mercoledì 31 gennaio 2024

RACCONTI – Nuvoloni latinoamericani

Una musica latinoamericana in sottofondo. Una decina di persone con vestiti sgargianti e cappelli di gusto discutibile che cercano di imitare l’accento spagnolo con capacità altrettanto discutibili. Un parquet consumato. Luci soffuse. E io in mezzo alla pista da ballo.
In mezzo come un palo e mi chiedo perché e che cosa sia venuto a fare qui. Non sono qui per scopare, come probabilmente tre quarti delle altre persone qui dentro. Sono qui con mia moglie. Non sono in cerchi di scambisti. Sono qui per imparare. Sono qui per provare i passi di una danza, salsa e merengue, che pure mi fa cagare. Non sopporto la musica, non capisco i movimenti, odio il sorriso forzato che si stampano tutti in faccia quando volteggiano. O forse è solo invidia perché si divertono veramente e io no.
Per provare ci provo, ma non ci riesco. Non parlo del sorriso, parlo dei passi di danza. Io ce la metto tutta ma, se il ritmo è nel sangue, io ho proprio bisogno di una trasfusione. L’armonia dei gesti legati alla musica non è il mio forte. Un uomo visibilmente ubriaco al mio fianco coordina i suoi movimenti decisamente meglio di quanto riesca a fare io.
Nonostante tutto voglio imparare con tutte le mie forze.
Perché? Occorre fare un salto indietro nel tempo di un paio di giorni.
 
Il cielo in lontananza è nero. Nuvole basse, grosse e scure coprono l’orizzonte. Si spostano velocemente. Vedo un lampo e poi un tuono. Quelle nuvole pesanti portano tempesta. Sento un altro boato: questa volta è la mia pancia che brontola, preoccupata per quello che le arriverà o semplicemente protesta per la fame. Ma come si fa ad avere appetito in queste situazioni.
Immagino già il disastro che la tormenta porterà nel mio villaggio. Vedo strade allagate, case danneggiate, tetti divelti, alberi spezzati. Sento il vento che turbina e aumenta di forza e velocità, sempre di più, sempre più vicino. Ripenso a quello che avevo e a quello che sto per perdere. Sono già giorni, mesi e anni avanti. Mi vedo distrutto, seduto su un marciapiede altrettanto devastato. Nei peggiori dei casi mi immagino depresso, senza ambizioni e speranze, perso tra i miei sogni decadenti come una statua di creta malriuscita.
Sono il solito esagerato. Il solito catastrofista. La fantasia ha i suoi lati negativi. Con una mano dà, con l’altra prende. Volo troppo coi pensieri e finisco per sfracellarmi al suolo. Perdo il contatto con la realtà. È solo un lavoro. Ce ne sarà un altro. E poi un altro. E un altro ancora.
Il temporale si è avvicinato ancora di più mentre lo fissavo e cercavo di guardare oltre. È ora di svegliarsi da questo bel sogno e abbracciare l’incubo. È il momento di imparare ad accettare quello che sta succedendo. Devo tornare coi piedi per terra, nel presente.
Potrei correre via lontano, ma nessuno corre più del vento, neanche Usain Bolt in discesa.
Potrei cercare riparo, ma nessuna abitazione reggerà questo uragano, neanche la casetta di mattoni del porcellino più saggio.
Potrei mettermi l’impermeabile giallo col cappuccio in cerata e gli stivali di gomma, ma mi ritroverei comunque fradicio e stanco come quel gattino della pubblicità della pasta Barilla di qualche anno fa – o forse era qualche secolo fa. Non sono neanche sicuro che quella bambina riuscirebbe a trovarmi.
Oppure potrei essere grato per quello che è stato, guardare avanti e imparare a fare quello che non mi riesce mai molto bene: ballare. Danzare assieme alla tormenta.
“La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia”, diceva Mahatma Gandhi.
 
Eccomi quindi qui a pestare i piedi a mia moglie mentre cerco di seguire l’insegnante di ballo latino americano che sghignazza divertito mentre mi vede impacciato come se stessi giocando a Twister da solo in un lato della pista mentre il resto del gruppo è dall’altra parte. Mi vedo attraverso i suoi occhi e mi scappa un sorriso.

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