Mi metto il camice bianco ed entro
in laboratorio. Mi infilo i guanti in lattice. Appoggio l’elastico dietro le
orecchie e appoggio la mascherina sul naso e la bocca. Ora sono pronto.
Il mio laboratorio non è asettico, ordinato e disinfettato, ma caotico, scombussolato e sporco. La stanza di un adolescente arrapato sarebbe messa meglio. Questo però è quello che mi ritrovo tra le mani, quindi inspiro profondamente e mi metto al lavoro con l’attività che ogni giorno mi dà da vivere.
Con passo cauto zampetto da un punto libero all’altro del pavimento evitando le pile di libri e i vecchi camici buttati alla rinfusa per terra.
Arrivato al bancone sposto le scartoffie, le penne sparpagliate e le cartacce delle merendine mangiate in preda al nervosismo dei giorni scorsi.
Gli esperimenti non stanno andando bene. I risultati non si vedono. Non riesco a trovare la soluzione al mio problema.
Mi abbatto al solo pensiero di come sia andata ultimamente, ma ritrovo la concentrazione. Non mi arrendo e ci riprovo ora.
Inspiro ed espiro profondamente. Mi guardo attorno e vedo le provette nella teca. Sposto alambicchi e strumenti vari che ne ostruiscono l’apertura e con molta fatica riesco ad aprirla e a prendere il supporto con tutte le provette in fila.
Da un’altra bacheca afferro saldamente alcuni flaconi contrassegnati da etichette con nomi di sostanze. Appoggio tutto sul bancone.
Osservo tutto il materiale che ho davanti agli occhi. Da dove cominciare?
Allora, la volta scorsa ho fatto tutto quello che pensavo fosse giusto ma alla fine non ero contento. Come posso fare per essere felice? Hm…
Va bene, provo così: in un becher verso della dopamina. Se riempio fino a questo segno dovrebbe andare. Ah, merda! Ne ho messa troppa. Mi gira la testa. Non posso credere a quello che è successo. Non posso essere stato io a farlo. No. Dev’essere stato qualcun altro a versare più sostanza di quella che serviva. Qualcuno nascosto in questa stanza mi ha spostato il braccio nel momento in cui versavo la dopamina.
Calma, Roberto. Calma. Non c’è nessuno qui con me. dev’essere la stanchezza di questi giorni e questa luce al neon che lampeggia a intervalli irregolari ad avermi ingannato.
Cerca di restare lucido. Ti serve serotonina. Devo metterci più serotonina. Ecco là.
Mi giro di scatto. Per sbaglio urto col dorso della mano un flacone che cade a terra e si rompe in mille pezzi. Il liquido che conteneva si sparge sul pavimento. È irrecuperabile. Ovviamente era la serotonina. Nel frattempo la dopamina nel becher è evaporata. Sono un incapace. Non so fare niente e quel poco che faccio lo faccio male. Sono un buono a nulla. Non potrò mai essere felice così, senza la serotonina.
Vorrei mettere via tutto. Anzi, vorrei buttare via tutto e nascondermi a letto sotto le coperte. All’improvviso sono stanco e svogliato. Non otterrò mai i risultati che voglio. Me lo merito.
Abbasso lo sguardo affranto, ma proprio in quel momento mi ricordo che posso ancora fare qualcosa. Posso provare a compensare l’assenza di serotonina con le endorfine.
Dove sono? Maledizione, dove le ho messe? Dove?
Cerco freneticamente tra gli scaffali e le teche, ma non le trovo. Giusto: sono in quell’angolo. Devo muovermi da qua. Le provette con le endorfine sono alla fine di quel tapis roulant. Ecco a cosa serviva. Prima cammino, ma non ci arrivo. Cammino più in fretta fino a correre, ma i preziosi neurotrasmettitori sembrano irraggiungibili. Sto correndo da almeno trenta minuti e non ho ottenuto niente. Sono esausto. Mi fermo. Con mia grande sorpresa ora le provette con le endorfine sono a portata di mano. Bene. Questa notizia mi fa stare meglio.
Ritornando al bancone mi ricordo però che in questi giorni devo portare l’auto a riparare, devo sistemare la mensola in bagno, completare quei maledetti documenti per la banca e partecipare a una riunione lavorativa ma farei volentieri a cambio con una camminata sui carboni ardenti. Distratto da questi pensieri non verso le endorfine ma un’altra provetta. L’etichetta recita: cortisolo. No, che stress!
Provo a buttare freneticamente nel becher le endorfine, ma è troppo tardi, hanno finito il loro effetto. Trovo altri due flaconi che avevo preso prima. Apro in fretta il tappo e rovescio tutto il contenuto nel miscuglio di prima. Tanto, che male possono fare alcune sostanze in più. Leggo meglio l’etichetta: adrenalina e noradrenalina. Panico!
Il cuore batte a mille colpi al minuto. Sto sudando freddo. Sto iperventilando. Aiuto non so cosa fare. Ho paura di aver sbagliato tutto. Guardo le provette e i contenitori che mi restano ma non so quale prendere. La vista è appannata e sto per svenire. Ho bisogno di sedermi.
Inspiro, conto fino a tre, espiro, conto fino a tre, inspiro, conto fino a tre, espiro, conto fino a tre…
Continuo così per qualche minuto finché non mi riprendo. Molto meglio così.
L’adrenalina e la noradrenalina nel frattempo sono evaporate e i miei valori corporei sono tornati alla normalità. Oh, bene. Guardo verso il bancone. Ora non vedo le provette e gli alambicchi, ma una cornice appesa al muro, oltre il bancone. È una fotografia. Mi basta guardarla per sentirmi già meglio. Mi alzo. Mi avvicino. La prendo in mano: è una foto della mia famiglia. C’è mia moglie e i miei due bambini. Penso ai loro abbracci, alle loro carezze, ai loro baci. Il ricordo è così vivido che mi sembra di averli qui al mio fianco.
Il mio laboratorio non è asettico, ordinato e disinfettato, ma caotico, scombussolato e sporco. La stanza di un adolescente arrapato sarebbe messa meglio. Questo però è quello che mi ritrovo tra le mani, quindi inspiro profondamente e mi metto al lavoro con l’attività che ogni giorno mi dà da vivere.
Con passo cauto zampetto da un punto libero all’altro del pavimento evitando le pile di libri e i vecchi camici buttati alla rinfusa per terra.
Arrivato al bancone sposto le scartoffie, le penne sparpagliate e le cartacce delle merendine mangiate in preda al nervosismo dei giorni scorsi.
Gli esperimenti non stanno andando bene. I risultati non si vedono. Non riesco a trovare la soluzione al mio problema.
Mi abbatto al solo pensiero di come sia andata ultimamente, ma ritrovo la concentrazione. Non mi arrendo e ci riprovo ora.
Inspiro ed espiro profondamente. Mi guardo attorno e vedo le provette nella teca. Sposto alambicchi e strumenti vari che ne ostruiscono l’apertura e con molta fatica riesco ad aprirla e a prendere il supporto con tutte le provette in fila.
Da un’altra bacheca afferro saldamente alcuni flaconi contrassegnati da etichette con nomi di sostanze. Appoggio tutto sul bancone.
Osservo tutto il materiale che ho davanti agli occhi. Da dove cominciare?
Allora, la volta scorsa ho fatto tutto quello che pensavo fosse giusto ma alla fine non ero contento. Come posso fare per essere felice? Hm…
Va bene, provo così: in un becher verso della dopamina. Se riempio fino a questo segno dovrebbe andare. Ah, merda! Ne ho messa troppa. Mi gira la testa. Non posso credere a quello che è successo. Non posso essere stato io a farlo. No. Dev’essere stato qualcun altro a versare più sostanza di quella che serviva. Qualcuno nascosto in questa stanza mi ha spostato il braccio nel momento in cui versavo la dopamina.
Calma, Roberto. Calma. Non c’è nessuno qui con me. dev’essere la stanchezza di questi giorni e questa luce al neon che lampeggia a intervalli irregolari ad avermi ingannato.
Cerca di restare lucido. Ti serve serotonina. Devo metterci più serotonina. Ecco là.
Mi giro di scatto. Per sbaglio urto col dorso della mano un flacone che cade a terra e si rompe in mille pezzi. Il liquido che conteneva si sparge sul pavimento. È irrecuperabile. Ovviamente era la serotonina. Nel frattempo la dopamina nel becher è evaporata. Sono un incapace. Non so fare niente e quel poco che faccio lo faccio male. Sono un buono a nulla. Non potrò mai essere felice così, senza la serotonina.
Vorrei mettere via tutto. Anzi, vorrei buttare via tutto e nascondermi a letto sotto le coperte. All’improvviso sono stanco e svogliato. Non otterrò mai i risultati che voglio. Me lo merito.
Abbasso lo sguardo affranto, ma proprio in quel momento mi ricordo che posso ancora fare qualcosa. Posso provare a compensare l’assenza di serotonina con le endorfine.
Dove sono? Maledizione, dove le ho messe? Dove?
Cerco freneticamente tra gli scaffali e le teche, ma non le trovo. Giusto: sono in quell’angolo. Devo muovermi da qua. Le provette con le endorfine sono alla fine di quel tapis roulant. Ecco a cosa serviva. Prima cammino, ma non ci arrivo. Cammino più in fretta fino a correre, ma i preziosi neurotrasmettitori sembrano irraggiungibili. Sto correndo da almeno trenta minuti e non ho ottenuto niente. Sono esausto. Mi fermo. Con mia grande sorpresa ora le provette con le endorfine sono a portata di mano. Bene. Questa notizia mi fa stare meglio.
Ritornando al bancone mi ricordo però che in questi giorni devo portare l’auto a riparare, devo sistemare la mensola in bagno, completare quei maledetti documenti per la banca e partecipare a una riunione lavorativa ma farei volentieri a cambio con una camminata sui carboni ardenti. Distratto da questi pensieri non verso le endorfine ma un’altra provetta. L’etichetta recita: cortisolo. No, che stress!
Provo a buttare freneticamente nel becher le endorfine, ma è troppo tardi, hanno finito il loro effetto. Trovo altri due flaconi che avevo preso prima. Apro in fretta il tappo e rovescio tutto il contenuto nel miscuglio di prima. Tanto, che male possono fare alcune sostanze in più. Leggo meglio l’etichetta: adrenalina e noradrenalina. Panico!
Il cuore batte a mille colpi al minuto. Sto sudando freddo. Sto iperventilando. Aiuto non so cosa fare. Ho paura di aver sbagliato tutto. Guardo le provette e i contenitori che mi restano ma non so quale prendere. La vista è appannata e sto per svenire. Ho bisogno di sedermi.
Inspiro, conto fino a tre, espiro, conto fino a tre, inspiro, conto fino a tre, espiro, conto fino a tre…
Continuo così per qualche minuto finché non mi riprendo. Molto meglio così.
L’adrenalina e la noradrenalina nel frattempo sono evaporate e i miei valori corporei sono tornati alla normalità. Oh, bene. Guardo verso il bancone. Ora non vedo le provette e gli alambicchi, ma una cornice appesa al muro, oltre il bancone. È una fotografia. Mi basta guardarla per sentirmi già meglio. Mi alzo. Mi avvicino. La prendo in mano: è una foto della mia famiglia. C’è mia moglie e i miei due bambini. Penso ai loro abbracci, alle loro carezze, ai loro baci. Il ricordo è così vivido che mi sembra di averli qui al mio fianco.
Sovrappensiero ho versato nella miscela
di sostanze anche un flacone contenente ossitocina. Che bello. Tutto sembra bilanciato
ora. Lo so che durerà poco e che a breve dovrò aggiungere altre sostanze per mantenere
l’equilibrio, ma per ora va bene così.
Credo sia ora di andare a casa. Ho fatto quello che potevo per oggi. Domani ci saranno altri esperimenti da provare. Questo è quello che faccio per vivere. Per sentirmi vivo.
Il letto è in un altro lato del laboratorio. Io vivo, mangio e dormo sempre qui.
Sono stanco. Cerco di chiudere gli occhi. Dovrei dormire, ma non ci riesco. Sono troppo eccitato per il lavoro di oggi. L’equilibrio mentale resta costantemente instabile. Mi consolo al pensiero che probabilmente l’obiettivo non è raggiungere l’equilibrio, ma quello che si fa per cercare di raggiungerlo.
E solo in quel momento capisco perché non riesco ad addormentarmi. Maledizione, ho dimenticato di aggiungere la melatonina!
Credo sia ora di andare a casa. Ho fatto quello che potevo per oggi. Domani ci saranno altri esperimenti da provare. Questo è quello che faccio per vivere. Per sentirmi vivo.
Il letto è in un altro lato del laboratorio. Io vivo, mangio e dormo sempre qui.
Sono stanco. Cerco di chiudere gli occhi. Dovrei dormire, ma non ci riesco. Sono troppo eccitato per il lavoro di oggi. L’equilibrio mentale resta costantemente instabile. Mi consolo al pensiero che probabilmente l’obiettivo non è raggiungere l’equilibrio, ma quello che si fa per cercare di raggiungerlo.
E solo in quel momento capisco perché non riesco ad addormentarmi. Maledizione, ho dimenticato di aggiungere la melatonina!
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