delle mie intenzioni e si ravvede. L’audio riparte, ma ora va a velocità quadruplicata per recuperare tutto quello che mi sono perso. Nel frattempo mia madre continua a parlare muovendo le labbra. Per un istante ho l’impressione che il video stia mostrando le immagini di mia madre che pronuncia parole ancora non dette. Ho una strana sensazione. Una specie di déjà-vu al contrario.
È un cellulare o una macchina del tempo?
Che strazio. E io che volevo solo far vedere i bambini ai miei genitori. Mostrar loro come sono cresciuti e costringere i bambini a parlare un po’ in italiano dato che con me e mia moglie italiana lo parlano con la stessa intensità e frequenza di una medicina amara che esce da un contagocce intasato. Dove abbiamo sbagliato? Piango dentro di me, mentre mi sposto in salotto alla ricerca di quei due birbanti di tre e cinque anni. I bimbi però sono rapiti dagli alieni… hm, dalla televisione. Che poi è un po’ la stessa cosa se ci pensi. Almeno così credevo quando guardavo i Visitors in televisione, cagandomi addosso dalla paura.
In sostanza è impossibile attirare l’attenzione dei bambini verso la videochiamata. Inutili le richieste di mia madre di mandarle un bacio. I bambini sono completamente assorbiti dai cartoni animati. Quando sto per perdere la speranza e chiudere la videochiamata, i bambini si girano verso il cellulare e incredibilmente salutano e parlano con i miei genitori. Con un certo fastidio raccontano pure quello che hanno fatto oggi a scuola.
Che è successo? Un miracolo? Lo schermo ha iniziato a sanguinare dagli occhi?
No, mia moglie ha spento la televisione e minacciato i bambini di togliere loro i cartoni per i prossimi quindici giorni se non parlano al telefono con i nonni. Tutto con la sola forza dello sguardo (forse ho capito chi sia la vera aliena qua dentro).
La conversazione non dura molto. Niente illusioni. Non appena i cartoni ripartono i bambini ricominciano a guardare la televisione e io continuo ad avere problemi di connessione. Sia con i miei figli rapiti dal tubo catodico, sia con i miei genitori persi dall’altro lato della filo.
Provo a raccontare cosa mi è successo al lavoro, ma loro non mi sentono. Lo ripeto almeno cinque o sei volte, usando sinonimi, parafrasi e pure endecasillabi sciolti, ma loro mi sentono a singhiozzo. Impreco.
— Non dire quelle brutte parole!
Ah questo l’hanno sentito bene… ma è l’antenna di Radio Maria che interferisce a intermittenza selettiva la chiamata e mi punisce per non essere un bravo cattolico?
Provo tutte le stanze della casa. Niente. Non c’è campo. Non c’è scampo. Le parole vanno ancora a scatti. Ricomporre le frasi che stanno dicendo i miei genitori è impossibile come terminare un puzzle raffigurante una litografia di M.C. Escher. Nel disperato tentativo di riprendere la linea mi metto in piedi su una gamba sola sullo sgabello dell’ingresso. Sporgo il braccio verso il router e con la mano cerco l’angolo giusto dove so che prende meglio.
Non funziona neanche così. Purtroppo non è la prima volta che mi succede. Dovrò parlarne con la compagnia telefonica.
Dopo aver ripetutamente rischiato di perdere l’equilibrio fisico e mentale, mi arrendo.
— Mamma, papà… ci sentiamo un altro giorno!
Per un attimo c’è silenzio, anche se in sottofondo mi sembra di sentire una risata satanica provenire dai microchip del cellulare. Il telefono ha vinto.
— No, aspetta!
È mio padre che si ravvede.
— Ora usciamo.
Usciamo? Da dove? Dagli inferi?
Poi mi spiegano. E sono io a rimanere in silenzio. Incredulo.
I miei genitori sono a casa di amici. In una cantina. Nel seminterrato. Una specie di bunker antiatomico insomma.
Mi viene una gran voglia di rinchiuderli là dentro.
No, non è una seduta spiritica. È una videochiamata su Whatsapp. Da una parte del filo ci sono io, mia moglie e miei due figli in Svezia e dall’altra parte i miei genitori in Italia.
— Ciao mamma! Mi vedi?
Non ho risposta.
Passano un paio di secondi. Nessuna risposta.
In quei due lunghissimi secondi c’è di tutto. Passo con una facilità imbarazzante dalla gioia di rivedere i miei genitori al senso di colpa per tener loro lontani i nipotini. Dalla speranza che i miei figli si avvicinino a fare un saluto alla tristezza perché i miei genitori non sono qui con noi… o meglio perché noi non siamo lì con loro. Il creatore del cartone animato Inside Out sarebbe impazzito se avesse potuto guardare dentro il mio cervello in quel momento.
Non faccio in tempo a riprendermi che succede l’inevitabile con le comunicazioni a distanza. Il video si blocca. Giusto, mancava la rabbia a completare il quadretto e dentro di me vorrei lanciare il cellulare talmente lontano da raggiungere i miei genitori in Friuli.
Si sente abbastanza bene ma non si vede più niente. Mia madre parla a voce più alta per compensare. Lei crede che sia un metodo infallibile per sconfiggere la tecnologia moderna. La assecondo e alzo la voce anch’io. Intanto la scritta sullo schermo mi informa, molto gentilmente e con discrezione devo dire, che il video è andato in pausa.
Ma che vuol dire? In pausa? È stanco? Ha bisogno di riposare prima di continuare la chiamata? Ha chiamato i sindacati e ora è in sciopero perché l’ho usato troppo?
Do qualche colpo al cellulare da bravo (quasi) quarantenne nostalgico che si ricorda ancora come si trattavano i computer negli anni novanta. Il video riprende. Ottimo. Il vecchio classico metodo funziona ancora. Mi sento più saggio.
Mia madre comincia a parlare a macchinetta per dirmi tutto quello che mi aveva già detto prima quando il video non funzionava. Inutile spiegarle che il problema non era l’audio. Dopo questa inutile ripetizione di informazioni sulle vicissitudini di tutto il parentado, mia mamma si congratula e applaude le mie straordinarie capacità di risoluzione dei problemi. Mi fa sentire di nuovo quel ragazzino che ha appena imparato ad allacciarsi le scarpe… a strappo col velcro. Mia madre mi sorride e dai gesti capisco che sta tessendo le mie lodi. È felice. Lo sarei anche io se potessi sentirla. L’audio infatti è sparito. Potrei allenarmi a leggere il labiale se solo mia madre tenesse la telecamera del cellulare puntata sulla sua faccia e non alternativamente sul soffitto o sul pavimento. Sto per dare un altro colpo al telefono ma l’apparecchio si accorge delle mie intenzioni e si ravvede. L’audio riparte, ma ora va a velocità quadruplicata per recuperare tutto quello che mi sono perso. Nel frattempo mia madre continua a parlare muovendo le labbra. Per un istante ho l’impressione che il video stia mostrando le immagini di mia madre che pronuncia parole ancora non dette. Ho una strana sensazione. Una specie di déjà-vu al contrario.
È un cellulare o una macchina del tempo?
Che strazio. E io che volevo solo far vedere i bambini ai miei genitori. Mostrar loro come sono cresciuti e costringere i bambini a parlare un po’ in italiano dato che con me e mia moglie italiana lo parlano con la stessa intensità e frequenza di una medicina amara che esce da un contagocce intasato. Dove abbiamo sbagliato? Piango dentro di me, mentre mi sposto in salotto alla ricerca di quei due birbanti di tre e cinque anni. I bimbi però sono rapiti dagli alieni… hm, dalla televisione. Che poi è un po’ la stessa cosa se ci pensi. Almeno così credevo quando guardavo i Visitors in televisione, cagandomi addosso dalla paura.
In sostanza è impossibile attirare l’attenzione dei bambini verso la videochiamata. Inutili le richieste di mia madre di mandarle un bacio. I bambini sono completamente assorbiti dai cartoni animati. Quando sto per perdere la speranza e chiudere la videochiamata, i bambini si girano verso il cellulare e incredibilmente salutano e parlano con i miei genitori. Con un certo fastidio raccontano pure quello che hanno fatto oggi a scuola.
Che è successo? Un miracolo? Lo schermo ha iniziato a sanguinare dagli occhi?
No, mia moglie ha spento la televisione e minacciato i bambini di togliere loro i cartoni per i prossimi quindici giorni se non parlano al telefono con i nonni. Tutto con la sola forza dello sguardo (forse ho capito chi sia la vera aliena qua dentro).
La conversazione non dura molto. Niente illusioni. Non appena i cartoni ripartono i bambini ricominciano a guardare la televisione e io continuo ad avere problemi di connessione. Sia con i miei figli rapiti dal tubo catodico, sia con i miei genitori persi dall’altro lato della filo.
Provo a raccontare cosa mi è successo al lavoro, ma loro non mi sentono. Lo ripeto almeno cinque o sei volte, usando sinonimi, parafrasi e pure endecasillabi sciolti, ma loro mi sentono a singhiozzo. Impreco.
— Non dire quelle brutte parole!
Ah questo l’hanno sentito bene… ma è l’antenna di Radio Maria che interferisce a intermittenza selettiva la chiamata e mi punisce per non essere un bravo cattolico?
Provo tutte le stanze della casa. Niente. Non c’è campo. Non c’è scampo. Le parole vanno ancora a scatti. Ricomporre le frasi che stanno dicendo i miei genitori è impossibile come terminare un puzzle raffigurante una litografia di M.C. Escher. Nel disperato tentativo di riprendere la linea mi metto in piedi su una gamba sola sullo sgabello dell’ingresso. Sporgo il braccio verso il router e con la mano cerco l’angolo giusto dove so che prende meglio.
Non funziona neanche così. Purtroppo non è la prima volta che mi succede. Dovrò parlarne con la compagnia telefonica.
Dopo aver ripetutamente rischiato di perdere l’equilibrio fisico e mentale, mi arrendo.
— Mamma, papà… ci sentiamo un altro giorno!
Per un attimo c’è silenzio, anche se in sottofondo mi sembra di sentire una risata satanica provenire dai microchip del cellulare. Il telefono ha vinto.
— No, aspetta!
È mio padre che si ravvede.
— Ora usciamo.
Usciamo? Da dove? Dagli inferi?
Poi mi spiegano. E sono io a rimanere in silenzio. Incredulo.
I miei genitori sono a casa di amici. In una cantina. Nel seminterrato. Una specie di bunker antiatomico insomma.
Mi viene una gran voglia di rinchiuderli là dentro.
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