mercoledì 20 novembre 2024

ITALIENAREN – Movember

Sul palmo della mano sinistra riposa una montagnola bianca e soffice. Nella presa salda della mano destra tengo uno strumento affilato. Mi guardo allo specchio e mi spalmo con foga la schiuma sulla superficie della faccia dalle basette e dalle narici in giù. È un’operazione che non eseguo molto spesso e mi sento un po’ impacciato. Tagliare la barba non è il mio forte. Mi concedo questo momento solo per situazioni eccezionali come un matrimonio (solo per il mio) e per entrare in un personaggio teatrale durante gli spettacoli. Passati gli eventi, abbandono subito la pratica per pigrizia e ritorno allo stato brado. Ho da poco però scoperto un’altra iniziativa molto importante che ha richiamato la mia attenzione: Movember[1], un neologismo sincratico – anche detto parola macedonia – che unisce le parole Moustache e November. È un evento annuale a scopo benefico che si svolge nel mese di novembre nel quale gli uomini che vi aderiscono (chiamati Mo bro) si fanno crescere i baffi per sensibilizzare l’opinione pubblica sul carcinoma della prostata.
Un’occasione lodevole da cogliere al volo ora che, con la schiuma spalmata, sembro Babbo Natale o un pagliaccio preso a torta di panna in faccia. Partendo da una barba alla Leonardo di Caprio in The Revenant la scelta è ampia e mi permette diversi tipi di baffi. Comincio a togliere le basette e i peli ispidi dalle guance fino a lasciare un pizzetto alla Edward Norton. Accosto la lama del rasoio al lato delle labbra ma poi mi fermo. Tentenno. Ci sono molti stili di baffo. Difficile scegliere. Cerco su internet per trovare ispirazione e vado.
Taglio la barba sotto e sopra il mento e lascio due linguette, una sotto il lato destro e una sotto il lato sinistro della bocca. Ecco un baffo a ferro di cavallo alla Hulk Hogan, James Hetfield dei Metallica o di un biker con l’Harley Davidson. Fletto i muscoli e sfodero indice, mignolo e pollice a forma di corna. Mi sento molto cool, ma questo vestito peloso non mi si addice. Sad But True.
Rado ancora e mi trasformo in un tricheco con un bel paio di baffi folti che escono da entrambi i lati della faccia e coprono tutta la bocca. Mi do un’aria da letterato alla Mark Twain o da filosofo alla Nietzsche. No, cercare di essere un Superuomo e un Nichilista è un peso troppo grande.
Accorcio un po’ ed eccomi scaraventato alla fine del IXX, inizio XX secolo, nell’Impero austro-ungarico. Davanti a me non vedo più la mia faccia, ma quella di Francesco Ferdinando. Hm, meglio evitare di finire come lui e scaturire l’inizio della Terza Guerra Mondiale.
Aggiusto un po’, arriccio all’infuori e all’insù con un’abilità che stupisce anche me stesso. Ormai ci ho preso mano e ho appeno rifinito dei baffi a manubrio. Vittorio Emanuele II, Buffalo Bill e lo stereotipo dell’uomo messicano sarebbero orgogliosi di me. Mi rendo conto però che non raggiungerò mai Salvador Dalì quindi meglio andare oltre.
Aggiungo un po’ di schiuma e passo con la lama di qua e di là: stupendi, mitici, eccezionali. Mi viene voglia di cantare e trasformo il rasoio in un microfono. Con questi mustacchi a V rovesciata che coprono di poco il labbro superiore mi sono proprio liberato e ora sono un campione. Sono Freddie Mercury. Nah, meglio abbassare i toni. Questi baffi chevron non mi fanno assomigliare tanto né a lui né tantomeno a Tom Selleck in Magnum P.I. Peccato. Sbuffo e proseguo la mia ricerca: Lo spettacolo deve continuare.
Riduco ancora di più verso le narici e, voilà, ecco un baffo a spazzolino come Charlie Chaplin e Ollio. Sorrido, ma poi mi passa. Nessuno penserà a loro due ma a un altro personaggio di moda in Germania negli anni ’40 del secolo scorso e purtroppo di nuovo in voga ora, negli anni ‘20 di questo secolo.
Non mi resta che lasciare un filetto di peli attaccato al labbro, ben curato e molto elegante dallo stampo classico. Non riuscirò a essere a Zorro, Gomez Addams o Clarke Gable, non solo perché mi manca lo smoking giusto o il mantello, ma soprattutto perché ormai ho tolto la parte di baffo verso l’estremità delle labbra per completare lo stile a fiammifero. Che tristezza.
Tutte queste associazioni di nomi, personaggi affascinanti e mostri sacri della storia mi hanno dato alla testa. Così, mi scappa la mano e tolgo ancora un altro pezzo di baffo. Nel processo mi procuro un taglietto che tampono subito con pezzi di carta igienica. La frittata è fatta. Ora devo togliere tutto e rimanere sbarbato. Ci riproverò il prossimo anno ad aderire a Movember. Nel frattempo faccio una donazione dal sito: offerta baffuta, sempre piaciuta.
 
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Ecco il link all’articolo su Italienaren - Il lavoratore:
https://italienaren.org/movember/
[1] https://se.movember.com/

mercoledì 13 novembre 2024

RACCONTI – Il tempismo delle idee

Sono disteso supino. Inspiro ed espiro sempre più lentamente. Il calore del mio corpo viene trattenuto dalle coperte e mi lascia in un dolce tempore. Le gambe e le braccia sono pesanti, allungate sopra il materasso. Il battito cardiaco decelera e la mente comincia a percorre la porta di transito tra la veglia e il sonno. Ho girato la maniglia e ho fatto il primo passo sulla soglia. Ci sono quasi. Tra pochi secondi sarà domani mattina.
I muscoli si rilassano e faccio un altro passo avanti, ma inciampo su qualcosa. Il cuore ricomincia a corre e la frequenza del respiro aumenta. Guardo bene cosa mia abbia fatto perdere l’equilibrio. È un cubo a forma sferica, con spuntoni che urlano parole incomprensibili, in due dimensioni. Lo guardo meglio: ora è un triangolo isoscele, con cinque angoli e due diametri, in tre dimensioni che si muove nel tempo. I muscoli del corpo s’irrigidiscono. Tutta la mia attenzione si dirige verso l’oggetto. Ora è un fiume di lettere in piena che striscia all’indietro, cadendo da una cascata di canzoni ad altissimo basso volume.
Ho capito di cosa si tratta: ho appena avuto un’idea. Lascio la porta verso il regno dei sogni alle mie spalle e torno indietro. Gli occhi si spalancano nel buio della camera. Sento il respiro di mia moglie al mio fianco. Riprendo coscienza della mia posizione nello spazio.
Non posso riprendere sonno prima di aver annotato da qualche parte quello che mi è venuto in mente, altrimenti rischio di perderlo tra le lenzuola, tra le nuvole di zucchero filato o nell’archivio impolverato del cervello. Non ho scelta, devo uscire dal letto.
Colto da un’agitazione febbricitante, do acqua al semino dell’idea e la vedo crescere in fretta in un progetto abbozzato. È un germoglio piccolo e insicuro, ma ho già molte aspettative e speranze. Metto un piede fuori e il gelo della stanza mi aggredisce. Esco con le gambe, spostando la coperta di quel poco che basta per non far svegliare mia moglie e mi infilo al volo le ciabatte. Cerco a tentoni gli occhiali e dopo un primo tentativo nel quale la stanghetta mi finisce nell’occhio, li inforco. Devo sbrigarmi altrimenti l’idea perderà d’intensità. Vedo il contorno della porta ora che le pupille si sono dilatate. Seguo il bordo del letto con una mano e con l’altra cerco l’armadio per orientarmi. Smanioso di buttare giù un appunto che plachi la mia irrequietezza, sbatto l’alluce contro la base del letto. Bestemmio in silenzio mentre mia moglie si rigira mugugnando qualcosa di incomprensibile. Faccio un paio di passi e giungo alla porta. Con cautela apro, entro in salotto e richiudo dietro di me. Posso tirare un sospiro di sollievo. Mi affretto in cucina dove mi aspettano un blocco di fogli e una penna a sfera. Scrivo senza pensare, come se fosse un’eruzione vulcanica. Annoto cubi, piramidi, fiumi in piena, lettere e parole, musica, pioggia di cristalli e colline di margherite – tutto.
Mi fanno male le dita della mano per quanto ho stretto la penna. Una goccia di sudore cola dalla fronte. Quando ho finito sono esausto ma soddisfatto. Mi chiedo se si sentano così i tossicodipendenti con una dosa dopo una crisi d’astinenza. Coccolo la nuova idea come un neonato dal sorriso dolcissimo. Nei prossimi giorni ci sarà tempo per cambiargli il pannolino. Ora si può sognare a occhi aperti, prima di godersi di nuovo un meritato sogno a occhi chiusi.
Il giorno dopo sono sotto la doccia. L’acqua è tiepida e il flusso mi massaggia la pelle. Starei qua dentro per delle ore. Mi rilasso e lascio andare il treno dei pensieri. Schivo un paio di preoccupazioni e di scadenze da rispettare e divento tutt’uno con l’acqua che scorre. Si sta così bene: è caldo e sono pulito. Nonostante io non abbia mosso la mano, all’improvviso il getto d’acqua cambia direzione e mi finisce in faccia, assieme a pezzi di puzzle, bulloni e ingranaggi vari. Era quello che mi mancava nel nuovo progetto. Raddrizzo la schiena e sgrano gli occhi. Mi giro da una parte e poi dall’altra nello spazio ristretto della cabina nel goffo tentativo di appoggiare il doccino. Devo trovare una penna. Devo scrivermelo. Non posso dimenticarmelo. Devo registrare l’appunto. Mi sembra di essere in una scena del film “Memento”. Devo afferrare una penna il prima possibile e buttare giù su foglio l’idea prima che finisca risucchiata nello scarico. In fretta e furia, chiudo l’acqua, mi asciugo alla meno peggio ed esco dal bagno gocciolante. Mi getto a pesce sul blocco degli appunti e scrivo a caldo. Ci sarà tempo per asciugare le scie che ho lasciato e per subire un cazziatone da mia moglie. Avevo bisogno della mia dose.
Nel pomeriggio, sono le quattro e tre quarti, devo uscire di casa per correre a prendere i bambini. Sono già in ritardo. Mi metto le scarpe e il giubbotto. Afferro le chiavi e sono pronto a uscire. Uno strano formicolio parte dal collo e si estende al petto. Passa alla schiena, scende sulle gambe e infine ai piedi. Devo slacciare le scarpe e toglierle. Il formicolio risale il corpo fino alle braccia. Devo togliermi anche il giubbotto. Le mani mi tremano e mollo le chiavi sul mobiletto d’ingresso. Sbatto la testa contro il muro un paio di volte finché da una fessura ne esce una lunga stringa di parole alla rinfusa che cominciano a volare via. Le inseguo per l’appartamento. Mi sfuggono due volte di fila ma alla terza raccolgo tutto e lo spingo a forza dentro il retro di una penna bic. Prima che scappino fuori di nuovo, prendo un quaderno e butto giù il più velocemente possibile tutto quello che l’inchiostro ha da offrire. Mi sembra sia passato un minuto, in realtà ne sono trascorsi venti. Trasalisco alzando gli occhi verso l’orologio. Avrei dovuto essere a scuola dai bambini cinque minuti fa. Rimpiango di non essere Spock e impreco contro l’umanità per la mancanza dell’invenzione del teletrasporto.
Il giorno dopo, al lavoro, tutto il personale è raccolto per la settimanale generalissima riunione aziendale – da leggersi con la voce di Fantozzi – la quale ha il potere magico di trasformare i marroni dei presenti i noci di cocco giganti. Lottando contro la forza di gravità delle palpebre mi guardo attorno e noto un collega perdere lo sguardo oltre la finestra verso il nulla del cielo grigio, un altro annuisce a ritmo sintonizzato su una canzone che gli passa per la testa e non sul discorso del capo e infine un’altra ancora che sbircia sul cellulare usando il foglio con l’ordine del giorno come scudo protettivo contro i raggi X del datore di lavoro. Bene, sono in buona compagnia. Sto per tornare a lottare contro Morfeo ma abbozzo un sorriso quando mi accorgo che i colleghi si stanno trasformando in animali parlanti, la stanza in una stalla e il pavimento in letame. Mi devo dare un pizzicotto sul braccio per assicurarmi di non essermi davvero addormentato e per ricordarmi che purtroppo non sono sotto l’effetto di sostanze allucinogene. Prendo la penna dal taschino e annoto tutto sul retro dell’ordine del giorno. Ho l’accortezza di fingere di ascoltare quello che dicono gli altri e di non scrivere durante le pause della discussione. Scrivo di getto tutto e il brusio della riunione sparisce nel sottofondo, sovrastato dal baccano della mia idea.
Il resto del giorno si adegua e invece di rispettare la scadenza di un compito importante ma noioso, il progetto alternativo nato durante la riunione prende il sopravvento, facendomi perdere tempo e il lavoro, se dovessero beccarmi.
A fine giornata torno a casa in bici. È già buio e la pioggerellina rende l’aria umida e nebulosa. La visibilità farebbe invidia alla Pianura Padana in novembre. Meglio attivare tutti i sensi. Non sono Spiderman ma per girare sulle strade della città senza pista ciclabile e senza rischiare la morte dovrei diventarlo. Frenando di colpo evito un ciclista che mi taglia la strada. Un’automobile corre troppo vicina al marciapiede e mi schizza l’acqua addosso passando sopra una pozzanghera marrone. Sovrappensiero sto per sbagliare strada e all’ultimo secondo svolto a sinistra. Un fascio di luce mi inonda e mi acceca. Spalanco gli occhi invece di socchiuderli. Non è un autobus o un tir che mi sta investendomi mandandomi al creatore, ma un'altra illuminazione creativa. Mancano ancora un paio di chilometri a casa e la devo trattenere fino a quando mi potrò fermare a scrivere. Potrei farlo qui e ora ma la pioggia cade più fitta e maciullerebbe la carta. Il cellulare è scarico e voglio andare a casa. Tiro la coperta corta della mia attenzione una volta verso l’idea per tenerla in vita e una volta verso la strada per tenermi in vita. Con questa alternanza spingo anche sul pedale destro e sul sinistro. Vado avanti così finché giungo a casa sano e salvo. Mi guardo alle spalle per controllare di non aver perso guanti, berretto o dettagli del concetto che ho sviluppato in testa e mi precipito a casa. Prima ancora di salutare moglie e bambini, sto già appuntando tutto prendendomi il tempo necessario e arrivando tardi per cena. Sono così concentrato che non sento gli schiamazzi dei bimbi e gli insulti della mia compagna.
Dopo il pasto sopraggiunge un nuovo stimolo. Questa volta è fisico e devo scappare in bagno. Mi siedo sulla tazza. Per una volta tanto ho lasciato il cellulare in salotto di proposito e così rifletto sulla giornata e sulla vita. I pensieri svolazzano liberi tra le mattonelle bianche davanti a me. Alcune si organizzano, altre si oscurano in blocchi neri e tutte insieme formano un cruciverba gigantesco e difficile come quello di Bartezzaghi sulla settimana enigmistica. Le associazioni si allineano e si compongono come i calcoli matematici dei geniacci nei film americani. Mettendo assieme parole e concetti, spingendo da una parte e dall’altra, viene fuori qualcosa di grosso. I maligni credono di sapere da dove sia uscito ma si sbagliano. È qualcosa che aspettavo da tutto il giorno ma che non aveva ancora trovato lo sfogo. Sono soddisfatto del risultato ma non ho penna con me e l’unica carta a disposizione è quella igienica. È poca ma mi accontento e la uso tutta. Ancora una volta sono riuscito a mantenere viva un’idea prima che scappasse via. A come pulirmi le natiche dalla cacca ci penserò più tardi.

giovedì 7 novembre 2024

ITALIENAREN – Bruno

Oggi ho visto un orso!
Si muoveva lento e silenzioso verso la sua meta: del dolcissimo miele d’acacia. Non potevo credere ai miei occhi perché non è facile vederlo in giro in questo periodo e quest’ora del giorno. Si spostava con circospezione adagiando tutto il suo peso prima sugli arti destri e poi su quelli sinistri, seguendo la tipica camminata ciondolante come se fosse una danza ubriaca. Maestoso e un po’ goffo allo stesso tempo. La sua pelliccia folta e arruffata, che lo proteggeva dal freddo e dalle intemperie della giornata uggiosa, lo rendeva simpatico. I denti aguzzi, con resti di radici e foglie incastrati tra un incisivo e il canino, però ricordavano a tutti di stargli alla larga.
All’orso bruno piace stare da solo, soprattutto mentre mangia. Oggi non faceva eccezione. In pochi minuti, infatti, sotto il mio sguardo allibito, si era divorato tutto il miele. Poi si era trangugiato una bella manciata di noci e semi emettendo vocalizzi d’eccitazione dalle tonalità basse. Infine si era sbafato anche due mele e una pera. Tutta roba trovata nelle tasche del mio giubbotto che avevo malauguratamente lasciato incustodito alla sua facile portata. Non soddisfatto si era messo ad annusare in giro, probabilmente in cerca di bottini più grossi. Avrei voluto fermarlo, farlo scappare, magari muovendo un ramo o urlando ma avevo preferito lasciarlo in pace per continuare ad osservarlo con attenzione nella speranza che non mi avrebbe notato. È vero che è di indole pacifica e diffidente, ma può attaccare se disturbato o sorpreso a breve distanza.
Dopo aver cercato invano altro cibo, si era adagiato sul fianco in cerca di ristoro, proprio sotto il rifugio dove mi ero sistemato per studiare i suoi comportamenti. Era probabilmente l’ennesimo riposino della giornata nella sua tana. Non potevo muovermi e avrei dovuto aspettare il suo risveglio fino alle ore crepuscolari se non fosse che l’arrivo dei suoi cuccioli lo avevano distolto dalla pacchia in panciolle. Con i loro schiamazzi e giochi incontrollati i piccoli lo avevano reso nervoso. Lo sentivo diffondere ripetutamente profondi e prolungati brontolii (definiti “ruglio”) nel tentativo di controllare senza successo la vivacità della prole. Nonostante fossi ben al sicuro dai suoi possenti artigli, avevo cominciato ad allarmarmi, impaurito di non poter più andare via.
L’occasione per uscirne sano e salvo però sarebbe arrivata poco dopo quando l’orso era stato costretto dalla sua partner ad andare a scovare qualche buon fungo e procacciare un bel pezzo di carne fresca per lui e la famiglia. Lasciando la tana doveva schivare le tante pozzanghere formatesi durante questa stagione della pioggia e le sue capacità di abile nuotatore tornavano utili nella circostanza. In poco tempo era tornato nel suo covo con la cena. Almeno così la giornata aveva avuto un senso.
Sì, oggi ho visto un orso. L’ho osservato tutto il pomeriggio avvolto nei vestiti del giorno prima, con la barba incolta, i capelli spettinati, assonnato, con poca voglia di lavorare e men che meno di incontrare altri individui. Gli capita spesso da quando fuori è grigio, piove e comincia a far freddo, soprattutto perché sta a casa più spesso del solito, troppe volte tentato dal divano e da altre distrazioni. Povero orso, fa quasi tenerezza. È ancora qui, davanti a me, mentre lo guardo allo specchio.
 
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venerdì 1 novembre 2024

ITALIENAREN – Angolo di paradiso

Passeggio con la testa immersa nei miei pensieri e nelle preoccupazioni. Lo sguardo è basso rivolto ai sampietrini di questa stradina di Södermalm. Dal nulla si alza un refolo di vento e sposta in avanti le foglie lungo il pavé. Un altro colpo le porta in alto e mi costringe a seguirle con gli occhi. Le foglie autunnali dalle mille gradazioni di giallo e arancione svoltano all’improvviso a sinistra, giù per una scala di legno, poi a destra tra le fronde degli alberi e lungo un percorso sterrato. Il vento mi spinge a seguire il fogliame che infine si libera e danza nell’aria limpida a contatto col pallido sole dell’ottobre stoccolmese. Come spesso mi succede, quasi senza accorgermene, arrivo all’improvviso in questo posto magico in pieno centro. Camminando lungo il sentiero ghiaioso, mi ritrovo la città sbattuta in faccia. Ci sono dentro e allo stesso tempo mi sembra di esserne fuori, distante, in un percorso parallelo. Mi sembra di stare sopra la città e di guardarla come se fosse un soprammobile comprato in un negozio di souvenir. È una sensazione che mi coglie sempre di sorpresa. Rimango ammaliato dalla bellezza di Gamla Stan, dell’imponenza dello Stadshuset coi suoi mattoni rossi. Gli occhi si spostano a destra e sinistra e il sorriso si allarga tra le labbra: seguo tutto il Norrmälarstrand fino allo slanciato Västerbron in lontananza. Mi fermo ad accarezzare un gatto che, accovacciato sul passamano di legno, fa le fusa a tutti i passanti, senza eccezioni. Dal lato opposto dell’orizzonte scorgo i tetti del palazzo reale che nascondono Djurgården e Östermalm. Nel contorno della città svettano le guglie delle chiese, le torri radio, le immancabili gru di una capitale sempre in costruzione e le due nuove torri di “Sauron” a Torsplan. Riprendo a camminare e mi diverto a indovinare da quale paese provengano i tanti turisti presenti sul percorso. Ascolto le loro lingue e le loro espressioni stupite. Riconosco gli italiani dal loro modo di muoversi e di vestirsi ancora prima di sentirli parlare. Scatto una foto a chi me lo chiedo e ributto lo sguardo oltre il precipizio dove trovo lo specchio d’acqua che mi riflette e mi fa riflettere. Questo posto magico è nascosto, ma molti sognatori riescono comunque a trovarlo a occhi chiusi. Scorro la mano sui lucchetti agganciati sulla rete metallica e provo anch’io un rinnovato amore per una città che mi sta dando filo da torcere in questo periodo. Dall’alto osservo le automobili sfrecciare sul Centralbron come delle Micro Machines uguali a quelle che avevo da piccolo, ogni tanto passa il treno come in un modellino che gira in cerchio all’infinito. Perso nelle mie fantasie mi scanso all’ultimo secondo per far passare una coppia di anziani che si tiene per mano. Immagino le case del paesaggio fatte di mattoncini Lego multicolori e i palazzi più importanti come miniature rubate al museo civico. I passanti in fondo alla scarpata sono formichine e le barche sembrano radiocomandate da qualcuno nascosto tra i parchi o gli appartamenti dai prezzi esorbitanti alle mie spalle. Le foglie gialle – mi piace pensare che fossero le stesse di prima – spinte ancora dal vento, ballano davanti al mio volto rilassato e mi riportano sulla strada principale.
Sono bastati cinquecento metri di passeggiata in questo posto tanto semplice quanto incantato per dimenticare ansie e paure. Quanto tempo è passato dall’inizio della camminata? Non ne ho idea e non è importante. È proprio questo l’effetto che fa questo terrazzo che sporge dalla e sulla città e mi proietta oltre i limiti osservabili dai miei sensi. Mi scuoto dal sogno e riprendo il passo spedito lungo Bastugatan. La mia pausa pranzo è finta, devo andare. Alla prossima volta, cara Monteliusvägen.
 
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Ecco il link all’articolo su Italienaren - Il lavoratore:
https://italienaren.org/angolo-di-paradiso/