Sono disteso
supino. Inspiro ed espiro sempre più lentamente. Il calore del mio corpo viene
trattenuto dalle coperte e mi lascia in un dolce tempore. Le gambe e le braccia
sono pesanti, allungate sopra il materasso. Il battito cardiaco decelera e la
mente comincia a percorre la porta di transito tra la veglia e il sonno. Ho
girato la maniglia e ho fatto il primo passo sulla soglia. Ci sono quasi. Tra
pochi secondi sarà domani mattina.
I muscoli si rilassano e faccio un altro passo avanti, ma inciampo su qualcosa. Il cuore ricomincia a corre e la frequenza del respiro aumenta. Guardo bene cosa mia abbia fatto perdere l’equilibrio. È un cubo a forma sferica, con spuntoni che urlano parole incomprensibili, in due dimensioni. Lo guardo meglio: ora è un triangolo isoscele, con cinque angoli e due diametri, in tre dimensioni che si muove nel tempo. I muscoli del corpo s’irrigidiscono. Tutta la mia attenzione si dirige verso l’oggetto. Ora è un fiume di lettere in piena che striscia all’indietro, cadendo da una cascata di canzoni ad altissimo basso volume.
Ho capito di cosa si tratta: ho appena avuto un’idea. Lascio la porta verso il regno dei sogni alle mie spalle e torno indietro. Gli occhi si spalancano nel buio della camera. Sento il respiro di mia moglie al mio fianco. Riprendo coscienza della mia posizione nello spazio.
Non posso riprendere sonno prima di aver annotato da qualche parte quello che mi è venuto in mente, altrimenti rischio di perderlo tra le lenzuola, tra le nuvole di zucchero filato o nell’archivio impolverato del cervello. Non ho scelta, devo uscire dal letto.
Colto da un’agitazione febbricitante, do acqua al semino dell’idea e la vedo crescere in fretta in un progetto abbozzato. È un germoglio piccolo e insicuro, ma ho già molte aspettative e speranze. Metto un piede fuori e il gelo della stanza mi aggredisce. Esco con le gambe, spostando la coperta di quel poco che basta per non far svegliare mia moglie e mi infilo al volo le ciabatte. Cerco a tentoni gli occhiali e dopo un primo tentativo nel quale la stanghetta mi finisce nell’occhio, li inforco. Devo sbrigarmi altrimenti l’idea perderà d’intensità. Vedo il contorno della porta ora che le pupille si sono dilatate. Seguo il bordo del letto con una mano e con l’altra cerco l’armadio per orientarmi. Smanioso di buttare giù un appunto che plachi la mia irrequietezza, sbatto l’alluce contro la base del letto. Bestemmio in silenzio mentre mia moglie si rigira mugugnando qualcosa di incomprensibile. Faccio un paio di passi e giungo alla porta. Con cautela apro, entro in salotto e richiudo dietro di me. Posso tirare un sospiro di sollievo. Mi affretto in cucina dove mi aspettano un blocco di fogli e una penna a sfera. Scrivo senza pensare, come se fosse un’eruzione vulcanica. Annoto cubi, piramidi, fiumi in piena, lettere e parole, musica, pioggia di cristalli e colline di margherite – tutto.
Mi fanno male le dita della mano per quanto ho stretto la penna. Una goccia di sudore cola dalla fronte. Quando ho finito sono esausto ma soddisfatto. Mi chiedo se si sentano così i tossicodipendenti con una dosa dopo una crisi d’astinenza. Coccolo la nuova idea come un neonato dal sorriso dolcissimo. Nei prossimi giorni ci sarà tempo per cambiargli il pannolino. Ora si può sognare a occhi aperti, prima di godersi di nuovo un meritato sogno a occhi chiusi.
Il giorno dopo sono sotto la doccia. L’acqua è tiepida e il flusso mi massaggia la pelle. Starei qua dentro per delle ore. Mi rilasso e lascio andare il treno dei pensieri. Schivo un paio di preoccupazioni e di scadenze da rispettare e divento tutt’uno con l’acqua che scorre. Si sta così bene: è caldo e sono pulito. Nonostante io non abbia mosso la mano, all’improvviso il getto d’acqua cambia direzione e mi finisce in faccia, assieme a pezzi di puzzle, bulloni e ingranaggi vari. Era quello che mi mancava nel nuovo progetto. Raddrizzo la schiena e sgrano gli occhi. Mi giro da una parte e poi dall’altra nello spazio ristretto della cabina nel goffo tentativo di appoggiare il doccino. Devo trovare una penna. Devo scrivermelo. Non posso dimenticarmelo. Devo registrare l’appunto. Mi sembra di essere in una scena del film “Memento”. Devo afferrare una penna il prima possibile e buttare giù su foglio l’idea prima che finisca risucchiata nello scarico. In fretta e furia, chiudo l’acqua, mi asciugo alla meno peggio ed esco dal bagno gocciolante. Mi getto a pesce sul blocco degli appunti e scrivo a caldo. Ci sarà tempo per asciugare le scie che ho lasciato e per subire un cazziatone da mia moglie. Avevo bisogno della mia dose.
Nel pomeriggio, sono le quattro e tre quarti, devo uscire di casa per correre a prendere i bambini. Sono già in ritardo. Mi metto le scarpe e il giubbotto. Afferro le chiavi e sono pronto a uscire. Uno strano formicolio parte dal collo e si estende al petto. Passa alla schiena, scende sulle gambe e infine ai piedi. Devo slacciare le scarpe e toglierle. Il formicolio risale il corpo fino alle braccia. Devo togliermi anche il giubbotto. Le mani mi tremano e mollo le chiavi sul mobiletto d’ingresso. Sbatto la testa contro il muro un paio di volte finché da una fessura ne esce una lunga stringa di parole alla rinfusa che cominciano a volare via. Le inseguo per l’appartamento. Mi sfuggono due volte di fila ma alla terza raccolgo tutto e lo spingo a forza dentro il retro di una penna bic. Prima che scappino fuori di nuovo, prendo un quaderno e butto giù il più velocemente possibile tutto quello che l’inchiostro ha da offrire. Mi sembra sia passato un minuto, in realtà ne sono trascorsi venti. Trasalisco alzando gli occhi verso l’orologio. Avrei dovuto essere a scuola dai bambini cinque minuti fa. Rimpiango di non essere Spock e impreco contro l’umanità per la mancanza dell’invenzione del teletrasporto.
Il giorno dopo, al lavoro, tutto il personale è raccolto per la settimanale generalissima riunione aziendale – da leggersi con la voce di Fantozzi – la quale ha il potere magico di trasformare i marroni dei presenti i noci di cocco giganti. Lottando contro la forza di gravità delle palpebre mi guardo attorno e noto un collega perdere lo sguardo oltre la finestra verso il nulla del cielo grigio, un altro annuisce a ritmo sintonizzato su una canzone che gli passa per la testa e non sul discorso del capo e infine un’altra ancora che sbircia sul cellulare usando il foglio con l’ordine del giorno come scudo protettivo contro i raggi X del datore di lavoro. Bene, sono in buona compagnia. Sto per tornare a lottare contro Morfeo ma abbozzo un sorriso quando mi accorgo che i colleghi si stanno trasformando in animali parlanti, la stanza in una stalla e il pavimento in letame. Mi devo dare un pizzicotto sul braccio per assicurarmi di non essermi davvero addormentato e per ricordarmi che purtroppo non sono sotto l’effetto di sostanze allucinogene. Prendo la penna dal taschino e annoto tutto sul retro dell’ordine del giorno. Ho l’accortezza di fingere di ascoltare quello che dicono gli altri e di non scrivere durante le pause della discussione. Scrivo di getto tutto e il brusio della riunione sparisce nel sottofondo, sovrastato dal baccano della mia idea.
Il resto del giorno si adegua e invece di rispettare la scadenza di un compito importante ma noioso, il progetto alternativo nato durante la riunione prende il sopravvento, facendomi perdere tempo e il lavoro, se dovessero beccarmi.
A fine giornata torno a casa in bici. È già buio e la pioggerellina rende l’aria umida e nebulosa. La visibilità farebbe invidia alla Pianura Padana in novembre. Meglio attivare tutti i sensi. Non sono Spiderman ma per girare sulle strade della città senza pista ciclabile e senza rischiare la morte dovrei diventarlo. Frenando di colpo evito un ciclista che mi taglia la strada. Un’automobile corre troppo vicina al marciapiede e mi schizza l’acqua addosso passando sopra una pozzanghera marrone. Sovrappensiero sto per sbagliare strada e all’ultimo secondo svolto a sinistra. Un fascio di luce mi inonda e mi acceca. Spalanco gli occhi invece di socchiuderli. Non è un autobus o un tir che mi sta investendomi mandandomi al creatore, ma un'altra illuminazione creativa. Mancano ancora un paio di chilometri a casa e la devo trattenere fino a quando mi potrò fermare a scrivere. Potrei farlo qui e ora ma la pioggia cade più fitta e maciullerebbe la carta. Il cellulare è scarico e voglio andare a casa. Tiro la coperta corta della mia attenzione una volta verso l’idea per tenerla in vita e una volta verso la strada per tenermi in vita. Con questa alternanza spingo anche sul pedale destro e sul sinistro. Vado avanti così finché giungo a casa sano e salvo. Mi guardo alle spalle per controllare di non aver perso guanti, berretto o dettagli del concetto che ho sviluppato in testa e mi precipito a casa. Prima ancora di salutare moglie e bambini, sto già appuntando tutto prendendomi il tempo necessario e arrivando tardi per cena. Sono così concentrato che non sento gli schiamazzi dei bimbi e gli insulti della mia compagna.
Dopo il pasto sopraggiunge un nuovo stimolo. Questa volta è fisico e devo scappare in bagno. Mi siedo sulla tazza. Per una volta tanto ho lasciato il cellulare in salotto di proposito e così rifletto sulla giornata e sulla vita. I pensieri svolazzano liberi tra le mattonelle bianche davanti a me. Alcune si organizzano, altre si oscurano in blocchi neri e tutte insieme formano un cruciverba gigantesco e difficile come quello di Bartezzaghi sulla settimana enigmistica. Le associazioni si allineano e si compongono come i calcoli matematici dei geniacci nei film americani. Mettendo assieme parole e concetti, spingendo da una parte e dall’altra, viene fuori qualcosa di grosso. I maligni credono di sapere da dove sia uscito ma si sbagliano. È qualcosa che aspettavo da tutto il giorno ma che non aveva ancora trovato lo sfogo. Sono soddisfatto del risultato ma non ho penna con me e l’unica carta a disposizione è quella igienica. È poca ma mi accontento e la uso tutta. Ancora una volta sono riuscito a mantenere viva un’idea prima che scappasse via. A come pulirmi le natiche dalla cacca ci penserò più tardi.
I muscoli si rilassano e faccio un altro passo avanti, ma inciampo su qualcosa. Il cuore ricomincia a corre e la frequenza del respiro aumenta. Guardo bene cosa mia abbia fatto perdere l’equilibrio. È un cubo a forma sferica, con spuntoni che urlano parole incomprensibili, in due dimensioni. Lo guardo meglio: ora è un triangolo isoscele, con cinque angoli e due diametri, in tre dimensioni che si muove nel tempo. I muscoli del corpo s’irrigidiscono. Tutta la mia attenzione si dirige verso l’oggetto. Ora è un fiume di lettere in piena che striscia all’indietro, cadendo da una cascata di canzoni ad altissimo basso volume.
Ho capito di cosa si tratta: ho appena avuto un’idea. Lascio la porta verso il regno dei sogni alle mie spalle e torno indietro. Gli occhi si spalancano nel buio della camera. Sento il respiro di mia moglie al mio fianco. Riprendo coscienza della mia posizione nello spazio.
Non posso riprendere sonno prima di aver annotato da qualche parte quello che mi è venuto in mente, altrimenti rischio di perderlo tra le lenzuola, tra le nuvole di zucchero filato o nell’archivio impolverato del cervello. Non ho scelta, devo uscire dal letto.
Colto da un’agitazione febbricitante, do acqua al semino dell’idea e la vedo crescere in fretta in un progetto abbozzato. È un germoglio piccolo e insicuro, ma ho già molte aspettative e speranze. Metto un piede fuori e il gelo della stanza mi aggredisce. Esco con le gambe, spostando la coperta di quel poco che basta per non far svegliare mia moglie e mi infilo al volo le ciabatte. Cerco a tentoni gli occhiali e dopo un primo tentativo nel quale la stanghetta mi finisce nell’occhio, li inforco. Devo sbrigarmi altrimenti l’idea perderà d’intensità. Vedo il contorno della porta ora che le pupille si sono dilatate. Seguo il bordo del letto con una mano e con l’altra cerco l’armadio per orientarmi. Smanioso di buttare giù un appunto che plachi la mia irrequietezza, sbatto l’alluce contro la base del letto. Bestemmio in silenzio mentre mia moglie si rigira mugugnando qualcosa di incomprensibile. Faccio un paio di passi e giungo alla porta. Con cautela apro, entro in salotto e richiudo dietro di me. Posso tirare un sospiro di sollievo. Mi affretto in cucina dove mi aspettano un blocco di fogli e una penna a sfera. Scrivo senza pensare, come se fosse un’eruzione vulcanica. Annoto cubi, piramidi, fiumi in piena, lettere e parole, musica, pioggia di cristalli e colline di margherite – tutto.
Mi fanno male le dita della mano per quanto ho stretto la penna. Una goccia di sudore cola dalla fronte. Quando ho finito sono esausto ma soddisfatto. Mi chiedo se si sentano così i tossicodipendenti con una dosa dopo una crisi d’astinenza. Coccolo la nuova idea come un neonato dal sorriso dolcissimo. Nei prossimi giorni ci sarà tempo per cambiargli il pannolino. Ora si può sognare a occhi aperti, prima di godersi di nuovo un meritato sogno a occhi chiusi.
Il giorno dopo sono sotto la doccia. L’acqua è tiepida e il flusso mi massaggia la pelle. Starei qua dentro per delle ore. Mi rilasso e lascio andare il treno dei pensieri. Schivo un paio di preoccupazioni e di scadenze da rispettare e divento tutt’uno con l’acqua che scorre. Si sta così bene: è caldo e sono pulito. Nonostante io non abbia mosso la mano, all’improvviso il getto d’acqua cambia direzione e mi finisce in faccia, assieme a pezzi di puzzle, bulloni e ingranaggi vari. Era quello che mi mancava nel nuovo progetto. Raddrizzo la schiena e sgrano gli occhi. Mi giro da una parte e poi dall’altra nello spazio ristretto della cabina nel goffo tentativo di appoggiare il doccino. Devo trovare una penna. Devo scrivermelo. Non posso dimenticarmelo. Devo registrare l’appunto. Mi sembra di essere in una scena del film “Memento”. Devo afferrare una penna il prima possibile e buttare giù su foglio l’idea prima che finisca risucchiata nello scarico. In fretta e furia, chiudo l’acqua, mi asciugo alla meno peggio ed esco dal bagno gocciolante. Mi getto a pesce sul blocco degli appunti e scrivo a caldo. Ci sarà tempo per asciugare le scie che ho lasciato e per subire un cazziatone da mia moglie. Avevo bisogno della mia dose.
Nel pomeriggio, sono le quattro e tre quarti, devo uscire di casa per correre a prendere i bambini. Sono già in ritardo. Mi metto le scarpe e il giubbotto. Afferro le chiavi e sono pronto a uscire. Uno strano formicolio parte dal collo e si estende al petto. Passa alla schiena, scende sulle gambe e infine ai piedi. Devo slacciare le scarpe e toglierle. Il formicolio risale il corpo fino alle braccia. Devo togliermi anche il giubbotto. Le mani mi tremano e mollo le chiavi sul mobiletto d’ingresso. Sbatto la testa contro il muro un paio di volte finché da una fessura ne esce una lunga stringa di parole alla rinfusa che cominciano a volare via. Le inseguo per l’appartamento. Mi sfuggono due volte di fila ma alla terza raccolgo tutto e lo spingo a forza dentro il retro di una penna bic. Prima che scappino fuori di nuovo, prendo un quaderno e butto giù il più velocemente possibile tutto quello che l’inchiostro ha da offrire. Mi sembra sia passato un minuto, in realtà ne sono trascorsi venti. Trasalisco alzando gli occhi verso l’orologio. Avrei dovuto essere a scuola dai bambini cinque minuti fa. Rimpiango di non essere Spock e impreco contro l’umanità per la mancanza dell’invenzione del teletrasporto.
Il giorno dopo, al lavoro, tutto il personale è raccolto per la settimanale generalissima riunione aziendale – da leggersi con la voce di Fantozzi – la quale ha il potere magico di trasformare i marroni dei presenti i noci di cocco giganti. Lottando contro la forza di gravità delle palpebre mi guardo attorno e noto un collega perdere lo sguardo oltre la finestra verso il nulla del cielo grigio, un altro annuisce a ritmo sintonizzato su una canzone che gli passa per la testa e non sul discorso del capo e infine un’altra ancora che sbircia sul cellulare usando il foglio con l’ordine del giorno come scudo protettivo contro i raggi X del datore di lavoro. Bene, sono in buona compagnia. Sto per tornare a lottare contro Morfeo ma abbozzo un sorriso quando mi accorgo che i colleghi si stanno trasformando in animali parlanti, la stanza in una stalla e il pavimento in letame. Mi devo dare un pizzicotto sul braccio per assicurarmi di non essermi davvero addormentato e per ricordarmi che purtroppo non sono sotto l’effetto di sostanze allucinogene. Prendo la penna dal taschino e annoto tutto sul retro dell’ordine del giorno. Ho l’accortezza di fingere di ascoltare quello che dicono gli altri e di non scrivere durante le pause della discussione. Scrivo di getto tutto e il brusio della riunione sparisce nel sottofondo, sovrastato dal baccano della mia idea.
Il resto del giorno si adegua e invece di rispettare la scadenza di un compito importante ma noioso, il progetto alternativo nato durante la riunione prende il sopravvento, facendomi perdere tempo e il lavoro, se dovessero beccarmi.
A fine giornata torno a casa in bici. È già buio e la pioggerellina rende l’aria umida e nebulosa. La visibilità farebbe invidia alla Pianura Padana in novembre. Meglio attivare tutti i sensi. Non sono Spiderman ma per girare sulle strade della città senza pista ciclabile e senza rischiare la morte dovrei diventarlo. Frenando di colpo evito un ciclista che mi taglia la strada. Un’automobile corre troppo vicina al marciapiede e mi schizza l’acqua addosso passando sopra una pozzanghera marrone. Sovrappensiero sto per sbagliare strada e all’ultimo secondo svolto a sinistra. Un fascio di luce mi inonda e mi acceca. Spalanco gli occhi invece di socchiuderli. Non è un autobus o un tir che mi sta investendomi mandandomi al creatore, ma un'altra illuminazione creativa. Mancano ancora un paio di chilometri a casa e la devo trattenere fino a quando mi potrò fermare a scrivere. Potrei farlo qui e ora ma la pioggia cade più fitta e maciullerebbe la carta. Il cellulare è scarico e voglio andare a casa. Tiro la coperta corta della mia attenzione una volta verso l’idea per tenerla in vita e una volta verso la strada per tenermi in vita. Con questa alternanza spingo anche sul pedale destro e sul sinistro. Vado avanti così finché giungo a casa sano e salvo. Mi guardo alle spalle per controllare di non aver perso guanti, berretto o dettagli del concetto che ho sviluppato in testa e mi precipito a casa. Prima ancora di salutare moglie e bambini, sto già appuntando tutto prendendomi il tempo necessario e arrivando tardi per cena. Sono così concentrato che non sento gli schiamazzi dei bimbi e gli insulti della mia compagna.
Dopo il pasto sopraggiunge un nuovo stimolo. Questa volta è fisico e devo scappare in bagno. Mi siedo sulla tazza. Per una volta tanto ho lasciato il cellulare in salotto di proposito e così rifletto sulla giornata e sulla vita. I pensieri svolazzano liberi tra le mattonelle bianche davanti a me. Alcune si organizzano, altre si oscurano in blocchi neri e tutte insieme formano un cruciverba gigantesco e difficile come quello di Bartezzaghi sulla settimana enigmistica. Le associazioni si allineano e si compongono come i calcoli matematici dei geniacci nei film americani. Mettendo assieme parole e concetti, spingendo da una parte e dall’altra, viene fuori qualcosa di grosso. I maligni credono di sapere da dove sia uscito ma si sbagliano. È qualcosa che aspettavo da tutto il giorno ma che non aveva ancora trovato lo sfogo. Sono soddisfatto del risultato ma non ho penna con me e l’unica carta a disposizione è quella igienica. È poca ma mi accontento e la uso tutta. Ancora una volta sono riuscito a mantenere viva un’idea prima che scappasse via. A come pulirmi le natiche dalla cacca ci penserò più tardi.
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