giovedì 17 febbraio 2022

RACCONTI – Inverno infernale

Ogni inverno in Svezia, un italiano residente all’estero (io) si sveglia e muore.
No, non è l’improbabile inizio dell’ennesima storpiatura di un famoso proverbio africano. È semplicemente la verità: in Svezia d’inverno sei morto.
Voglio dire, da dicembre a marzo inoltrato sei morto… se non ti butti sugli sport invernali. Muori dentro, di noia, d’isolamento sociale, di ansia in attesa dell’estate che passerà veloce al binario 2 come un Frecciarossa alla stazione del mio paesello d’origine.
E allora è meglio abbracciare il freddo e la neve. La scelta fortunatamente è varia: sci alpino, sci di fondo, slittino, pattini sul ghiaccio, curling e tutte le loro varianti. Oddio, a ripensarci la scelta è diversificata come le ricette coi gamberi di “Bubba” in Forrest Gump. Non importa. Sono grato per quello che la natura mi offre.
Escludo subito lo sci di fondo perché non ci so andare. Vorrei imparare ma posticipo di anno in anno perché vorrei prima studiare meglio i dettagli tecnici dello sport. Come quando chiedevo il rinvio del servizio di leva ai tempi dell’università in Italia (fino a quando poi è stato tolto l’obbligo… eh, eh, eh!)
Sci alpino? No. Le prime piste decenti distano almeno un paio d’ore di macchina da Stoccolma e mi prende la depressione a vedere che hanno la stessa pendenza della Bassa Friulana e mi scoppia la nostalgia per le Alpi Carniche. Perderei più tempo a singhiozzare che a sciare.
Potrei fare lo slittino. Ma per chi mi avete preso? Sono ormai un adulto grande e maturo e non mi cimento certo in queste attività sciocche e puerili.



Perché mi guardate in quel modo? Che c’è?

…e va bene, va bene. Uso lo slittino e lo Snowracer ogni volta che scendono due centimetri di neve. Non perdo mai l’occasione di andarci con i miei figli… e anche da solo. Lo ammetto! A volte rubo lo slittino ai bambini e dopo aver fatto la guerra a palle di neve, salto la coda per scendere per primo. Ecco l’ultimo stralcio della mia dignità. Contenti? Adoro lo slittino, ma non si può fare solo quello e quindi meglio cercare altro da fare tra la lista degli sport invernali.
Non mi resta quindi che i pattini sul ghiaccio.
Ah, no. Avevo scritto anche il curling. Curling? Ma davvero ho scritto le bocce sul ghiaccio? Va beh, dev’essere stato uno slancio di entusiasmo dopo la recente vittoria alle olimpiadi invernali. Andiamo oltre.
Pattini sul ghiaccio, dunque.
Le piste a Stoccolma sono tante e ben attrezzate, ma anche molto affollate e cercare posto per sedersi e cambiarsi sulle panchine a bordo pista è come trovare parcheggio in centro a Milano. Alla fine, però, ce la facciamo e come un mulo tibetano scarico dal groppone i seguenti articoli: 4 paia di pattini (due da adulto e due da bambino), 2 caschi, un paio di calzettoni alti e spessi fatti a maglia da mia nonna nel 1945 e un thermos per il tè caldo. Il tutto ben ammassato in due bei bustoni IKEA blu. In aggiunta al suddetto carico ci portiamo uno skate trainer: un aggeggio dalla forma indefinita composto da due mezzelune tenute assieme da una specie di manubrio, che a guardarlo da lontano mi ricorda sempre un pesce che è appena stato preso all’amo. Questo strumento infernale (… o era invernale?) serve a dare più stabilità ai bimbi sul ghiaccio. Essenziale per neofiti del pattinaggio come noi, ma con il piccolissimo difetto di non potersi chiudere in modo pratico e di dar fastidio in qualsiasi posizione tu lo metta. Un po’ come un bambino che si addormenta nel lettone matrimoniale.
È il momento della preparazione. Infilo i calzettoni della nonna per fare spessore, stringo e allaccio i pattini seguendo un manuale di nodi da marinaio e per poco non dimentico il dito incastrato tra i lacci. I pattini sono stretti e calzanti come le leggendarie scarpe di cemento dei mafiosi americani degli anni ’20. Sì, ora sono davvero pronto. Devo solo aspettare l’arrivo della gru che mi sollevi di peso dalla panchina e mi trasporti sulla pista.
Non ho ancora iniziato e sono già stanco. Brutto segno. Mi consolo pensando che, una volta tolti i pattini, qualsiasi scarpa sembrerà una pantofola di soffice cotone. Dopo pochi minuti in equilibrio precario mi sento come un circense bendato in bilico su un filo invisibile a dieci metri dal suolo, ma completamente ubriaco. Mentre cerco di capirci qualcosa e ritrovare il corretto riposizionamento dei cristalli dell’orecchio, una serie di bambinetti svedesi di tre anni mi sfreccia a destra e sinistra umiliandomi con la loro innata capacità di funamboli sbizzarriti. Se avessi lo skate trainer a portata di mano potrei almeno cercare di colpirli per sfogare la mia frustrazione, ma quel maledetto strumento sta facendo impazzire mia moglie e non si lascia montare.
Mi faccio coraggio e comincio a scivolare dolcemente come le onde del mare che s’infrangono sulla sabbia. Tutto sommato me la sto cavando bene. Sento della musica classica e non capisco se esca delle casse attorno alla pista o se sia tutto nella mia mente in questo momento di armonia con il mio corpo. La risposta mi arriva dopo meno di un minuto. La musica arriva dall’esterno perché l’atmosfera di pace con il mio fisico si è già rotta. Sento dolori in muscoli che non pensavo di avere e che non so pronunciare. L’interno dei pattini è diventato carta vetrata per le mie caviglie. Il freddo mi sta congelando le mani e non basta neanche immergerle nel thermos bollente per recuperare la sensibilità.
Dopo dieci minuti i miei figli si sono già arresi, ma io non voglio mollare. So che devo passare la prima soglia del dolore e poi andrà tutto bene. Infatti passano altri cinque minuti e ci prendo gusto. Non mi guardo più attorno. Sono concentrato sulla mia pattinata sempre più sciolta e leggera. Sto migliorando a vista d’occhio.
Schivo gli altri con una facilità estrema. Sorpasso senza batter ciglio anche quelli che pochi minuti fa mi sembravano “esperti”. La mia autostima mi fiancheggia alla stessa velocità e convinzione. Sono così sicuro di me che azzardo un salto… e mi riesce! Sorrido incredulo.
Da fuori pista mia moglie mi dice che è ora di andare, ma io non voglio fermarmi. Faccio altri giri a tutta velocità in massimo controllo, prendo una bella rincorsa finale, faccio un paio di salti e piroette e poi finalmente spengo la televisione sintonizzata sulle gare di pattinaggio artistico delle olimpiadi invernali.
Afferro la penna e finisco di scrivere questo pezzo di fantasia disteso sul divano con la schiena insaccata, il ghiaccio sul ginocchio e le caviglie sbucciate.
Ogni inverno in Svezia, non importa che l’italiano residente all’estero (io) sia preparato o meno agli sport invernali, l’importante è che sappia morire con onore.

giovedì 10 febbraio 2022

RACCONTI – a.C./d.C.

— Nonno, cos’è quello?
— Quella è una riproduzione in scala della scultura “Piacere di conoscerla” di Giò Insalata: una stretta di mano tra due persone.
— Cos’è una stretta di mano?
— Eh, è una cosa che si faceva taaanto tempo fa. Tu porgevi la mano destra aperta a una persona e lei la stringeva, a volte molle e viscida come un’anguilla, a volte stretta come un pitone. L’ho letto sui libri quando ero piccolo.
— Che cosa strana…
— Molto. Infatti è stata abolita nel 10 d.C.
— Già nel 10 dopo Cristo?
— No, no. Nel 10 dopo Coronavirus. Gli abbracci erano stati banditi molto prima. Il “darsi il cinque”, i “fist bump” e i “gomitini” invece sono sopravvissuti qualche anno in più ma poi è toccata la stessa sorte anche a loro.
— E cosa sono i “gomitini”?
— Erano il metodo migliore per diffondere il virus: starnutivi sul gomito e poi lo mettevi in contatto con quello degli altri. Geniale! Ora, però, piccolino, continuiamo a visitare il museo, dai. C’è tanto da vedere. Guarda là per esempio. Non è meraviglioso?
— Quello nella teca?
— Sì. È IL Castiglioni-Mariotti…
— Ehi, la nonna ha detto che non si dicono le parolacce!
— Ma non è una parolaccia, Robertino. IL Castiglioni-Mariotti era un vocabolario di italiano-latino. Il latino era una lingua che si parlava in Italia tanto tanto tanto tempo fa e che poi è stata studiata nei licei per tanto tanto tanto tempo. Con l’arrivo del Coronavirus si è pensato che fosse meglio studiare solo il greco per comprendere meglio il nome delle varianti. Soprattutto da quando sono diventate così tante che hanno dovuto chiamarle come le targhe delle macchine. Ora per esempio siamo arrivati alla variante epsi…
— …lo so io, lo so io! La variante Epsilon-Sigma-3-5-8-Omega-Mi!
— Bravissimo! Quando usciamo dal museo ti compro una bustina di figurine.
— Sììì! Grazie, nonno! Così potrò completare il mio album di figurine Panini delle varianti – Anno 2135-36.
— Bene, ma non perdiamo il passo.
— Quel cartello, cos’è?
— Quello era un cartello pubblicitario per viaggi “Last minute”. Una volta se ne facevano tanti, anche troppi, soprattutto in aereo, ma poi ci fu bisogno di mille scartoffie e test molecolari per escludere la presenza del virus. Tutto ciò richiedeva moltissimo tempo e pianificazioni con largo anticipo.
— Quante cose che sai, nonno!
— L’ho letto su questa brochure ricavata dalla carta di mascherine riciclate. Consigliano anche di visitare la stanza audiovisiva. Eccola là…
— Wow, nonno! Questo ologramma in movimento è fantastico!
— Bellissimo, vero? M’incanta ogni volta che lo vengo a vedere. Rappresenta i bacini sulla guancia.
— Bleah, che schifo!
— In effetti era una cosa assai stramba. Si appoggiava la propria guancia contro quella di un'altra persona. Prima la guancia sinistra e poi quella destra. In alcuni paesi si iniziava da quella destra, in altri si davano tre bacini e a volte non ci si toccava neanche.
— Ah, ah, ah!
— Mi sono sempre chiesto come facessero a capirci qualcosa.
— Che brutto, però, nonno. Dopo il Coronavirus hanno tolto un sacco di cose simpatiche…
— Vero. Sono stati anni duri, ma hanno fatto anche qualcosa di buono: per esempio vennero multati tutti quelli che ti tenevano per il gomito mentre ti davano consigli non richiesti, quelli che ti parlavano a un centimetro dal naso dopo aver fatto un bagno nell’aglio e quelli che ti starnutivano in faccia dicendo “tranquillo, è solo un raffreddore!”
— Che buffo il ventunesimo secolo!
— Davvero buffo, ma mi raccomando, non dire alla mamma che ti ho raccontato queste cose, altrimenti non mi permette più di portarti in giro. Ora andiamo, però, il museo sta per chiudere. Tu devi andare a fare didattica a distanza e io devo andare a fare il mio centotrentottesimo richiamo vaccinale… o era il numero centotrentanove? Ho perso il conto ormai...

giovedì 3 febbraio 2022

RACCONTI – Passaporti

Drin!
Driiin!
Driiiiiiin!
Non rispondono. Maledizione! Eppure le informazioni erano chiare: chiamare dalle 10.00 alle 10.05 per prendere appuntamento. È proprio quello che ho fatto, ma nessuna risposta.
Non mi arrendo così facilmente e allora mando un’e-mail al consolato. Ricevo subito un messaggio in automatico “Solo le prime tre persone della giornata che scrivono riceveranno risposta”. Neanche fosse una televendita di Mastrota.
Insisto e aspetto il giorno successivo. Compongo il numero giusto, mi sincronizzo con l’orologio atomico svizzero e appena scattano le ore dieci, zero-zero e zero centesimi schiaccio il tasto verde per chiamare di nuovo l’ambasciata. Dopo solo un paio d’ore di fila, durante le quali il mio orecchio è diventato una piastra elettrica dove ci puoi cucinare un uovo, qualcuno mi risponde: “Si ritenga fortunato che le rispondiamo”, mi ricordano quando abbozzo una lamentela per l’attesa. Spiego che mi serve il passaporto e l’impiegato mi dice stancamente che ho sbagliato il numero dell’interno. Dice che devo parlare con un suo collega e mi mette nuovamente in attesa. Aspetto solo trenta minuti e mi rispondono. È lo stesso impiegato di prima: “Ringrazi il cielo di essere italiano e di poter godere di questo servizio”, mi redarguisce. No, non finge di camuffare la voce per sembrare un altro (anche se me lo sarei aspettato), ma commenta semplicemente che il collega è impegnato. Consulta l’agenda cartacea e scarabocchia il mio nome. Bene, ho finalmente un appuntamento! D’ora in poi sarà una strada in discesa… senza freni.
 
L’ambasciata italiana a Stoccolma è un palazzo elegante con vista mare a Djurgården, un’isola meravigliosa immersa nella natura pur essendo relativamente in centro. Un posto tanto bello quanto lontano da raggiungere con i mezzi pubblici per dove vivo io e dove paghi anche l’aria che respiri se volessi andarci in macchina e parcheggiare. Tutto fantastico. Tutto stupendo. Peccato che l’appuntamento che ho ottenuto sia durante un giorno lavorativo alle 11 di mattina (dovrò chiedere un giorno di ferie) e sia tra 3 mesi. Giusto in tempo per prenotare il prossimo viaggio in Italia per il 2035.
Nel fatidico giorno arrivo alla cancelleria consolare armato di fototessere rigorosamente stampate da me seguendo il rigido protocollo del Ministero, documenti compilati e firmati secondo la prassi e il mio portafogli pieno di soldi. Pago la marca da bollo in contanti che faccio scivolare sotto il plexiglas come fosse una mazzetta. L’impiegato (lo stesso con cui ho parlato al telefono) prima commenta con una smorfia che non assomiglio a quello nella foto (e per forza, sono passati 3 mesi e tutta questa procedura mi sta togliendo anni di vita) e poi non mi rilascia né ricevuta né fattura. Lo spacciatore sotto casa mia ha la dichiarazione dei redditi più pulita dell’ambasciata.
Torno comunque a casa soddisfatto e comincio ad aspettare.
 
Aspetto.
Aspetto ancora.
Aspetto ancora un po’.
Solo un pochettino… ino, ino, ino.
Poi arriva la tanto agognata lettera per posta. Me l’ha appena consegnata il diligentissimo piccione che si è posato sul mio davanzale. Il dispaccio recita: “Dottor Riva, il suo passaporto è pronto”. Grida di giubilo che giungono fino a San Pietro.
 
Prendo un altro giorno di ferie e vado a ritirare il tanto atteso documento. Arrivo in ambasciata all’orario indicato sul sito internet ma l’ufficio è chiuso. Grida di bestemmie che giungono fino a San Pietro. Mi rendo conto che il papa deva essere alquanto confuso, ma in fin dei conti dovrebbe essere abituato.
La cancelleria consolare è chiusa senza preavviso. Sulla porta c’è un cartello: “Sia grato che ci sia un’ambasciata italiana in questo paese dimenticato da Dio”. No, scherzo. C’è scritto: “Chiuso per l’anniversario della morte di Dante”. Non il sommo poeta, ma il vecchio e fedele custode che purtroppo è deceduto qualche anno fa. Ovviamente non si scusano per il disagio. Quello spetta solo a Trenitalia.
 
Devo prendere un altro giorno di ferie. Anche se ottenessi il passaporto non potrò usarlo perché ormai mi sono giocato tutte le vacanze e non potrò viaggiare in Italia. Non importa. Ormai è una questione di principio.
Ritorno dunque in ambasciata. Questa volta è aperta. Oltrepasso il portone. Ad attendermi c’è un drago alato che sputa fuoco. Schivo le fiamme grazie al mio scudo e poi affondo nel cuore del dragone la mia spada forgiata nella roccia delle montagne della Lapponia direttamente da Babbo Natale.
Ora mi ritrovo davanti a un fiume di lava importata dall’Etna per puro senso patriottico. Un ponte tibetano è l’unico passaggio per giungere sull’altro lato. Ho paura. Mi faccio coraggio pensando che il passaporto mi sta aspettando. Mi reggo alle funi, cerco di non guardare sotto e, un passo dopo l’altro, supero il fiume di lava. Qualche secondo dopo le funi che reggevano il ponte si bruciano e mi rendo conto che non potrò più tornare indietro a rivedere i miei cari. Non importa. C’è un obiettivo più elevato da raggiungere.
Faccio un altro passo in avanti e per poco cado nel burrone che mi separa dallo sportello della cancelleria consolare. In fondo al precipizio una dozzina di simpatici coccodrilli del Nilo mi stanno aspettando per cena. Declino l’invito e mi preparo a superare anche questo ostacolo. L’altra riva è a solo un paio di metri di distanza. Ce la posso fare! Indietreggio di qualche passo, prendo la rincorsa, mi avvicino al ciglio del burrone e proprio mentre sto per saltare, l’impiegato (sì, sempre lui) mi fa lo sgambetto e io finisco giù. Cado come un salame. Finisco in acqua e poco prima di essere preda dei famelici coccodrilli perdo conoscenza.
 
Mi risveglio tutto bagnato. Incredibile: sono vivo! Tuttavia non sono fradicio d’acqua, ma di sudore. Sono confuso e agitato. Ci metto un po’ a riprendermi e a capire che sono nel mio letto. A casa mia. A Stoccolma. Era solo un brutto sogno.
 
Mi alzo e accendo il computer. Vado sul sito della polizia svedese. Prenoto un appuntamento per il lunedì successivo ed eseguo il pagamento on-line. Puntuale e senza fare coda giungo allo sportello. L’impiegato mi scatta una foto elettronica e firmo su uno schermo digitale. Dopo una settimana m’informano via e-mail che il passaporto è pronto. Ritorno alla stazione di polizia per il servizio drop-in e ritiro il documento nel giro di dieci minuti.
 
Phew! Per fortuna che sono anche cittadino svedese.