venerdì 16 settembre 2022

KISSENEFREGA – Il club

Una limousine nera si ferma davanti a un imponente palazzo barocco situato nella periferia della città, quasi in campagna. Dopo qualche secondo di pausa ne esce un uomo in abito da sera nero e mantello. Porta una maschera in stile veneziano in faccia. Quell’uomo sono io.
 
Mi avvicino al portone del palazzo. Osservo con un po’ di timore ed eccitazione le due statue poste ai lati: un drago alato alla destra e un’aquila reale a sinistra. Col picchiotto a forma di testa di leone busso alla porta e attendo con ansia. In pochi secondi un maggiordomo apre.
«Parola d’ordine, signore?»
«Fidelio!» Rispondo senza esitare.
L’uomo però scuote la testa.
«Apriti sesamo.» Riprovo. Stesso risultato.
«Un fiorino…» Lo dico cercando di imitare l’accento napoletano. L’uomo scuote la testa ancora.
«Mi manda Walt Disney? Savoia o morte? La signora cammina con la borsa e il fosso si salta senza rincorsa?» L’ultima la dico come se fossi Antani, ma non basta.
Esausto esclamo: «Oh, Grande Giove… la parola d’ordine è…»
E l’uomo mi fa entrare.
«Bene, signore. Vedo che sa pensare quadrimensionalmente.» Aggiunge con un sorriso che posso solo immaginare perché è nascosto dalla maschera. Un cameriere mi toglie il mantello dalle spalle. Anche lui porta una maschera. Tutti qui dentro portano una maschera veneziana sul volto. Me ne accorgo quando comincio a camminare sul tappeto rosso del lungo corridoio poco illuminato che porta alle altre stanze del palazzo.
La mia attenzione viene subito attratta dalle grida di piacere e sofferenza che arrivano dalla prima camera. Mi affaccio e vedo due persone che fanno cose oscene. Rabbrividisco ma allo stesso tempo ne sono attratto. Faccio un passo dentro per vedere meglio. Un uomo mezzo nudo sta seduto su una sedia. Una donna sta in piedi dietro di lui. Lei gli massaggia vigorosamente le spalle dolenti. Lui grida per la sofferenza e per il temporaneo sollievo. Non posso restare un minuto più a guardare la scena.
Mi sposto subito verso la stanza successiva. Capisco subito che questa è la stanza più brutta di tutte. Ci sono solo uomini. Sono tutti rasati alla perfezione e hanno i capelli impomatati. Sono in giacca e cravatta che, a quanto pare, mettono anche di sabato e di domenica mattina per andare a bere il caffè al bar. Parlano di investimenti, di carriera, di macchine nuove, di giardinaggio e non ridono mai, neanche davanti a un dibattito politico italiano. Sembrano tremendamente seri e maturi. Li lascio subito stare. Non voglio neanche entrarci qui.
Vado avanti verso una nuova stanza dove trovo molti uomini e donne che parlano tra di loro in maniera composta anche se qualcuno sembra essere più concitato di altri. Non capisco bene di cosa stanno disquisendo, ma l’atmosfera sembra comunque molto distesa. Oh, che bello. I muscoli della fronte e delle mandibole si allentano. Penso che potrei unirmi alle loro discussioni, ma quando mi avvicino a una coppia capisco il contenuto della loro conversazione e mi si gela il sangue. Stanno parlando del tempo che farà domani. Una delle due dice che ci sarà il sole perché il cielo era rosso stasera. L’altra sostiene di aver controllato diversi siti di meteo e afferma sicura che invece pioverà. Io scappo prima che si accorgano della mia presenza e mi lancio in un altro gruppetto di persone. Con mio grande orrore la musico non cambia. «I giovani non sono più quelli di una volta…» Dice uno. «La nostra generazione è fatta di un'altra pasta.» Dice l’altro. «Si stava meglio quando si stava peggio.» Aggiunge il terzo. Robe da farti accapponare la pelle, ma non è finita perché arriva un’altra persona che con grande eccitazione esclama: «Hanno aperto un nuovo cantiere, ci andiamo?»
Mi basta e avanza. Esco dal camerone e torno nel corridoio. Sono deluso. Comincio a passare in rassegna velocemente le altre stanze senza grosse speranze e aspettative.
Nei bagni trovo chi si tinge i capelli e chi si strappa i peli bianchi dalla barba con una pinzetta davanti allo specchio. Nella biblioteca osservo con curiosità gente seduta sulla poltrona con le braccia distese in avanti per reggere un giornale nel tentativo di controbattere una miopia cavalcante. A ogni passaggio in corridoio mi sento male. Nel salone centrale vedo molti uomini e donne di mezza età perdere freni inibitori, lanciarsi in risate sproporzionate e imbarazzanti balli di gruppo dopo aver bevuto solo un paio di birre o un bicchiere di vino. Vedo le stesse persone coricarsi per “riposare” già alle nove di sera nelle camere da notte dopo aver messo a letto i propri figli.
Ho visto abbastanza. Devo scappare da questo luogo di perdizione. Devo andarmene, ma non posso. Le porte sono sorvegliate da un paio di scimmioni con una maschera da King Kong che nasconde una faccia da gorilla, le finestre sono sbarrate. Sto sudando freddo. Non posso restare in questo palazzo. Devo nascondermi da qualche parte prima che il personale del palazzo mi prenda e mi porti di forza in una di quelle tremende stanze che ho appena visitato.
In preda al panico apro la prima porta che trovo ed entro in una stanza silenziosa e semibuia. Al centro, illuminato da un faro di luce bianca, è posizionato un grande armadio a due ante. Un armadio di legno di rovere, massiccio e intarsiato. Chiudo la porta alle mie spalle e mi concentro sul mobile misterioso. Man mano che mi avvicino, delle note di pianoforte, prima singole, deboli e distanziate le une dalle altre, poi sempre più intense e in rapida successione riecheggiano. Il pathos aumenta finché appoggio la mano sulla maniglia dell’armadio e la musica si ferma di colpo. È solo nella mia mente oppure c’è qualcuno che segue le mie mosse. D’improvviso mi sento osservato ma questo non mi impedisce di tirare la maniglia e aprire l’armadio. Dentro non c’è niente. È buio. Molto buio, da non vedere il fondo. Questa può essere la mia salvezza da questo terribile palazzo e da tutte le sue maledette stanze. Qui posso starmene tranquillo. Nessuno mi romperà le scatole. Potrò evitare i contatti sociali, gli obblighi e gli impegni. Qui sarà un luogo sicuro per me, dove scaccolarmi, spaparanzarmi sul divano, guardare serie tv demenziali o vecchi film degli anni ’90 dei quali conosco tutte le battute a memoria senza essere giudicato. In questo armadio posso nascondermi dal mondo.
Mi faccio coraggio, entro con un piede, poi con l’altro. Sono dentro. Richiudo le ante dell’armadio dietro di me e i miei occhi si sono già abituati all’oscurità. Non è poi così buio e mi accorgo di non essere solo. Sono uomini e donne della mia età o più vecchi. Sono amici, conoscenti, parenti. Mi guardano e mi sorridano amaramente. Tengono in mano dei palloncini e reggono dei festoni.
Mi giro per scappare ma le ante sono bloccate. Incisa con le unghie sulla parte interna della porta dell’armadio una scritta recita: “Benvenuto nel club dell’anta!”
 
E voi direte: e chi se ne frega del tuo nuovo club? Beh, non prendetevela con me, non è colpa mia… io vi avevo avvisati: rileggete il titolo della rubrica, per piacere!

Nessun commento:

Posta un commento