mercoledì 20 novembre 2024

ITALIENAREN – Movember

Sul palmo della mano sinistra riposa una montagnola bianca e soffice. Nella presa salda della mano destra tengo uno strumento affilato. Mi guardo allo specchio e mi spalmo con foga la schiuma sulla superficie della faccia dalle basette e dalle narici in giù. È un’operazione che non eseguo molto spesso e mi sento un po’ impacciato. Tagliare la barba non è il mio forte. Mi concedo questo momento solo per situazioni eccezionali come un matrimonio (solo per il mio) e per entrare in un personaggio teatrale durante gli spettacoli. Passati gli eventi, abbandono subito la pratica per pigrizia e ritorno allo stato brado. Ho da poco però scoperto un’altra iniziativa molto importante che ha richiamato la mia attenzione: Movember[1], un neologismo sincratico – anche detto parola macedonia – che unisce le parole Moustache e November. È un evento annuale a scopo benefico che si svolge nel mese di novembre nel quale gli uomini che vi aderiscono (chiamati Mo bro) si fanno crescere i baffi per sensibilizzare l’opinione pubblica sul carcinoma della prostata.
Un’occasione lodevole da cogliere al volo ora che, con la schiuma spalmata, sembro Babbo Natale o un pagliaccio preso a torta di panna in faccia. Partendo da una barba alla Leonardo di Caprio in The Revenant la scelta è ampia e mi permette diversi tipi di baffi. Comincio a togliere le basette e i peli ispidi dalle guance fino a lasciare un pizzetto alla Edward Norton. Accosto la lama del rasoio al lato delle labbra ma poi mi fermo. Tentenno. Ci sono molti stili di baffo. Difficile scegliere. Cerco su internet per trovare ispirazione e vado.
Taglio la barba sotto e sopra il mento e lascio due linguette, una sotto il lato destro e una sotto il lato sinistro della bocca. Ecco un baffo a ferro di cavallo alla Hulk Hogan, James Hetfield dei Metallica o di un biker con l’Harley Davidson. Fletto i muscoli e sfodero indice, mignolo e pollice a forma di corna. Mi sento molto cool, ma questo vestito peloso non mi si addice. Sad But True.
Rado ancora e mi trasformo in un tricheco con un bel paio di baffi folti che escono da entrambi i lati della faccia e coprono tutta la bocca. Mi do un’aria da letterato alla Mark Twain o da filosofo alla Nietzsche. No, cercare di essere un Superuomo e un Nichilista è un peso troppo grande.
Accorcio un po’ ed eccomi scaraventato alla fine del IXX, inizio XX secolo, nell’Impero austro-ungarico. Davanti a me non vedo più la mia faccia, ma quella di Francesco Ferdinando. Hm, meglio evitare di finire come lui e scaturire l’inizio della Terza Guerra Mondiale.
Aggiusto un po’, arriccio all’infuori e all’insù con un’abilità che stupisce anche me stesso. Ormai ci ho preso mano e ho appeno rifinito dei baffi a manubrio. Vittorio Emanuele II, Buffalo Bill e lo stereotipo dell’uomo messicano sarebbero orgogliosi di me. Mi rendo conto però che non raggiungerò mai Salvador Dalì quindi meglio andare oltre.
Aggiungo un po’ di schiuma e passo con la lama di qua e di là: stupendi, mitici, eccezionali. Mi viene voglia di cantare e trasformo il rasoio in un microfono. Con questi mustacchi a V rovesciata che coprono di poco il labbro superiore mi sono proprio liberato e ora sono un campione. Sono Freddie Mercury. Nah, meglio abbassare i toni. Questi baffi chevron non mi fanno assomigliare tanto né a lui né tantomeno a Tom Selleck in Magnum P.I. Peccato. Sbuffo e proseguo la mia ricerca: Lo spettacolo deve continuare.
Riduco ancora di più verso le narici e, voilà, ecco un baffo a spazzolino come Charlie Chaplin e Ollio. Sorrido, ma poi mi passa. Nessuno penserà a loro due ma a un altro personaggio di moda in Germania negli anni ’40 del secolo scorso e purtroppo di nuovo in voga ora, negli anni ‘20 di questo secolo.
Non mi resta che lasciare un filetto di peli attaccato al labbro, ben curato e molto elegante dallo stampo classico. Non riuscirò a essere a Zorro, Gomez Addams o Clarke Gable, non solo perché mi manca lo smoking giusto o il mantello, ma soprattutto perché ormai ho tolto la parte di baffo verso l’estremità delle labbra per completare lo stile a fiammifero. Che tristezza.
Tutte queste associazioni di nomi, personaggi affascinanti e mostri sacri della storia mi hanno dato alla testa. Così, mi scappa la mano e tolgo ancora un altro pezzo di baffo. Nel processo mi procuro un taglietto che tampono subito con pezzi di carta igienica. La frittata è fatta. Ora devo togliere tutto e rimanere sbarbato. Ci riproverò il prossimo anno ad aderire a Movember. Nel frattempo faccio una donazione dal sito: offerta baffuta, sempre piaciuta.
 
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Ecco il link all’articolo su Italienaren - Il lavoratore:
https://italienaren.org/movember/
[1] https://se.movember.com/

mercoledì 13 novembre 2024

RACCONTI – Il tempismo delle idee

Sono disteso supino. Inspiro ed espiro sempre più lentamente. Il calore del mio corpo viene trattenuto dalle coperte e mi lascia in un dolce tempore. Le gambe e le braccia sono pesanti, allungate sopra il materasso. Il battito cardiaco decelera e la mente comincia a percorre la porta di transito tra la veglia e il sonno. Ho girato la maniglia e ho fatto il primo passo sulla soglia. Ci sono quasi. Tra pochi secondi sarà domani mattina.
I muscoli si rilassano e faccio un altro passo avanti, ma inciampo su qualcosa. Il cuore ricomincia a corre e la frequenza del respiro aumenta. Guardo bene cosa mia abbia fatto perdere l’equilibrio. È un cubo a forma sferica, con spuntoni che urlano parole incomprensibili, in due dimensioni. Lo guardo meglio: ora è un triangolo isoscele, con cinque angoli e due diametri, in tre dimensioni che si muove nel tempo. I muscoli del corpo s’irrigidiscono. Tutta la mia attenzione si dirige verso l’oggetto. Ora è un fiume di lettere in piena che striscia all’indietro, cadendo da una cascata di canzoni ad altissimo basso volume.
Ho capito di cosa si tratta: ho appena avuto un’idea. Lascio la porta verso il regno dei sogni alle mie spalle e torno indietro. Gli occhi si spalancano nel buio della camera. Sento il respiro di mia moglie al mio fianco. Riprendo coscienza della mia posizione nello spazio.
Non posso riprendere sonno prima di aver annotato da qualche parte quello che mi è venuto in mente, altrimenti rischio di perderlo tra le lenzuola, tra le nuvole di zucchero filato o nell’archivio impolverato del cervello. Non ho scelta, devo uscire dal letto.
Colto da un’agitazione febbricitante, do acqua al semino dell’idea e la vedo crescere in fretta in un progetto abbozzato. È un germoglio piccolo e insicuro, ma ho già molte aspettative e speranze. Metto un piede fuori e il gelo della stanza mi aggredisce. Esco con le gambe, spostando la coperta di quel poco che basta per non far svegliare mia moglie e mi infilo al volo le ciabatte. Cerco a tentoni gli occhiali e dopo un primo tentativo nel quale la stanghetta mi finisce nell’occhio, li inforco. Devo sbrigarmi altrimenti l’idea perderà d’intensità. Vedo il contorno della porta ora che le pupille si sono dilatate. Seguo il bordo del letto con una mano e con l’altra cerco l’armadio per orientarmi. Smanioso di buttare giù un appunto che plachi la mia irrequietezza, sbatto l’alluce contro la base del letto. Bestemmio in silenzio mentre mia moglie si rigira mugugnando qualcosa di incomprensibile. Faccio un paio di passi e giungo alla porta. Con cautela apro, entro in salotto e richiudo dietro di me. Posso tirare un sospiro di sollievo. Mi affretto in cucina dove mi aspettano un blocco di fogli e una penna a sfera. Scrivo senza pensare, come se fosse un’eruzione vulcanica. Annoto cubi, piramidi, fiumi in piena, lettere e parole, musica, pioggia di cristalli e colline di margherite – tutto.
Mi fanno male le dita della mano per quanto ho stretto la penna. Una goccia di sudore cola dalla fronte. Quando ho finito sono esausto ma soddisfatto. Mi chiedo se si sentano così i tossicodipendenti con una dosa dopo una crisi d’astinenza. Coccolo la nuova idea come un neonato dal sorriso dolcissimo. Nei prossimi giorni ci sarà tempo per cambiargli il pannolino. Ora si può sognare a occhi aperti, prima di godersi di nuovo un meritato sogno a occhi chiusi.
Il giorno dopo sono sotto la doccia. L’acqua è tiepida e il flusso mi massaggia la pelle. Starei qua dentro per delle ore. Mi rilasso e lascio andare il treno dei pensieri. Schivo un paio di preoccupazioni e di scadenze da rispettare e divento tutt’uno con l’acqua che scorre. Si sta così bene: è caldo e sono pulito. Nonostante io non abbia mosso la mano, all’improvviso il getto d’acqua cambia direzione e mi finisce in faccia, assieme a pezzi di puzzle, bulloni e ingranaggi vari. Era quello che mi mancava nel nuovo progetto. Raddrizzo la schiena e sgrano gli occhi. Mi giro da una parte e poi dall’altra nello spazio ristretto della cabina nel goffo tentativo di appoggiare il doccino. Devo trovare una penna. Devo scrivermelo. Non posso dimenticarmelo. Devo registrare l’appunto. Mi sembra di essere in una scena del film “Memento”. Devo afferrare una penna il prima possibile e buttare giù su foglio l’idea prima che finisca risucchiata nello scarico. In fretta e furia, chiudo l’acqua, mi asciugo alla meno peggio ed esco dal bagno gocciolante. Mi getto a pesce sul blocco degli appunti e scrivo a caldo. Ci sarà tempo per asciugare le scie che ho lasciato e per subire un cazziatone da mia moglie. Avevo bisogno della mia dose.
Nel pomeriggio, sono le quattro e tre quarti, devo uscire di casa per correre a prendere i bambini. Sono già in ritardo. Mi metto le scarpe e il giubbotto. Afferro le chiavi e sono pronto a uscire. Uno strano formicolio parte dal collo e si estende al petto. Passa alla schiena, scende sulle gambe e infine ai piedi. Devo slacciare le scarpe e toglierle. Il formicolio risale il corpo fino alle braccia. Devo togliermi anche il giubbotto. Le mani mi tremano e mollo le chiavi sul mobiletto d’ingresso. Sbatto la testa contro il muro un paio di volte finché da una fessura ne esce una lunga stringa di parole alla rinfusa che cominciano a volare via. Le inseguo per l’appartamento. Mi sfuggono due volte di fila ma alla terza raccolgo tutto e lo spingo a forza dentro il retro di una penna bic. Prima che scappino fuori di nuovo, prendo un quaderno e butto giù il più velocemente possibile tutto quello che l’inchiostro ha da offrire. Mi sembra sia passato un minuto, in realtà ne sono trascorsi venti. Trasalisco alzando gli occhi verso l’orologio. Avrei dovuto essere a scuola dai bambini cinque minuti fa. Rimpiango di non essere Spock e impreco contro l’umanità per la mancanza dell’invenzione del teletrasporto.
Il giorno dopo, al lavoro, tutto il personale è raccolto per la settimanale generalissima riunione aziendale – da leggersi con la voce di Fantozzi – la quale ha il potere magico di trasformare i marroni dei presenti i noci di cocco giganti. Lottando contro la forza di gravità delle palpebre mi guardo attorno e noto un collega perdere lo sguardo oltre la finestra verso il nulla del cielo grigio, un altro annuisce a ritmo sintonizzato su una canzone che gli passa per la testa e non sul discorso del capo e infine un’altra ancora che sbircia sul cellulare usando il foglio con l’ordine del giorno come scudo protettivo contro i raggi X del datore di lavoro. Bene, sono in buona compagnia. Sto per tornare a lottare contro Morfeo ma abbozzo un sorriso quando mi accorgo che i colleghi si stanno trasformando in animali parlanti, la stanza in una stalla e il pavimento in letame. Mi devo dare un pizzicotto sul braccio per assicurarmi di non essermi davvero addormentato e per ricordarmi che purtroppo non sono sotto l’effetto di sostanze allucinogene. Prendo la penna dal taschino e annoto tutto sul retro dell’ordine del giorno. Ho l’accortezza di fingere di ascoltare quello che dicono gli altri e di non scrivere durante le pause della discussione. Scrivo di getto tutto e il brusio della riunione sparisce nel sottofondo, sovrastato dal baccano della mia idea.
Il resto del giorno si adegua e invece di rispettare la scadenza di un compito importante ma noioso, il progetto alternativo nato durante la riunione prende il sopravvento, facendomi perdere tempo e il lavoro, se dovessero beccarmi.
A fine giornata torno a casa in bici. È già buio e la pioggerellina rende l’aria umida e nebulosa. La visibilità farebbe invidia alla Pianura Padana in novembre. Meglio attivare tutti i sensi. Non sono Spiderman ma per girare sulle strade della città senza pista ciclabile e senza rischiare la morte dovrei diventarlo. Frenando di colpo evito un ciclista che mi taglia la strada. Un’automobile corre troppo vicina al marciapiede e mi schizza l’acqua addosso passando sopra una pozzanghera marrone. Sovrappensiero sto per sbagliare strada e all’ultimo secondo svolto a sinistra. Un fascio di luce mi inonda e mi acceca. Spalanco gli occhi invece di socchiuderli. Non è un autobus o un tir che mi sta investendomi mandandomi al creatore, ma un'altra illuminazione creativa. Mancano ancora un paio di chilometri a casa e la devo trattenere fino a quando mi potrò fermare a scrivere. Potrei farlo qui e ora ma la pioggia cade più fitta e maciullerebbe la carta. Il cellulare è scarico e voglio andare a casa. Tiro la coperta corta della mia attenzione una volta verso l’idea per tenerla in vita e una volta verso la strada per tenermi in vita. Con questa alternanza spingo anche sul pedale destro e sul sinistro. Vado avanti così finché giungo a casa sano e salvo. Mi guardo alle spalle per controllare di non aver perso guanti, berretto o dettagli del concetto che ho sviluppato in testa e mi precipito a casa. Prima ancora di salutare moglie e bambini, sto già appuntando tutto prendendomi il tempo necessario e arrivando tardi per cena. Sono così concentrato che non sento gli schiamazzi dei bimbi e gli insulti della mia compagna.
Dopo il pasto sopraggiunge un nuovo stimolo. Questa volta è fisico e devo scappare in bagno. Mi siedo sulla tazza. Per una volta tanto ho lasciato il cellulare in salotto di proposito e così rifletto sulla giornata e sulla vita. I pensieri svolazzano liberi tra le mattonelle bianche davanti a me. Alcune si organizzano, altre si oscurano in blocchi neri e tutte insieme formano un cruciverba gigantesco e difficile come quello di Bartezzaghi sulla settimana enigmistica. Le associazioni si allineano e si compongono come i calcoli matematici dei geniacci nei film americani. Mettendo assieme parole e concetti, spingendo da una parte e dall’altra, viene fuori qualcosa di grosso. I maligni credono di sapere da dove sia uscito ma si sbagliano. È qualcosa che aspettavo da tutto il giorno ma che non aveva ancora trovato lo sfogo. Sono soddisfatto del risultato ma non ho penna con me e l’unica carta a disposizione è quella igienica. È poca ma mi accontento e la uso tutta. Ancora una volta sono riuscito a mantenere viva un’idea prima che scappasse via. A come pulirmi le natiche dalla cacca ci penserò più tardi.

giovedì 7 novembre 2024

ITALIENAREN – Bruno

Oggi ho visto un orso!
Si muoveva lento e silenzioso verso la sua meta: del dolcissimo miele d’acacia. Non potevo credere ai miei occhi perché non è facile vederlo in giro in questo periodo e quest’ora del giorno. Si spostava con circospezione adagiando tutto il suo peso prima sugli arti destri e poi su quelli sinistri, seguendo la tipica camminata ciondolante come se fosse una danza ubriaca. Maestoso e un po’ goffo allo stesso tempo. La sua pelliccia folta e arruffata, che lo proteggeva dal freddo e dalle intemperie della giornata uggiosa, lo rendeva simpatico. I denti aguzzi, con resti di radici e foglie incastrati tra un incisivo e il canino, però ricordavano a tutti di stargli alla larga.
All’orso bruno piace stare da solo, soprattutto mentre mangia. Oggi non faceva eccezione. In pochi minuti, infatti, sotto il mio sguardo allibito, si era divorato tutto il miele. Poi si era trangugiato una bella manciata di noci e semi emettendo vocalizzi d’eccitazione dalle tonalità basse. Infine si era sbafato anche due mele e una pera. Tutta roba trovata nelle tasche del mio giubbotto che avevo malauguratamente lasciato incustodito alla sua facile portata. Non soddisfatto si era messo ad annusare in giro, probabilmente in cerca di bottini più grossi. Avrei voluto fermarlo, farlo scappare, magari muovendo un ramo o urlando ma avevo preferito lasciarlo in pace per continuare ad osservarlo con attenzione nella speranza che non mi avrebbe notato. È vero che è di indole pacifica e diffidente, ma può attaccare se disturbato o sorpreso a breve distanza.
Dopo aver cercato invano altro cibo, si era adagiato sul fianco in cerca di ristoro, proprio sotto il rifugio dove mi ero sistemato per studiare i suoi comportamenti. Era probabilmente l’ennesimo riposino della giornata nella sua tana. Non potevo muovermi e avrei dovuto aspettare il suo risveglio fino alle ore crepuscolari se non fosse che l’arrivo dei suoi cuccioli lo avevano distolto dalla pacchia in panciolle. Con i loro schiamazzi e giochi incontrollati i piccoli lo avevano reso nervoso. Lo sentivo diffondere ripetutamente profondi e prolungati brontolii (definiti “ruglio”) nel tentativo di controllare senza successo la vivacità della prole. Nonostante fossi ben al sicuro dai suoi possenti artigli, avevo cominciato ad allarmarmi, impaurito di non poter più andare via.
L’occasione per uscirne sano e salvo però sarebbe arrivata poco dopo quando l’orso era stato costretto dalla sua partner ad andare a scovare qualche buon fungo e procacciare un bel pezzo di carne fresca per lui e la famiglia. Lasciando la tana doveva schivare le tante pozzanghere formatesi durante questa stagione della pioggia e le sue capacità di abile nuotatore tornavano utili nella circostanza. In poco tempo era tornato nel suo covo con la cena. Almeno così la giornata aveva avuto un senso.
Sì, oggi ho visto un orso. L’ho osservato tutto il pomeriggio avvolto nei vestiti del giorno prima, con la barba incolta, i capelli spettinati, assonnato, con poca voglia di lavorare e men che meno di incontrare altri individui. Gli capita spesso da quando fuori è grigio, piove e comincia a far freddo, soprattutto perché sta a casa più spesso del solito, troppe volte tentato dal divano e da altre distrazioni. Povero orso, fa quasi tenerezza. È ancora qui, davanti a me, mentre lo guardo allo specchio.
 
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venerdì 1 novembre 2024

ITALIENAREN – Angolo di paradiso

Passeggio con la testa immersa nei miei pensieri e nelle preoccupazioni. Lo sguardo è basso rivolto ai sampietrini di questa stradina di Södermalm. Dal nulla si alza un refolo di vento e sposta in avanti le foglie lungo il pavé. Un altro colpo le porta in alto e mi costringe a seguirle con gli occhi. Le foglie autunnali dalle mille gradazioni di giallo e arancione svoltano all’improvviso a sinistra, giù per una scala di legno, poi a destra tra le fronde degli alberi e lungo un percorso sterrato. Il vento mi spinge a seguire il fogliame che infine si libera e danza nell’aria limpida a contatto col pallido sole dell’ottobre stoccolmese. Come spesso mi succede, quasi senza accorgermene, arrivo all’improvviso in questo posto magico in pieno centro. Camminando lungo il sentiero ghiaioso, mi ritrovo la città sbattuta in faccia. Ci sono dentro e allo stesso tempo mi sembra di esserne fuori, distante, in un percorso parallelo. Mi sembra di stare sopra la città e di guardarla come se fosse un soprammobile comprato in un negozio di souvenir. È una sensazione che mi coglie sempre di sorpresa. Rimango ammaliato dalla bellezza di Gamla Stan, dell’imponenza dello Stadshuset coi suoi mattoni rossi. Gli occhi si spostano a destra e sinistra e il sorriso si allarga tra le labbra: seguo tutto il Norrmälarstrand fino allo slanciato Västerbron in lontananza. Mi fermo ad accarezzare un gatto che, accovacciato sul passamano di legno, fa le fusa a tutti i passanti, senza eccezioni. Dal lato opposto dell’orizzonte scorgo i tetti del palazzo reale che nascondono Djurgården e Östermalm. Nel contorno della città svettano le guglie delle chiese, le torri radio, le immancabili gru di una capitale sempre in costruzione e le due nuove torri di “Sauron” a Torsplan. Riprendo a camminare e mi diverto a indovinare da quale paese provengano i tanti turisti presenti sul percorso. Ascolto le loro lingue e le loro espressioni stupite. Riconosco gli italiani dal loro modo di muoversi e di vestirsi ancora prima di sentirli parlare. Scatto una foto a chi me lo chiedo e ributto lo sguardo oltre il precipizio dove trovo lo specchio d’acqua che mi riflette e mi fa riflettere. Questo posto magico è nascosto, ma molti sognatori riescono comunque a trovarlo a occhi chiusi. Scorro la mano sui lucchetti agganciati sulla rete metallica e provo anch’io un rinnovato amore per una città che mi sta dando filo da torcere in questo periodo. Dall’alto osservo le automobili sfrecciare sul Centralbron come delle Micro Machines uguali a quelle che avevo da piccolo, ogni tanto passa il treno come in un modellino che gira in cerchio all’infinito. Perso nelle mie fantasie mi scanso all’ultimo secondo per far passare una coppia di anziani che si tiene per mano. Immagino le case del paesaggio fatte di mattoncini Lego multicolori e i palazzi più importanti come miniature rubate al museo civico. I passanti in fondo alla scarpata sono formichine e le barche sembrano radiocomandate da qualcuno nascosto tra i parchi o gli appartamenti dai prezzi esorbitanti alle mie spalle. Le foglie gialle – mi piace pensare che fossero le stesse di prima – spinte ancora dal vento, ballano davanti al mio volto rilassato e mi riportano sulla strada principale.
Sono bastati cinquecento metri di passeggiata in questo posto tanto semplice quanto incantato per dimenticare ansie e paure. Quanto tempo è passato dall’inizio della camminata? Non ne ho idea e non è importante. È proprio questo l’effetto che fa questo terrazzo che sporge dalla e sulla città e mi proietta oltre i limiti osservabili dai miei sensi. Mi scuoto dal sogno e riprendo il passo spedito lungo Bastugatan. La mia pausa pranzo è finta, devo andare. Alla prossima volta, cara Monteliusvägen.
 
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giovedì 24 ottobre 2024

ITALIENAREN – Come ci vedono

Sto bighellonando su internet dopo aver messo a letto i bambini con molta fatica. Leggo qualche notizia, scrivo un’e-mail, ascolto della musica e guardo un video divertente. È sera tardi e sono stanco. Come passa il tempo quando sei improduttivo e ozioso. Dovrei già essere a letto, ma il maledetto algoritmo di Facebook mi tiene incollato allo schermo fornendomi rinforzi mentali intermittenti, cioè una notizia interessante ogni cinque di spazzatura. Alla fine afferro la mia spada laser e con tutta la forza di volontà rimasta sferzo un colpo deciso contro Mark-Darth-Vader Zuckerberg. Lo metto sotto, ma lui ribatte, non con un altro colpo di spada o una citazione trita e ritrita su chi sia mio padre, ma con un video. Un video potentissimo che mi disarma e mi lascia senza parole.
Mi devo fermare. Trattengo il dito dallo schiacciare il bottone di spegnimento del computer. Tolgo il muto dall’audio e premo play. Parte subito una base musicale campionata e sullo schermo compaiono personaggi improbabili in pieno stile anni ’80: un uomo dai capelli scuri, lunghi e unti, vestito con camicia e pantaloni bianchi che ostenta un petto villoso; una donna dai capelli cotonati e pantaloncini in jeans corti e strappati; uno strumentista giovane acqua e sapone armato di pianola elettrica a tracolla – la Keytar – e un altro con gli occhiali da sole che finge di suonare la batteria elettrica. Le immagini sono volutamente distorte per sembrare di bassa qualità. Dopo un attimo di confusione capisco che si tratta di una pubblicità per la giornata dedicata al Kanelbulle del Pressbyrån, una catena di negozi svedese di vendita al dettaglio che si trova in ogni angolo della città e soprattutto alle uscite delle fermate della metropolitana. Niente di strano fin qui per chi, come me, è cresciuto a pane e kitsch. Lo sbalordimento sopraggiunge quando mi accorgo che i protagonisti di questo revival cantano in italiano. Il testo fa ripetuti riferimenti ai panini dolci alla cannella di “Pressburoni” che il cantante ama più di sua madre, che sono la passione dell’altra cantante e che sono dolcissimi e buonissimi. Il tutto condito con un miscuglio di parole che suonano italiane ma che non lo sono[1].
Va bene che vivendo all’estero, e non solo, ormai si è abituati e si convive più o meno pacificamente con gli stereotipi italiani, ma con questo geniale video musicale gli svedesi hanno raggiunto limiti invalicabili che neanche la sonda spaziale Voyager 1 potrà mai superare. Eppure in tutti questi anni spesso molti svedesi, quantomeno nei loro sogni stereotipati, ci sono andati vicini. Molte volte siamo stati tacciati a priori come simpatici, rumorosi, vanitosi, affascinanti e inaffidabili mammoni che si esprimono come dei primitivi a gesti, sorrisi e versi incomprensibili ad alto volume. Abbiamo dovuto spiegare che non esistono solo Roma, Milano e Venezia… e Rimini (l’ultima per gli svedesi di una certa età). Spesso abbiamo dovuto difenderci dalle accuse di essere una nazione, sportivamente e non, di imbroglioni e simulatori. Altrettanto spesso abbiamo dovuto abbassare lo sguardo e concordare che la precedente osservazione fosse vera. Abbiamo dovuto inorridirci e insegnare che in Italia le fettuccine Alfredo non esistono, che i pepperoni sono in realtà una verdura e non un salame (come chi ci crede) e che la ricetta polpette di carne con spaghetti non la puoi trovare al ristornate ma solo nel cartone Lilli e il Vagabondo. La lista del bestiario internazionale potrebbe continuare probabilmente all’infinito, ma preferisco fare una siesta, riposarmi durante la giornata lavorativa per rubare un po’ lo stipendio e fare una chiamata veloce a mammina per dirle quanto non posso stare senza di lei.
Nella vita di ogni giorno, nel mio piccolo, cerco sempre di sfatare questi falsi miti, con l’esempio e con un po’ di sana educazione culturale. Mia moglie ed io, infatti, abbiamo cresciuto due bambini Italiani con la “I” maiuscola anche se loro sono nati e cresciuti in Svezia. Oh, ma eccoli che tornano da scuola… attaccati alla gonna della mamma… aggiustandosi il ciuffo dei capelli davanti ad uno specchietto… muovendo i polsi avanti e indietro, con le dita della mano che si uniscono in punta… scimmiottando la voce di Mario e Luigi e intonando e sghignazzando a ripetizione con eccessiva allegria ebete una canzoncina che fa cosi: “Mamma mia, Pizzeria, tuttar fria (letteralmente, tette al vento)".
Rileggo cosa ho appena scritto e concludo il verso della canzone “…Santa Lucia, portami via!”
 
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https://italienaren.org/Come-ci-vedono/
[1] https://www.resume.se/marknadsforing/kampanj/kranger-kanelbullar-med-discodanga-har-ar-nasta-uttag-av-pressbyrans-kampanj/

giovedì 17 ottobre 2024

RACCONTI - Confessioni

Sono le dieci e cinquanta di sera. La casa è avvolta nel silenzio e nella penombra. Sono seduto al tavolo della cucina e sto facendo finta di scrivere qualcosa al computer. Con la coda dell’occhio mi guardo attorno. I bambini sono a dormire da un bel pezzo, mia moglie è andata da poco in camera ma sta già ronfando. È quell’atmosfera serale che ho sempre amato, nella quale ho sempre trovato pace e ispirazione, nonostante fossi stanco e preoccupato dalla prospettiva di passare un’altra serata con poche ore di sonno alle spalle. Mi sento a mio agio e so quello che sta per succedere ormai da qualche mese a questa parte. Sento un brivido che mi percorre la schiena. So che non dovrei farlo ma allo stesso tempo vorrei tanto. È un prurito irrefrenabile che parte dalla testa, passa per il petto, arriva allo stomaco e forse anche più giù. Lei mi chiama. Non posso resisterle, anche se dobbiamo fare le cose di nascosto. È un errore e me ne pentirò, ma in questo momento il sangue non circola bene nel cervello. Sono ebbro al solo pensiero di essere di nuovo lì con lei.
Riesco a resistere ancora solo qualche minuto mordicchiandomi le unghie, tamburellando con le dita e agitando le gambe. Devo alzarmi, non ce la faccio più. Più i minuti passano e più le immagini mentali di lei mi distraggono dal quello che sto facendo al computer e mi lasciano solo un pensiero fisso in testa. Scosto la sedia con cautela e mi metto in piedi.
Prima passeggio avanti e indietro per la sala da pranzo, indeciso sul da farsi, poi mi guardo allo specchio e parto deciso all’azione. Per sicurezza faccio una capatina nella cameretta dei miei figli. Entro nella penombra e li guardo dormire angelici. Mi chino e do loro un bacio sulla fronte e passo alla camera matrimoniale. Anche lì tutto sotto controllo. Sorrido e torno in salotto. Nessuno senso di colpa. Nessun rammarico o esitazione ora. In questo momento farei di tutto pur di averla. Lei sa che è solo questione di tempo prima che io ceda. Lei mi aspetta e io sono come accenderla.
Mi metto comodo sul divano e sistemo un cuscino dietro la schiena. Lei suona e io la vedo arrivare. Mi fa attendere qualche secondo di troppo che mi sembra un’eternità mentre ardo dalla passione di farla mia. Io so però toccare i tasti giusti, l’afferro con due mani e con le dita percorro la superficie liscia della sua figura slanciata. Alla fine lei è pronta. Non aspettavo altro. A entrambi piace giocare ma quando è il momento di fare sul serio non ci tiriamo indietro. A volte si scalda ma so che devo solo attendere qualche minuto prima di ricominciare e il piacere è garantito.
Guardo l’orologio e ho un sussulto. È mezzanotte e mezza. Impreco e mi mordo le labbra. Porca miseria! Succede sempre così con lei. Il tempo vola e tutto il resto attorno a me sparisce e non ha più importanza. La mia famiglia, il lavoro che mi attende il giorno dopo e i miei hobby passano in secondo piano quando mi faccio assalire dalla sua inebriante dipendenza. È troppo piacevole tenerla stretta a me e coccolarla. Certo, ogni tanto mi fa arrabbiare, ma basta una sua carezza e tutto passa. Dovrei staccarmi da lei ma non posso. Ho bisogno di starci ancora un po’ assieme. I minuti si accumulano e passa un’altra mezz’ora. Maledizione! Mia moglie potrebbe accorgersi della mia assenza prolungata e beccarmi. Mi convinco che alla fine ne valga comunque la pena e tiro avanti altri cinque minuti. Ho gli occhi stanchi e la testa pesante. Siamo oltre l’una di notte e finalmente decido di allontanarmi da lei.
Questa è l’ultima sera che staremo vicini. Me lo dico ogni volta. Poi di solito ci ricasco.
Il giorno dopo però resisto. E anche il giorno dopo. E quello dopo ancora. Un paio di volte l’ho guardata da lontano e il pensiero è ritornato spesso a lei durante le giornate, ma ho sempre resisto. In quest’ultime due settimane non l’ho toccata, nonostante le tentazioni. Ho capito che era sbagliato, che era una perdita di tempo e che non era corretto nei confronti di mia moglie e dei miei figli.
Ora è tutto passato, per fortuna. Sto meglio. Ora leggo un libro, parlo con mia moglie o gioco coi bambini ogni volta che mi viene voglia di lei. La mia vita è di nuovo sana e regolare. Non sono più assuefatto da lei. Ogni tanto è così: mi succede di perdermi in una dipendenza per settimane, mesi o anni. La scimmietta mi sale in testa e non scende più. Poi però mi passa e torno quello di prima. Anche quest’ultimo mese intenso di Xbox è passato e lei ormai non mi tenta più. Ne sono uscito libero. Non sono più in catene.
Ora però devo andare a controllare, per la terza volta nell’ultima ora, quali esercizi di teatro che vorrei preparare per il gruppo. Poi devo ripianificare la scaletta delle prove perché le ultime due versioni non mi avevano soddisfatto. Infine devo riscrivere il riassunto delle scene per essere più preparato quando reciteremo. La nuova stagione teatrale mi ha preso alla grande, ma è tutto sotto controllo.
È proprio vero: ne sono uscito. Non ho più nessuna dipendenza. 

venerdì 11 ottobre 2024

ITALIENAREN – Porte in faccia

Signore e Signori, la storia che sto per raccontare non è divertente. Per niente. Ci sarebbe da piangere se ci si lasciasse sopraffare dallo sconforto e dalla tristezza. Io e i miei amici, però, siamo fatti di una pasta diversa, che non scuoce tanto facilmente come quella che trovi negli scaffali dei supermercati svedesi. Perché quando si tratta di stare assieme, divertirsi, gozzovigliare e giocare siamo dei veri bighelloni, degni delle migliori bande di saltimbanchi medioevali. Se però allo stesso tempo c’è l’opportunità di crescere e imparare, portando avanti un piccolo grande progetto teatrale che abbia l’ambizione se non di arricchire ma quantomeno d’intrattenere la comunità italiana a Stoccolma, allora le idee e le forze per superare le difficoltà si decuplicano. E di energia e di ingegno ne serve davvero tanto perché di questi tempi fare cultura non è affatto facile, signori miei. Non lo è per i professionisti, figurarsi per i sopracitati bighelloni che adorano così tanto quest’arte da essere definiti amatori.
Persino in Svezia da sempre attenta a questi aspetti sociali la favola sembra essere finita.
O forse no? Magari se riesco a infilare un folletto in questa storiella potrei far continuare la magia.
Il giorno dopo quindi esco di casa con la mia camicia a righe, ben stirata e abbottonata stretta fino al collo. Con una mano tengo la valigetta ventiquattrore con tutti i documenti importanti, con l’altra un borsone più grande con lo strumento del mestiere. Parto a piedi per una nuova giornata extra-lavorativa. Sorrido appena incontro i miei colleghi con gli stessi arnesi e vestiti allo stesso stile. Sembriamo dei predicatori americani e non dei rappresentati di aspirapolvere. Ne ridiamo assieme per sdrammatizzare e ci dirigiamo verso le prime porte che ci aspettano.
Una serie di villette a schiera tutte uguali le une alle altre si presentano davanti alla nostra vista. Ci dividiamo le abitazioni di legno rosse. Con passo deciso io punto a quella centrale. Percorro il breve vialetto, salgo il gradino del piccolo portico, mi assesto la cravatta e suono alla porta con una perfetta pressione del dito indice sul campanello. Aspetto. Passa qualche minuto. Nessuno risponde. Passa un altro minuto e ancora niente. Il mio sorriso smagliante si sta scalfendo. Alla fine la porta si apre con timidezza e dalla fessura ne esce mezza faccia di una rugosa anziana.
Il mio sorriso si ringalluzzisce e in un secondo estraggo l’aspirapolvere dal borsone.
«Buongiorno signora! Mi permetta di presentarle il nostro nuovo prodotto per la prossima stagione: il nuovissimo e sensazionale aspirapolvere VI-2024-25! Da oggi non si dovrà più preoccupare della polvere sui libri e sugli scaffali del salotto. Non ci sarà più bisogno di…»
«No, grazie. Non mi interessa.» La signora comincia a chiudere la porta.
«Ma guardi che con VI-2024-25 potrà finalmente dare una scrollata a quel bel vestito da sera che è nascosto nell’armadio e indossarlo per andare a teatro. E poi…»
«No, grazie. Non mi interessa. Arrivederci.» E chiude del tutto la porta.
Torno sulla strada principale e ritrovo i miei compagni. Tutti hanno ricevuto la stessa risposta. Ci può stare. Non ci perdiamo d’animo e ci incamminiamo verso il successivo blocco di abitazioni. Un condomino di cinque piani. Ci dividiamo i piani e gli appartamenti. Io prendo quello in alto.
Uno scalino alla volta, un po’ sudato, giungo al pianerottolo finale. Mi fermo a prendere fiato e mi sistemo la camicia. Prendo il manuale per mostrarlo meglio e suono al campanello con rinnovata speranza. Questa volta aprono subito. Buon segno, penso.
«Buongiorno! Sono un rappresentante dell’aspirapolvere VI…»
Il signore sulla sessantina, grassottello con i capelli bianchi, non mi lascia il tempo di finire la frase e io mi ritrovo col muso a un paio di centimetri dal legno della porta. D’istinto torno col dito sul campanello ma all’ultimo decido invece di bussare, per non disturbare. Nessuna risposta. Busso ancora una volta, più forte di prima. Niente.
Scendo le scale e ad ogni piano raccolgo i miei amici a pezzi come la fiducia in noi stessi. Intuisco che sia capitata la stessa sorte anche a loro. Giunti al pian terreno, ci diamo una pacca sulle spalle e ricominciamo a camminare. Non sarà certo questo a fermarci. Nuovo quartiere, nuove possibilità.
Mentre ci avviciniamo al gruppo di villette sulla collina, notiamo che i passanti cambiano strada ogni volta che ci vedono. Se chiediamo informazioni qualcuno fa finta di non averci visto e continua a testa bassa guardando il cellulare, altri ci insultano.
«Andate a cercarvi un lavoro vero!»
Inutile ricordar loro che per molti professionisti questo è un vero lavoro e che per noi questo è un hobby oltre al nostro lavoro principale. Non vogliono capire. Alzo le spalle e continuo a camminare. Ormai che siamo qui è meglio proseguire, penso.
Avvistiamo una bella villa a due piani, con un giardino grande e ben curato. Questa volta non ci dividiamo e tentiamo un approccio di squadra. Ci raccogliamo in una breve riunione strategica. Ne usciamo più forti e più convinti. Ora siamo pronti. Ci avviciniamo al recinto e suoniamo al citofono.
«Salve, siamo quelli degli aspirapolveri italiani in Svezia.»
«Prego, entrate!»
La voce non esita. Finalmente un po’ di gentilezza e di fortuna dalla nostra parte. Il cigolio del cancello che si apre è lieve e melodioso. Con coraggio e rinnovata fiducia, metto il primo piede dentro per dare il buon esempio. Il suono dell’acqua che scorre nella fontanella al centro del giardino rende il luogo ancora più idilliaco. I miei compagni mi seguono e i nostri passi smuovono la ghiaia in sincrono. Sorridiamo. Una folata d’aria inaspettata ci scuote i capelli pettinati e impomatati. Il rumore dei sassetti smossi sul viale aumenta nonostante noi ci fossimo fermati un attimo a capire che cosa stesse succedendo. Infine, il ringhio dei doberman ci gela il sangue.
«Scappate!», urlo a tutti quando colgo il pericolo. Corriamo a perdifiato verso il cancello che nel frattempo si sta richiudendo. Alle nostre spalle sentiamo l’alito dei cani: letale non solo perché hanno mangiato crocchette all’aglio ma anche perché i denti affilati ci accarezzano le chiappe. Con un salto alla Mission Impossible ci infiliamo tra le sbarre del cancello. Non capisco se siamo noi o i cani ad ansimare più intensamente. Di sicuro le risate del padrone di casa al citofono sovrastano entrambi gli ansimi.
Per oggi può bastare. Torniamo a casa mogi. Stasera per cena si continua con la dieta ipocalorica culturale. Stringiamo la cintura e andiamo avanti. Forse un giorno i proprietari di questa città capiranno che la polvere accumulata sulla televisione renderà tutti i programmi più grigi di quello che già sono, che il cibo sarà sempre più insapore e che a quel punto l’aria sarà irrespirabile.  Se non sarà troppo tardi, solo allora si renderanno conto dell’importanza degli aspirapolveri culturali.
Nel frattempo noi continueremo a operare con quello che abbiamo. Se saranno solo fine pulviscolo grigio, palle di pelo o capelli attorcigliati vorrà dire che costruiremo castelli di polvere.

venerdì 4 ottobre 2024

ITALIENAREN – Effetto Svezia

Abbandonare il nido. Cambiare città. Trasferirsi all’estero. Fare nuove esperienze. Far nascere e crescere una nuova famiglia. Imparare nuove lingue e nuove culture.
Tutte queste sfide nel corso degli anni mi hanno decisamente trasformato. Sono lentamente diventato un’altra persona. Ora i peli della barba sono bianchi, la flessibilità muscolare della schiena è pari a quella dei grissini Roberto, ho stabilito nuovi record mondiali di apnea in spiaggia per mascherare i rotolini di grasso addominali e infine l’altro ieri Matusalemme mi ha superato correndo più velocemente di me. Questo ovviamente non è colpa della Svezia, ma del timer della bomba a orologeria che si è attivato dopo aver compiuto i quarant’anni.
La Svezia, però, è responsabile di altri cambiamenti legati più ai miei comportamenti quotidiani. Che siano modifiche in positivo o in negativo non sta a me dirlo e non è dato saperlo neanche con un accurato test per il Covid o con un quiz della personalità su Donna Moderna.
La metamorfosi è iniziata a livello delle abitudini. Se entro in casa, che sia un appartamento, una stuga in campagna, una casa sull’albero o la cuccia del cane, le scarpe si rimuovono automaticamente senza che io sia consapevole del gesto. Se esco fuori di casa mi spalmo appena posso contro le pareti dei palazzi esposti al sole, anche se questo mi costringe a scalare la grondaia come Spider-Man fino al terzo piano. Se piove non me ne accorgo più, metto un cappello in testa sotto il sole e sotto la tempesta, come Sampei. Non penso più che -5 gradi sia da considerare freddo, nonostante non riesca a parlare perché mi battono i denti. Indipendentemente dalla temperatura esterna, appena sboccia la primavera ne approfitto per mettere il giaccone in sgabuzzino e indosso pantaloncini e maglietta a maniche corte. Quando parlo con gli altri, mento spudoratamente sulla mia tolleranza al freddo perché la mia home page sul computer è il sito delle previsioni del tempo e lo schermo del cellulare in corrispondenza della app col meteo è consumato.
Siamo quello che mangiamo, si suole dire. Infatti la diversa alimentazione ha modificato il mio corpo e la mia mente. Quando sono assieme ad altre persone non prendo mai l’ultima fetta di torta rimasta e al massimo la divido a metà. Ovviamente se non mi vede nessuno, eccome se l’arraffo l’ultima fetta. A dire il vero mi sono arruolato all’esercito svedese contro la lotta allo zucchero e mangio in generale molti meno dolci. Salvo disertare quando rubo i godis – le caramelle svedesi – ai miei figli. Faccio un’altra eccezione quando aspetto con ansia il giovedì, giorno dedicato ai pannkakor… a patto di mettersi la coscienza a posto mangiando prima la zuppa di piselli. L’effetto di tutta questa austerità alimentare si nota nell’assenza di smorfie e boccacce ogni volta che bevo l’amarissimo bryggkaffe – il caffè lungo svedese – rigorosamente senza zucchero. Col tempo ho anche abbandonato alcuni aspetti culinari delle mie origini italiane e ho accettato di usare la pancetta invece del guanciale, di bere il cappuccino dopo il coprifuoco di mezzogiorno e di spezzare gli spaghetti prima di farli bollire assieme alla mia cittadinanza italiana. Non ho però ancora riconosciuto il ketchup sulla pasta come piatto ammissibile per il palato e per gli occhi. Ne va della mia dignità: va bene essere criminali, ma non psicopatici.
Il mio modo di comunicare e di rapportarmi agli altri esseri umani ha anche subito variazioni. Saluto sempre dicendo “Hej” quando entro in un negozio o un bar, indipendentemente che mi trovi in Svezia, Udine o in un altro paese estero, destando spesso disagio negli altri e in me stesso. Aspiro l’aria come se avessi una cannuccia invisibile per annuire durante una conversazione. Ogni tanto i vicini di casa mi stanno antipatici quanto gli antibiotici e aspetto che abbiano lasciato il corridoio prima di uscire di casa per non rischiare di incontrarli. Nei casi più estremi prendo le scale – addirittura in salita se proprio necessario – piuttosto che fare il viaggio in ascensore assieme a loro oppure fantastico su come sia bello vivere isolati nella campagna svedese a più di 100 chilometri dall’abitazione più vicina. Non rido più sotto i baffi quando sento o leggo la parola “fika”. Incredibile.
Infine firmo ogni e-mail o sms mettendo inspiegabilmente la barra obliqua prima del mio nome. Così:
/Roberto Riva
 
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mercoledì 25 settembre 2024

ITALIENAREN – Lavatrici

I parenti in visita se ne sono appena andati. È stato bello rivederli. Lasciano sempre un vuoto difficilmente colmabile nel nostro cuore. Quello che invece non lasciano per niente vuoto è il cesto dei vestiti sporchi. Dopo solo tre giorni siamo sommersi da lenzuola e asciugamani che abbiamo prestato a nonni, zie e nipoti. Ogni volta che entro in bagno mi sembra di tuffarmi nel mare di capi e tessuti sparpagliati tra le immancabili borse blu IKEA e il pavimento. Mi sento annegare. Basta. Devo fare qualcosa.
Per fortuna c’è la tvättstuga, la lavanderia condominiale. Per un ragazzo di campagna come me, che veniva dalla provincia della provincia italiana, scoprire più di quindici anni fa l’esistenza delle lavatrici a disposizione di tutti i condomini è stato qualcosa di sconvolgente e stupefacente. La tvättstuga può trovarsi nelle cantine o al piano terra di un palazzo oppure in una stanza annessa nelle vicinanze. Se va male però può trovarsi in una casetta separata e per arrivarci occorre farsi una cinquantina di metri a piedi con le ciabatte e la vestaglia esposti alle intemperie svedesi quali vento, pioggia, neve o vicini di casa che non salutano.
Come si può intuire, i pericoli sono sempre dietro l’angolo. In alcuni casi, se le lavatrici sono poche e gli appartamenti tanti, può essere difficile prenotare la lavanderia. Succede così che appena noto nel calendario della tvättstuga un giorno infrasettimanale libero dopo le cinque di sera mi lancio giù in picchiata come un’aquila reale verso la rarissima preda nel deserto. Oppure può anche capitare di trasformarsi in avvoltoi e cominciare a svolazzare sopra la prenotazione in attesa che il leone si sia dimenticato di consumarla. In base alle regole condominiali, infatti, dopo circa dieci o quindici minuti, si può “rubare” il posto agli altri e accaparrarsi le tanto agognate lavatrici gratuite.
La tvättstuga è molto influente e può portare addirittura a cancellare appuntamenti, cene e feste perché del domani non v’è certezza e il prossimo slot disponibile per lavare i panni potrebbe slittare al mese successivo. È definitivamente più facile posticipare l’uscita con gli amici.
Come in una moneta non contraffatta, da un lato la lavanderia svedese offre le lavatrici (quasi) sempre funzionanti e dall’altro le asciugatrici. La scelta varia tra quelle classiche elettriche col rotore e la stanza calda con il filo stendipanni, una specie di sauna o viaggio ai caraibi per i vestiti bagnati. Là dentro si sta così bene che durante le serate buie e fredde invernali non vorrei mai uscirne. Una volta terminata l’asciugamento si può passare alla stesura ed è qui che la Svezia sorprende ancora una volta e non lascia nessuno solo. Con il lakansträckare, uno strumento meccanico formato da due rulli attaccati alla parete che bloccano il bucato, se ho perso a pari e dispari con mia moglie e sono stato condannato a fare il bucato da solo posso tranquillamente piegare le lenzuola senza dover chiedere l’aiuto di nessuno. Stile svedese allo stato puro.
Sebbene evento raro, non è da escludere il furto. Per questo motivo, ammaliato da quel cerchio metallico che gira e rigira come un anello del potere alla Tolkien col bucato in mezzo, ogni tanto mi è capitato di perdere la testa dimenticando i pasti per proteggere il mio “tessssoro”. Ci sono ovviamente metodi più ortodossi per serrare la porta della tvättstuga. Uno è sicuramente la vecchia e classica chiave a lucchetto. Non è una semplice chiave ma un blocchetto metallico corredato di targhetta con il numero del proprio appartamento. Serve sia a prenotare la lavanderia sia a chiudere la porta. Ovviamente col tempo sono stati soppiantati dalla tecnologia e ora nella maggior parte dei casi c’è un sistema elettrico molto rigido e rigoroso che non permette di accedere alla tvättstuga né un minuto prima né uno dopo il tempo assegnato. Per questo motivo gli inquilini più sbadati potrebbero arrivare in ritardo all’orario prenotato e incontrare i vicini abbaianti come doberman inferociti del turno successivo oppure ritrovarsi il bucato fradicio ammonticchiato per terra senza alcuna pietà. Quindi niente distrazioni e occhio all’orologio quando si tratta di tvättstuga. Io oggi per esempio ho tempo fino alle 22.00 per scrivere questo pezzo prima di scendere giù in lavanderia altrimenti la porta elettronica si bloccherà e dovrò tornarci mezzo assonnato domani mattina per supplicare il vicino che ha prenotato il primo turno alle 7 e recuperare la roba umida e stropicciata. Aspetta un attimo, che ore sono adesso? Le 22.01… Noooooo!
 
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venerdì 13 settembre 2024

ITALIENAREN – Parassiti

I bambini ritornano come sempre dalla scuola come una banda chiassosa completa di grancassa, tromboni e clarinetti. Per una volta tanto però, a fare più rumore non sono loro, ma la banda di delinquenti che si portano dietro. Più sopra che dietro, a dire il vero. In testa, per la precisione. Sono i temutissimi pidocchi. Nonostante quei piccolissimi stronzetti fossero stati preannunciati dalla lettera informativa della scuola le nostre precauzioni non sono state sufficienti. Non è bastato inondare il cuoio capelluto dei bambini prima di andare a scuola con abbondanti spruzzate di Linicin Prevent, che da quanto descritto dal bugiardino dovrebbe dare ai pidocchi lo stesso disgusto che dà la puzza d’aglio dei pendolari sul treno alle mie narici. Neanche i nostri discorsetti catechizzanti mirati a incoraggiare i miei figli a stare ad almeno dieci metri di distanza dagli altri bambini, specialmente quelli che si grattano la testa e che assomigliano a Telespalla Bob o Caparezza, sono serviti.
Ora serve intervenire in fretta. Bisogna passare alle misure forti.
Chiamo subito i vigili del fuoco, l’impresa di disinfestazione Anticimex, l’esercito svedese e la malavita organizzata stoccolmese, per la par condicio. Infine giusto per non sapere a quale santo votarsi mando un’enciclica anche al Papa in Vaticano. Qualcosa dovevo fare. Qualcosa deve succedere. Non posso vivere con dei parassiti in casa. E, per chiarezza, non mi riferisco ai miei figli.
In pochi minuti non solo il mio appartamento, ma anche tutto il palazzo è ricoperto da teloni a strisce alternate verdi e gialle come quelle dei film americani o – vista la mia reazione esagerata e alquanto ridicola – simili a quelle di un circo, non delle pulci ma ci andiamo vicino.
Mi faccio coraggio e m’infilo la tuta gialla di plastica isolante, i guanti protettivi, gli stivaloni di gomma e il casco ermetico con visiera. Walter White di Breaking Bad scansati che non sei niente in confronto.
Sulla mano destra tengo la fiamma ossidrica e sulla sinistra uno scudo medioevale raffigurante un imponente drago alato rosso fuoco. I miei figli tremano per la paura ma con un cenno di assenso del capo mi fanno capire che sono pronti a compiere il sacrificio per il bene della famiglia. Ora tutto è pronto per la fumigazione dei due pargoli.
Faccio un passo in avanti e proprio in quel momento mia moglie mi dà un buffetto in testa e mi scuoto da quello stato confusionale. Stavo solo sognando a occhi aperti. Queste barbarie non sono necessarie. Il problema però rimane e va risolto comunque al più presto.
Ci sono metodi migliori e meno brutali per liberarsi dei pidocchi. Punto primo, è fondamentale l’utilizzo di un pettine speciale a denti stretti. Come i fanoni delle balene che filtrano tutto e fanno passare solo il minuscolo plancton questa spazzola specifica blocca uova vuote – riconoscibili dal color bianco – e animaletti indesiderati morti – riconoscibili dall’espressione arrogante di sfida nei confronti dell’ospite. Non c’è dunque il rischio di finire come Pidocchio… hm, pardon, come Pinocchio e Geppetto nella pancia del grosso cetaceo. Punto secondo, bisogna applicare Linicin shampoo o lozione per uccidere i pidocchi vivi. Con forza bruta come se si dovesse arare un campo dopo l’estate afosa? No, basta lascialo riposare sui capelli per 15 lunghissimi minuti prima di sciacquare via tutto. La difficoltà sta nel trovare una canzone abbastanza lunga da cantare sotto la doccia. Punto terzo, per eliminare anche le uova che devono ancora schiudersi – riconoscibili per il colore più scuro – bisogna tornare al punto primo e ripassare il pettine mattina e sera. Una faticaccia. E io che pensavo che per eliminare le uova bastasse metterle in acqua e buttare via quelle che galleggiano.
Dopo un’oretta, mi siedo sul divano e rilasso i muscoli delle spalle, ma il bugiardino del Linicin mi richiama all’ordine. Niente soste: Il trattamento va ripetuto dopo dieci giorni seguendo l’alternanza punto uno, punto due, un-due, un-due, un-due, come una vera marcia dell’esercito.
Alla fine io e mia moglie siamo sudati in acqua, ma abbiamo finalmente completato la procedura. È stata durissima e ci meriteremmo un po’ di riposo, ma sento la maglietta tirare da sotto. È l’altro figlio che mi ricorda che ora è il suo turno e che poi toccherà anche a noi genitori: un bel grattacapo.
 
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mercoledì 4 settembre 2024

ITALIENAREN – Cambio d’aria

Pedalo sulla pista ciclabile come faccio ogni mattina per andare al lavoro. Alterno lo sguardo tra l’orizzonte fatto di bivi davanti a me e la strada sotto le ruote. Mi fermo al semaforo rosso e mi scappa un sospiro più forte del dovuto. Il ciclista alla mia sinistra mi lancia uno sguardo e sorride. Siamo solo a inizio settembre ma i marciapiedi hanno già le prime foglie sparpagliate per terra. Sono gialle, arancioni e rosse. Sugli alberi ce ne sono ancora di verdi però.
Un seme di acero atterra come un elicottero sulla manica del maglione all’altezza dell’avanbraccio. Lo spingo via con un gesto sovrappensiero e un brivido mi percorre la pelle dalla mano alla schiena. Mi sistemo il colletto e scuoto le spalle. Le temperature si sono abbassate nelle ultime settimane. Il vento che sprezza impavido da nord ne è la testimonianza. L’orlo dei pantaloni sulle caviglie ondeggia a intervalli regolari. Non è più tempo ormai per i vestiti estivi che lasciano scoperte le braccia e le gambe. Il labbro inferiore si sovrappone a quello superiore con un gesto automatico e trasforma la bocca in un broncio fanciullesco.
Mi stringo nelle spalle. Mi sa che anche stasera non potremo cenare in balcone, penso. Non è solo per il buio che ormai avanza a passi spediti verso il ritorno all’ora solare quando tutto sarà avvolto nelle tenebre dalle tre di pomeriggio fino a marzo inoltrato. Alzo gli occhi al cielo. È grigio. Tra poco pioverà, di una pioggia fine e irregolare, che va e viene, che non ti bagna ma che non ti lascia certo asciutto. Anche se non ci fossero le nuvole, il cielo non sarebbe dello stesso azzurro di un mese fa. Sembra strano a dirsi ma è così. Inarco il sopracciglio sinistro e abbasso quello destro, gli occhi non sono più allineati, storco il naso e sulle labbra ho ancora il broncio di prima. Sembro un quadro cubista di Picasso.
C’è qualcosa che si respira nell’aria oggi, ma non so ben descrivere. È un odore di nostalgia con un retrogusto d’angoscia per quello che mi aspetta nei prossimi mesi. Lo stomaco si contorce ma non per la fame perché ho da poco ingurgitato un maritozzo con la panna per colazione. Lo sguardo si perde nel vuoto alla ricerca di speranze. Nella testa parte Wonderwall degli Oasis e mi riporta così, senza senso, all’adolescenza. Sorrido, solo con un lato della bocca. Non era il periodo più sereno della mia vita ma mi ha fatto piacere ripassarci per un attimo, a rivedere vecchi amici e compagni di classe. I muscoli delle spalle si rilassano, le narici si gonfiano e sospiro di nuovo.
Delle imprecazioni giungono alle mie spalle. Non è certo il ritornello della canzone. Sono tutti i ciclisti dietro di me che stanno aspettando la mia ripartenza. È arrivato il semaforo verde e con lui anche l’autunno.
 
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mercoledì 28 agosto 2024

ITALIENAREN - Disegni

Nella stanza della raccolta differenziata condominiale svuoto tre buste nel cassonetto della carta. Tre buste colme fino all’orlo. Lascio cadere il contenuto dall’alto e tutti i colori e le forme strane che escono dalle buste sembrano un allegro arcobaleno. Dovrei essere felice di questa visione (giuro che non mi sono fatto di LSD). Dovrei essere soddisfatto nel compiere il mio dovere di cittadino provetto con la raccolta differenziata. Io però mi sento un po’ da schifo. Perché? Perché quelli che sto buttando via sono dei disegni. Sono i disegni dei miei figli. Sono quelli fatti a scuola, a casa, sul treno, in aereo, sulla barca – a loro piace disegnare ovunque – al ristorante. Fatti con le matite colorate, i pennarelli, i pastelli, gli acquarelli o anche solo con un semplice lapis. Alcuni sono tentativi per imparare a scrivere parole o numeri, altri sono scarabocchi o appunti per idee fantasiose realizzate solo nel mondo dei sogni dei bambini, altri ancora sono diventati aeroplanini o un origami inferno e paradiso. Le buste sono talmente piene che sto ancora aspettando che l’ultimo foglio esca così da poter concludere la mia diabolica opera di distruzione di sogni e arte infantile.
Questo fa di me un genitore di merda? Un po’ sì, ma a parziale discolpa ho conservato i disegni più belli, quelli più artistici, quelli più importanti dal punto di visto emotivo e soprattutto quelli dove mi sono rappresentato alto, muscoloso e con la descrizione a piè pagina “Il papà è il migliore”. Quest’ultima categoria era giusto meno dell’1% di tutti i fogli a dire il vero. Li ho sistemati con cura in uno scatolone a casa, assieme a quelli degli anni scolastici passati, per poterli rivedere un giorno da vecchio e ripensare a quanto fosse bello e faticoso fare il genitore di bambini piccoli.
Ho dovuto buttare via tutto perché ormai non si poteva più stare in casa. I cassetti esplodevano e strabordavano. Il tavolinetto e il comodino nella camera dei bambini erano ricoperti da fogli colorati. I disegni si infiltravano anche tra i miei documenti e i miei libri. Ogni armadio che aprivo ci trovavo pennarelli e disegni, tanto da sembrare la mitica scena del pane in Fantozzi.
Approfittando dell’inizio del nuovo anno scolastico, era arrivato il momento di fare piazza pulita. Bisognava fare spazio. È vero che sarebbe stato meglio sforzarsi di sprecare meno carta dal principio ma non si può frenare la vena artistica infantile e non concedere a mamma e papà dieci minuti di silenzio e pace in casa. Mi metto almeno l’animo in pace riciclando quel che posso: se non sarò un buon genitore almeno sarò un buon cittadino.
Liberarsi della roba vecchia lascia una bella sensazione. Ci si sente più leggeri. Sembra di essersi tolti un peso dallo stomaco. Si ha l’impressione di aver fatto ordine tra le idee, nella testa e in casa. Questa volta però non è stato facile. Ogni foglio, ogni compito, ogni aeroplanino è un pezzo di storia che se ne va. Gli anni passano e con loro i ricordi si fanno sempre più sbiaditi. Non c’è però tempo per i rimpianti. Bisogna guardare avanti e andare oltre agli attaccamenti emotivi.
Ormai le buste di carta sono vuote. I disegni sono sparpagliati alla rinfusa sul fondo del cassonetto, assieme ai giornali rionali e alle pubblicità di appartamenti e prodotti per la casa. Li bagno con una lacrimuccia e, finito il mio compito ingrato, mi giro ed esco dalla stanza dei rifiuti comunque con un sorriso abbozzato all’idea di un appartamento più ordinato. Mentre salgo le scale per tornare a casa mi assale però un dubbio: e se avessi buttato via un patrimonio? E se i miei figli da grandi dovessero diventare dei nuovi Picasso, Van Gogh o Banksy e io ho appena sperperato la mia ricca pensione del futuro?
Torno di fretta indietro. Corro sul marciapiede sudando copiosamente e spintonando passanti come se fosse una scena al rallentatore in un film drammatico giapponese in bianco e nero. Dal fondo della strada giunge il suono delle sirene del camion della nettezza urbana. Vedo le luci ad intermittenza. Aumento la velocità e arrivo ansimante alla stanza del riciclaggio.
È troppo tardi: i cassonetti sono stati svuotati. Il camion se ne va, portando via con sé il mio oro di carta.

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venerdì 23 agosto 2024

ITALIENAREN – Sotto attacco

Hitchcock la sapeva lunga.
Su molti argomenti, ovviamente, ma su uno in particolare: la pericolosità degli uccelli. Non mi riferisco solamente ai rischi di parcheggiare sotto un albero e ritrovarsi la macchina messa peggio di una cloaca di Calcutta e neppure alla sveglia forzata alle cinque del mattino provocata dal cantico delle creature accovacciate sul balcone di casa. Penso soprattutto a quello che mi è successo un paio di giorni fa.
Era una bella giornata di sole e io, carico di borse piene di plastica e cartacce, stavo camminando verso la stanza dei rifiuti condominiali. È sempre bello liberarsi dei rifiuti e fare il proprio lavoro di bravo cittadino eseguendo con cura la raccolta differenziata. Con un sorriso stampato in faccia fischiettavo serenamente. Giro a destra per scendere la rampa che mi porta alla stanza dei rifiuti e il forte garrito di un gabbiano sovrasta il fischiettio delle mie labbra. All’inizio non ci ho fatto caso: è estate, Stoccolma è una città di mare, normale sentire gabbiani comunicare tra di loro. Così continuo a scendere la rampa. Il secondo garrito però è più forte del primo e subito dopo sento una folata di vento che mi sfiora la testa. Una brutta sensazione che mi prende alla sprovvista. Mi sento sotto tiro. L’istinto mi porta ad abbassarmi e proteggermi la testa. Mossa rivelatasi azzeccata in quanto il gabbiano che sentivo prima è appena sorvolato in picchiata a pochi centimetri da me. Faccio un balzo all’indietro. Le buste della plastica volano in aria e cadono a terra. Dopo qualche secondo di pausa ecco un nuovo attacco aereo. Il gabbiano insiste e garrisce con sguardo minaccioso e becco aperto verso di me. Poi parte in picchiata di nuovo. Devo scappare via, ma lo faccio un po’ accucciato risultando un po’ goffo e impacciato.
Se a me era sembrata una scena simile a quella del film “Gli uccelli” di Hitchcock quando i bambini di una scuola vengono inseguiti e attaccati dai corvi, per il mio vicino invece che ha osservato la gag con sadica attenzione dal balcone di casa – quindi a debita distanza, mortacci sua!  è sembrata più una simpatica disavventura da mandare alla versione svedese di Paperissima. Il suo sghignazzare sovrasta il volume del verso del gabbiano infuriato che mi sta ancora inseguendo.
Ma perché tanto astio nei miei confronti? E non era neanche la prima volta che mi succedeva. La memoria va a qualche anno fa quando venni attaccato senza motivo mentre attraversavo la strada. Mi chiedo se mi fossi dimenticato di passare sulle strisce pedonali e quei gabbiani fossero degli ausiliari del traffico ma credo sia improbabile. Mi ricordo anche quando a Pola, in Croazia, i gabbiani mi sgraffignarono un panino dalle mani. Eppure ero sicuro di averlo pagato quel sandwich e che gli uccellacci non fossero i gestori del bar.
Rivangare il passato mi lascia un po’ di amarezza ma poi finalmente mi scrollo di dosso questo patetico velo di vittimismo e capisco. Il gabbiano non ce l’ha con me. Lei è solo una mamma che protegge il proprio piccolo caduto accidentalmente dal nido e che ora è in difficoltà, esposto ai rischi di finire vittima dei predatori urbani come volpi, tassi o esseri umani con le loro automobili. Succede spesso che i gabbiani nidifichino nel giardino del condominio. Lo fanno ogni estate. E ogni anno sbraitano e attaccano i passanti per proteggere i loro cuccioli che cadono dal nido. Sono recidivi. Dev’essere genetico cadere dal nido nel tentativo di volare.
Vedere il piccolo in difficoltà mi lascia un senso di tenerezza ma il dovere mi chiama: devo recuperare le borse e buttare via i rifiuti. Non facile con la mamma agguerrita ancora in agguato. Faccio allora il giro del palazzo e sbuco fuori dal portone del garage, vicino alle mie borse e alla stanza dei rifiuti. Il vicino sul balcone se la ride ancora più di prima mentre spia la mia circumnavigazione del condominio solo per paura di un gabbiano premuroso. Alla fine porto a termine la mia missione e ripercorro al contrario la strada vincente. Che fatica però!
Va bene, forse non è stata così drammatica come l’ho descritta. Ho esagerato. Posso assicurare però che quello che ho incontrato oggi non era certo il docile e filosofico gabbiano Jonathan Livingston di Bach e nemmeno la gabbianella Fortunata che si credeva un gatto del famoso romanzo di Sepulveda e film d’animazione italiano. Allora perché avere paura di una palletta di piume leggera, non più grande di un pallone da calcio, che principalmente vola o si appollaia sui rami e i pali alti degli alberi, che si nutre di incarti di rifiuti urbani… o di topi di città grossi quasi quanto lei… che ha strappato con morsi poderosi del suo becco coriaceo… e che ha fagocitato tutto in un sol boccone. A vederla bene, il mio assalitore assomigliava più a uno pterodattilo o un velociraptor in miniatura. D’altronde, si sa, gli uccelli e i dinosauri sono lontani parenti.
Meglio dunque diffidare e stare alla larga da questi moderni eredi delle lucertole terrificanti. Hitchcock ci aveva avvertiti.
 
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martedì 13 agosto 2024

ITALIENAREN – Olimpiadi alternative

Così come le olimpiadi ufficiali a Parigi, anche le mie vacanze in Italia si sono concluse da poco. Per me sono state delle olimpiadi alternative comprendenti discipline che colgono di sorpresa gli espatriati che non sono più abituati alle usanze italiane. Vado a elencarne alcune delle più praticate.
 
Accollamento figli. Appiopparli ai nonni per chi è alle prime armi, agli zii o agli amici per i più esperti. L’importante è trovare ogni occasione buona per distanziarsi dai bambini e andare in giro a fare i fatti propri. Sport sano e salutare, ma che, se praticato all’eccesso e con troppa frequenza, porta l’atleta a non essere più in grado di riconoscere i propri pargoli al momento del recupero.
 
Prosciutto e melone. A pranzo, a cena a colazione. Con melone arancione o bianco. Con prosciutto di San Daniele o di Parma. Ogni combinazione è consentita, a patto che si esalti l’accostamento dolce e salato mentre contemporaneamente si schifi, con la costituzione nella mano destra e il crocifisso nella sinistra, la simile associazione pizza e ananas. In caso di appetito persistente, si consiglia di concludere il pasto con un po’ di anguria.
 
Sollevamento casse dell’acqua. Con sei bottiglie sulla spalla destra e sei su quella sinistra, in equilibrio precario, portando le infradito al limite della rottura per stress, si può provvedere al fabbisogno idrico giornaliero con più di 40°C all’ombra. Aggiungere bonus difficoltà se nel trasporto sono comprese due o più rampe di scale senza ascensore. Il tutto al grido di “L’acqua del rubinetto è peggio di quella della Senna!”
 
Gara di abbuffate. La specialità è semplice: basta ingurgitare grigliate su tre piani di carne o di pesce – e perché no anche mari e monti assieme! —, piattoni di molluschi, di crostacei, di fritti, di cotti e di crudi, spaghettate abbondanti dai sughi variopinti e grassi, terrine giganti di insalate di mare e di verdure per sciacquare lo stomaco e la coscienza. A fine gara verranno assegnati i primi e i secondi… piatti. Non senza aver lasciato nello stomaco un piccolo spazio per il gelato… e per l’immancabile anguria.
 
Giro di pagamenti. Se l’abbuffata è avvenuta al ristornate parte lo sprint per pagare il conto di tutti i commensali. Come bel gesto di fratellanza, per fare bella figura, per ostentare opulenza apparente oppure solo perché il regolamento non scritto del torneo prevede che si paghi a giro. Gli altri gareggianti fingono di scattare verso il conto consapevoli che è il turno di qualcun altro in quanto loro hanno già sborsato la volta precedente, anche se questa è avvenuta a distanza di parecchi mesi. È una disciplina che non richiede dunque abilità fisiche ma buona memoria.
 
Pirobazia. Qui invece le capacità di scatto, di salto e di osservazione la fanno da padrone in questo sport che prende il nome dall’antica Grecia. Ai giorni nostri è meglio conosciuto come corsa sulla sabbia che scotta nelle spiagge di tutta la penisola. Viene eseguita a zig-zag passando da qualsiasi forma d’ombra proiettata sul terreno a banchi di sabbia bagnata fino a giungere alla battigia. Durante l’inverno gli specialisti si allenano sui carboni ardenti e praticano meditazione dopo previa consultazione con fachiri esperti.
 
Lotta alla crono. Inizia subito il primo giorno e rapidamente si evolve in una escalation di capricci e litigi principalmente dovuti allo stravolgimento delle routine dei bambini che erano state meticolosamente stabilite durante l’inverno. Pranzi e cene con orari d’apertura di ristoranti andalusi, nanna come se fossimo a Ibiza e nervosismo loco. Si dorme poco e male e tornare agli orari adatti alla scuola è una lotta contro il tempo cercando di rimodellare i cicli circadiani verso un più consono e salubre 7.00-20.00.

100 metri stile automobile. Non richiede nessuna abilità fisica o allenamento specifico, se non quello conseguito alla scuola guida dopo i diciotto anni. Consiste nell’usare la macchina per ogni evenienza, anche se si dovesse andare qualche quartiere più in là o se ci fossero da percorre solamente cento metri di distanza e l’automobile fosse parcheggiata a mezzo chilometro di distanza. Disciplina che si è sviluppata ed è più praticata nei comuni italici di provincia più che in quelli di città.
 
Ora vediamo il podio finale: non c’è, in perfetto stile de Coubertin. L’importante non è se vince lo stile italiano o quello da espatriato, l’importante è partecipare alle vacanze con le persone che preferiamo, facendo quello che ci piace… e magari mangiando un po’ di anguria.

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giovedì 8 agosto 2024

RACCONTI – libri

«Non comprerò libri. Non comprerò libri. Non comprerò libri.
Questo è stato il mio mantra durante le vacanze estive ogni volta che passavo davanti a una libreria o un’edicola. Mi ero ripromesso di non comprare nessun libro nuovo. Non è per niente una questione economica – perché se il popolo non ha più pane, che mangi carta come i pesciolini d’argento – e neanche una questione di spazio in valigia – perché c’è sempre spazio per un tomo in più nello zainetto da cabina che Ryanair, grazie al Cielo, ha dimenticato di limitarne il peso – anche se resta un’impresa da contorsionista. Ho fatto questa promessa a me stesso per una questione di etica e di lealtà. Lo so che può sembrare esagerato ma lo dovevo alla mia libreria, a tutti quei libri ancora non letti che aspettano, ai quali, prima di partire avevo promesso che li avrei letti al prossimo giro, dopo aver concluso quell’interminabile tomo da settecentoventicinque pagine di Marcel Proust che ho sul comodino da “solo” un anno e mezzo. Non sto scherzando: prima di partire per le ferie ho fatto un discorsetto, volume per volume, a tutti i libri allineati in libreria e ho dato l’ordine di partenza. Sottovoce e senza essere visto dal mio psichiatra, ho parlato con Pennac, con McGrath e McEwan e infine con Backman e ho giurato solennemente: “Voi sarete i prossimi”. Palahniuk mi ha riso in faccia perché sa che metto in scena lo stesso teatrino ogni anno e Benni ha smascherato la mia bugia sul lunghissimo tomo di Proust perché è passato dal quel comodino e ha notato solo un normalissimo libriccino in svedese appoggiato. Ho dovuto mentire ai miei libri per convincerli a resistere ancora un po’, solo pochi mesi, prima di poter essere letti. Infine, giurin giurello con Baricco che controllava che non avessi le dita incrociate dietro la schiena, ho ribadito che non porterò a casa nessun nuovo romanzo e che non stravolgerò la classifica appena firmata col sangue.
Sono bastati un paio di giorni e un paio di tentazioni demoniache sotto forma di profumo inebriante di carta stampata fresca a solleticarmi le narici e a farmi cedere. Ho tradito le mie promesse e la fiducia dei volumi colorati nello scaffale. Ricordo di non aver provato né vergogna né rammarico. Qualche giorno dopo, però, è arrivata la recidiva. Nella mensola di casa, tra polvere e acari, ho ritrovato un libro perso nei meandri della memoria e del tempo. Un romanzo che si è tenuto in vita grazie alla promessa di lettura che gli feci diciotto anni fa quando lo comprai con gli occhi pieni di speranza e tanta ingenuità. Non ho avuto scelta. Dovevo portarlo con me e salvarlo dall’oscurità della mia cameretta d’infanzia. Infine, è giunta anche la perseverazione diabolica quando, a mia insaputa, mi è stata regalata una raccolta di racconti. Io non l’avrei mai presa. Non perché non mi piacesse l’autore, ma perché, in un moto d’orgoglio finale per non cadere in tentazione, avevo evitato di avvicinarmi alle salviette dei bar, ai volantini delle sagre, ai ticket del parcheggio e a qualsiasi altra forma di carta stampata. Nonostante tutto, non sarebbe stato corretto rifiutare e anche il dono in questione è finito nello zaino.»
«Hm… signor Riva, niente di tutto ciò rientra nelle categorie delle merci da dichiarare alla polizia doganale. L’avevo solo avvertita che un libro gli era caduto dalla giacca quando se l’è tolta per superare i controlli.»
«Oh! Mi scusi. Non volevo abusare del suo tempo.»
Raccolgo in fretta le mie borse con la testa bassa e le gote rosse. Passato oltre, però, ridacchio sotto i baffi e da sotto la maglietta estraggo un romanzo di fantascienza di Asimov acquistato all’edicola dell’aeroporto. Questo non me l’hanno beccato. Lo guardo dritto nell’occhiello e sussurro suadente: «Tu sarai il prossimo.»

venerdì 5 luglio 2024

RACCONTI – Il vaso

Sono piegato sulle ginocchia nel salotto di casa mia. Raccolgo in silenzio, pezzo per pezzo, il vaso di ceramica che si è sfracellato per terra. Di nuovo. Il vaso è appena caduto dal piedistallo che si trova in mezzo alla sala. Mi fanno male le gambe per le tante, troppe volte che mi sono dovuto accovacciare. Mi fanno male le mani per le piccole ferite. Mi succhio un dito per asciugare il sangue. Fa male, ma non ci faccio più caso ormai.
«Non sono stato io!» esclamo al mio pubblico invisibile, mentre sudo freddo dalla fronte e sento che il cuore si è fermato per un istante. Un millisecondo forse. Quel che basta per sentire un nodo in gola e un peso sullo stomaco.
«Non sono stato io!» Ripeto. Più allo specchio che a un interlocutore reale.
Mento di nuovo dunque. Non del tutto, però. Ho ideato e creato io il vaso. L’ho messo io sul piedistallo. Non sono stato io però a farlo cadere. Certo, sono sempre io ad averlo appoggiato in bilico, sul bordo. Inoltre, è colpa mia se non mi sono accorto che il vaso non era ancora pronto per stare là su in alto. Non era il momento di lasciarlo là. Probabilmente non lo sarà mai.
A volte penso che non avrei mai dovuto crearlo. Penso che non sono così bravo a plasmare vasi di ceramica. Provo a farli di diverse forme e dimensioni. Ci metto tempo e dedizione, ma non mi riescono come vorrei. Quando sono soddisfatto sbaglio a metterlo troppo presto sul piedistallo. E il vaso cade. Va in frantumi. Il suono dei cocci rotti che si spezzano rimbomba ancora nella mia testa. La sensazione è che non sia solo qualcosa fuori che si rompe.
Ci metto un po’ a riprendermi, ma spesso mi chino di nuovo, raccolgo i pezzi che trovo e li incollo insieme. Molte volte l’effetto è imbarazzante nonostante a me sembra di aver fatto un lavoro decente. Malgrado la mia cecità, mi ostino a posizionare il vaso di nuovo sul piedistallo, come se fosse un trofeo, di cui vantarsi con gli amici.
Molte volte il vaso si tiene insieme per miracolo, sta in piedi in equilibrio instabile ed è così delicato che basta un lieve soffio di vento per farlo cadere. Quando me ne accorgo, cerco di prenderlo al volo ma nonostante con gli anni abbia affinato le mie capacità di previsione e di velocità, il vaso mi sfugge dalle mani, scivola via e inesorabilmente cade.
Se ho fortuna i cocci sono grossi e non faccio troppa fatica a trovarli sul pavimento. Anche se mi perdo dei pezzetti per strada non è poi così grave. Il vaso sta su lo stesso. Con un po’ di buona volontà riesco a dare al vaso una nuova forma, ma la fretta è cattiva consigliera e il risultato finale ne risente.
Il suo destino è segnato. Andrà sul piedistallo e cadrà di nuovo. Ormai lo so.
Credo si arrivato il momento di metterlo in cantina e di crearne uno nuovo.

mercoledì 26 giugno 2024

ITALIENAREN - Le tre porte

Oggi è il giorno fatidico. Sapevo che sarebbe arrivato. Avrei tanto voluto evitarlo ma non è stato proprio possibile.
Scendo dal mio cavallo, lo accarezzo e gli sussurro parole dolci di ringraziamento. Poi gli do una pacca sul dorso e lo lascio andare. Mi ha dato tanto ed è ora di lasciarlo libero. Questa parte del tragitto la devo fare da solo. Lui non può seguirmi in questa nuova sfida.
Mi sistemo l’armatura, inspiro profondamente e faccio il primo passo in avanti. Subito vengo bloccato dal primo ostacolo. È un portone enorme che sbarra la mia strada. Alzo gli occhi al cielo e a fatica ne vedo la fine. Ansimo e il cuore mi batte forte. Non serve a niente spostarmi a destra e a sinistra perché non c’è modo di aggirarlo. Il portone di bronzo mi toglie il fiato mi oscura la vista. Intarsiati come bassirilievi noto delle scritte e dei disegni sulla superficie. Il più grande che capeggia in alto recita in lettere runiche “Arbetsförmedlingen”. All’inizio non ne colgo il significato ma dopo aver fatto un passo indietro e averlo osservato da un'altra prospettiva capisco quello che devo fare. L’unico modo per superarlo è risolvere gli enigmi proposti dal portone. Interpreto i segni e schiacciando dei bottoni indico la mia età, le mie esperienze nelle precedenti battaglie, il mio livello di conoscenza e di competenze come guerriero della mente. Lo chiamano riassunto dei propri Combattimenti Virtuosi, abbreviato in CV. Ricontrollo tutto con attenzione e tiro una leva. L’ingranaggio si mette in moto e il portone di bronzo comincia a muoversi. Si sta aprendo e s’intravede uno spiraglio, una fessura di luce. Il sorriso però dura poco sulle mie labbra perché il suono cupo del portone che si blocca mi lascia smarrito. Cosa avrò scordato? Ho dimenticato di controllare tutte le parti delle incisioni, anche quelle più piccole che sembravano solo degli sfregi eseguiti malamente dai miei predecessori frustrati con dei coltellini da quattro soldi. Le scritte mi chiedono di mettermi subito all’opera e di indicare il mio livello di conoscenza e di competenze, le mie esperienze nelle precedenti battaglie e la mia età… esattamente gli stessi Combattimenti Virtuosi (CV) di prima ma in un altro ordine. Oh mio Odino! Alzo gli occhi al cielo e sbuffo. Provo a spingere il portone ma non si muove di un centimetro, così, con le dita delle mani, cerco i tasti giusti e alla fine, grazie al Valhalla, il portone si apre del tutto.
Non posso però ancora andare avanti perché la rete di ragnatele mi avvolge e mi rende difficile il passaggio. Per liberarmene devo anche incidere su tavolette di creta i miei piani futuri riguardanti le prossime battaglie. Una pergamena che mi viene consegnata dal sommo emissario reale Minasidor fornisce esempi di elementi da conservare per provare che io abbia veramente partecipato a quelle lotte, tipo gli elmetti degli avversari, il mio scudo scalfito dai colpi oppure tracce di sangue delle vittime sulla mia spada.
Appena concluso il giuramento sui miei propositi davanti al trono reale m’imbatto in un nuovo ostacolo. Un nuovo portone, altrettanto grande e possente come il primo, ma fatto d’argento. Questa volta non perdo tempo e provo subito a interpretare i disegni e le indicazioni incise. Per oltrepassare questo portone dovrò procurarmi una spada speciale. La maestosa spada di acciaio inossidabile dal nome altisonante, Arbetsgivareintyget. Una spada forgiata nel vulcano del mio ultimo anno di guerriglia. Una spada con le tacche dettagliate di ogni ora, giorno e mese di duro sforzo sul campo di combattimento. Una volta procurata la grande portatrice di gloria dovrò infilarla nella fessura del cancello d’argento e spingere con tutte le mie forze. Solo allora la grande scritta dell’Akassa s’infuocherà illuminando a giorno la notte e aprirà le porte alla mia sopravvivenza. Gli arcieri che vigilano l’ingresso di Akassa però mi terranno sempre sotto tiro e non mi permetteranno di sgarrare. Vorranno sapere tutto quello che faccio, settimana per settimana, senza sosta e senza errori. Pena il taglio delle risorse e probabilmente di specifiche parti del corpo.
Potrei proseguire il mio viaggio ma lì vicino, questa volta un po’ defilato, c’è un terzo portone. Più piccolo ma più prezioso, fatto d’oro e con incisioni ancora più complicate da interpretare. Non tutti sanno della sua esistenza e pochi sfruttano le conoscenze dei druidi che vivono oltre il passaggio del portentoso Fackförbundet. Una volta avuto accesso alle stanze segrete, uno stregone Folksam potrà offrirmi l’elisir Inkomstförsäkringen, che potrà darmi fino all’ottanta per cento delle mie energie vitali in caso di ferite durante la mia permanenza nell’Arbetslöshet.
Non è stato facile oltrepassare questi tre maledetti portoni. Il primo mi è costato un po’ del mio orgoglio, gli ultimi due mi sono costati energie mentali per risolvere i loro enigmi e anche sangue, sudore e tributi in monete d’oro al re durante i miei anni di battaglie. Ne è però valsa la pena. Ora sono finalmente libero di cercare nuove armature in questi sterminati campi di grano ed erba alta, dove migliaia di combattenti come me hanno lottato, cercato la gloria, perso e poi ritrovato la loro dignità. Sono finalmente arrivato al grande Välfärd norreno.
 
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venerdì 14 giugno 2024

ITALIENAREN - L’infinito

Sto passeggiando sul Västerbron, uno dei ponti più belli di Stoccolma, dal quale si può ammirare la città vecchia, il palazzo comunale e il quartiere Södermalm da un lato e il verde dei boschi del lago Mälaren dall’altro lato.
«Che cos’è l’infinito?»
È mio figlio di sei anni che mi fa distogliere lo sguardo dal panorama tirandomi per la maglietta. Domanda non facile ma la sua vocina è così dolce e curiosa per non provare a dare una risposta. Ci fermiamo un attimo nel punto più alto del ponte e lo invito a rivolgere lo sguardo a est.
Seguiamo un refolo di vento e in un attimo raggiungiamo le mille isolette dell’arcipelago di Stoccolma. Ci soffermiamo ad annusare l’odore della pece dei tanti pini silvestri e del legno umido di una sauna al bordo di un pontile. Ci crogioliamo al sole delle migliaia di prati verdi o degli scogli bagnati dall’acqua.
Andiamo oltre, in mare aperto dove l’orizzonte è blu per chilometri e chilometri. Ci lasciamo accarezzare dal vento che soffia aria di libertà. L’oceano si estende davanti ai nostri occhi e si fonde con l’azzurro del cielo.
Spicchiamo il volo con la testa tra le nuvole, sempre più in alto, sempre più lontano. Sfiliamo tra cirri, altocumuli, stratocumuli, nembostrati e tutti i possibili anagrammi e combinazioni di nuvole. Ci liberiamo verso la stratosfera, la mesosfera e via nell’esosfera.
Lo spazio sconfinato ci accoglie nella sua indifferenza per qualsiasi forma di vita lasciandoci a bocca aperta. Oltrepassiamo la Luna e ci proiettiamo verso gli altri pianeti del Sistema Solare, fiancheggiamo il sole e poi via lontano verso altri miliardi di stelle scintillanti e affascinanti corpi celesti. Il buio, il vuoto e il silenzio ci inglobano verso mete lontane mai raggiunte dall’occhio e dalla conoscenza umana. Siamo ormai nello spazio inesplorato dell’universo, dove solo l’astrofisica si è spinta con teorie e speculazioni scientifiche.
Solo in quel momento mi giro a osservare lo sguardo di mio figlio. È stupefatto, incredulo e pieno di meraviglia. Sorrido assieme a lui. In un battito di ciglia siamo di nuovo sul Västerbron, il ponte ad arco d’acciaio più lungo della Svezia.
«Ecco cos’è l’infinito.»
Mio figlio mi guarda dritto negli occhi. Sembra stia ancora processando tutte le informazioni e le sensazioni che ha sperimentato. Prima accenna un sorriso, poi aggrotta la fronte.
«Non ho capito, papà!»
Alzo gli occhi al cielo, ma non per contemplare di nuovo l’universo. Mi sa che devo fermarmi prima del viaggio intergalattico, prima degli strati del cielo, prima dell’acque del mare e delle terre lontane. Devo fermarmi in città, più di preciso a est del ponte, a Gamla Stan.
«Caro figliolo, l’infinito è… è… lo stato dei lavori nel cantiere di Slussen. Ecco cos’è l’infinito!»
Lui annuisce e sorride. Non ha mai visto il vecchio Slussen e si chiede se un giorno vedrà quello nuovo. Credo che ora abbia capito cosa significa infinito.
 
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mercoledì 5 giugno 2024

ITALIENAREN – Dica trettitre

Ho i brividi e probabilmente ho di nuovo la febbre. Addosso ho una stanchezza indescrivibile. Mi gira la testa. Faccio fatica a respirare. Ho il naso chiuso e soprattutto tossisco come la doppia cassa di un batterista Heavy Metal.
Nonostante tutto questo sono dovuto uscire di casa e venire qui, dal medico di base.
Passo dall’accettazione e mi metto seduto nella sala d’attesa. Mi guardo attorno e spero sempre che tutti i pazienti presenti stiano aspettando un altro medico, non il mio. Mi sbaglio. Per fortuna però che in Svezia non bisogna chiedere chi è l’ultimo in fila e non bisogna stare allerta che qualche vecchio ti freghi il posto perché la segretaria in accettazione registra l’ordine di visita sul computer e da lì non c’è scampo.
Non mi resta altro che sedermi. Non c’è molto per distrarsi, se non alcuni giochini e libri per bambini o riviste scientifiche vecchie di qualche anno. La scelta è semplice e mi lancio prima che possa farlo qualcun altro su “Pierino incontra i dinosauri”.
Non passa molto tempo durante la mia stimolante lettura che mi scappa qualche colpo di tosse simile a un rantolo di un malato terminale. Per un attimo ho la sensazione che la musichetta jazz di sottofondo si sia fermata. Mi sento lo sguardo degli altri addosso come in un saloon del Far West. Mi scannerizzano da testa a piedi e mormorano al vicino di posto una diagnosi con prognosi riservata. Mi fanno sentire un appestato e a guardar bene, il libro che tengo in mano sembra ormai “L’amore ai tempi del colera” più che un libro per bambini. Quelli al mio fianco tossiscono a loro volta, non per un mal di gola ma per mascherare il rumore della sedia che si sposta per allontanarsi da me. Mi sento una goccia di detersivo in una teglia sporca di grasso di maiale in uno spot della Finish: io a un lato della stanza e gli altri a tre metri di distanza.
Il tempo non passa più ma alla fine il medico mi dà un colpetto sulla spalla e mi sveglia. È il mio turno. Spiego i miei sintomi e racconto come mi sento. Esagero. È sempre la mossa migliore per essere ascoltati seriamente. Per accentuare ulteriormente i miei problemi uso la pantomima e le doti nascoste di teatrante. La dottoressa non batte ciglio e sfoggia il classico approccio della medicina svedese inciso sul bastone di Asclepio e mantra di ogni libro di testo universitario: “Che cosa pensi di avere?”
Ma come, dottoressa? Questo me lo deve dire lei. Lei ha una laurea in medicina (speriamo), non io. Lei ha ascoltato i miei sintomi, io li ho solo raccontanti. Lei deve fare la diagnosi, io seguire la terapia. Lei deve salvarmi la vita, io la devo vivere. Vivere male per poi dover tornare da lei per un altro malanno, in modo tale che il sistema sanitario possa funzionare.
Naturalmente non dico niente di tutto ciò e biascico qualche diagnosi di circostanza per riempire i silenzi e l’imbarazzo. Lei mi guarda con gli occhi sbarrati e dice che potrei avere ragione. A quanto pare anch’io ho una laurea in medicina. Ormai sono abituato a questo iter e non mi stupisco più di tanto. Passiamo quindi ad altri test.
Incontro l’infermiera per un prelievo. Niente di strano. Usa uno strumento che sembra una spillatrice e mi fa un buchino sul dito. Ero tranquillo ma quando mi accorgo della fontanella di sangue che sgorga dalla pelle perdo un attimo il mio aplomb da vero uomo duro, da macho italiano tutto o da vichingo adottato e mi scappa una smorfia. L’infermiera sorride: aveva già capito che quella dell’uomo tutto d’un pezzo era solo una maschera. Probabilmente mi hanno tradito i calzini di Topolino. Per fortuna il prelievo è sufficiente e posso tirare un sospiro di sollievo. I miei livelli di CRP – la proteina del fegato C-reattiva – sono alti, segno di un processo infiammatorio in corso.
Torno dal medico con un tassello del puzzle in più. Stranamente non mi chiede come penso che siano andati i risultati dell’analisi del sangue perché è già stata informata dalla collega. Manca un ultimo dato da raccogliere: la manetta per il dito, anche chiamato saturimetro. Fortunatamente i miei livelli di ossigenazione del sangue sono normali e non devo chiedere aiuto ai globuli rossi di “Esplorando il corpo umano” di darmi un paio di pallette trasparenti dalla loro schiena.
Alla fine la dottoressa ha tutto quello che le serve per… rullo di tamburi… per diagnosticarmi una polmonite. Probabilmente. Forse. Presumibilmente. Eh già, perché in Svezia spesso non fanno lastre e quindi non c’è la certezza. Io comunque sono un tipo semplice e mi accontento.
Per la terapia giunge anche la sorpresa finale: mi prescrivono degli antibiotici. Evento rarissimo nei poliambulatori quasi quanto vedere una banca abbassare i tassi d’interessi in questo periodo storico. Dovrei essere felice della cura ricevuta ma mi prende un po’ d’ansia. Visto che ottenere una ricetta per gli antibiotici in Svezia succede solo nei casi più gravi e quasi come ultima spiaggia, mi sembra tanto di aver ricevuto un biglietto da visita di un’agenzia di pompe funebri. La dottoressa mi rassicura che andrà tutto bene e che nel giro di una o due settimane dovrei stare bene. Poi mi caccia fuori. Avanti il prossimo.
Prima di chiudere la porta mi comunica con un sorriso a trentatrè denti che ha mandato un’impegnativa per una lastra toracica. Incredibile, ho trovato un poliambulatorio che fa le cose per bene. Oggi deve essere il mio giorno speciale. Deve essere un giorno fortunato. Va bene, non così fortunato: ho una polmonite. Posso però almeno cercare di cavalcare questa piccola dose di buona sorte e prima di passare in farmacia sarà meglio fare un salto dal tabaccaio e giocare al Lotto.
 
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venerdì 24 maggio 2024

ITALIENAREN – Omini della terra

Dopo il freddo invernale e le piogge di inizio Primavera, ecco che bastano pochi raggi di sole per vederli spuntare fuori dal nulla in città. A Stoccolma li trovi sempre in prossimità delle fermate della metro o nelle piazze a fare concorrenza ai medicanti. Loro però non si siedono per terra ma si adagiano sui banchetti pieghevoli. Si espongono facilmente al sole, nonostante cerchino di ripararsi con i tendoni, e forse per questo motivo sono rossi in volto. Quando li vedi nudi, assieme ad altri esemplari simili, ammassati in un piccolo cestello di plastica ti scappa un sorriso sincero perché sai che è il segno ufficiale dell’inizio dell’estate svedese. Quei piccoli omini della terra portano una ventata di freschezza alle giornate assolate e ti aiutano a svernare dalla brutta stagione appena conclusa. Gli omini della terra esposti nei banchetti all’aria aperta comunicano un segno di libertà. Non li hai ancora mangiati ma già ne pregusti il sapore grazie al profumo inebriante. Sono una vera gioia per la vista e per il palato. Lunga vita agli omini della terra!
Se non si è ancora capito, gli omini della terra sono meglio conosciuti con il nome di jordgubbar in Svezia e con il nome fragole in Italia. Io le adoro e sono uno dei miei frutti preferiti perché… no, vero, mi sbaglio. Non sono un frutto dal punto di vista botanico in quanto i veri frutti della pianta sono gli acheni, i semini gialli sparsi sulla superficie. La parte rossa non è altro che il ricettacolo ingrossato del fiore. Per questo motivo spesso vengono chiamati frutti falsi. Io però preferisco chiamarli non-frutti perché così posso mangiarli per festeggiare i miei non-compleanni, 364 giorni all’anno.
Ad essere specifici, tra le fragole io preferisco quelle svedesi. Non per un nazionalismo acquisito del mio paese d’adozione ma perché sono più grosse e, a parer mio, più gustose. Al momento, in vendita sui banchetti all’uscita della metropolitana dove si accettano rigorosamente solo pagamenti in Swish senza scontrino fiscale, si trovano solo quelle belga o di altri paesi europei, ma con un po’ di pazienza arriveranno anche quelle “nostrane”.
E chissenefrega se i prezzi si sono gonfiati a dismisura negli ultimi anni e tocca aprire un mutuo o vendere un rene per acquistarne un cestello. Bisogna investire anche una parte del fegato se si pecca di gola aggiungendo anche mirtilli, more o lamponi dallo stesso rivenditore, soprattutto se poi si brinda con abbondante vino rosé. Godersi però la faccia felice di grandi e piccini quando si torna a casa con un paio di sacchetti di leccornie della natura non ha prezzo. Alla fine quindi le alternative sono molteplici per celebrare la stagione estiva: si possono mangiare le fragole così come sono distesi su un prato in compagnia di amici, condirle con zucchero e limone in una coppetta e divorarle sul balcone di casa o preparare una celestiale torta alle fragole di Midsommar da condividere con la famiglia. A voi la scelta… ma a me la forchetta.

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