Un periodo in Italia con moglie e
figli non è solo una vacanza per incontrare famiglia e amici o un’ottima occasione
per mangiare cibo genuino e delizioso, ma anche un passaggio tra due culture,
tradizioni e linguaggi. Una trasformazione. Per il mio cervello, i miei
pensieri e le mie parole in primo luogo.
Tutto inizia dal viaggio. Quale luogo migliore per simboleggiare questa transizione se non l’aereo. È lì che si comincia con la trasformazione linguistica. In qualche modo devo partire dallo svedese e arrivare all’italiano. Il passaggio obbligato è l’inglese ma non quello classico che ti insegnano a scuola, quello più sofisticato britannico oppure quello più hollywoodiano da film. L’inglese speciale che faciliterà il passaggio tra i due paesi è quello internazionale dei piloti e assistenti di volo. Un linguaggio biascicato, distorto dall’alta quota, dall’altoparlante o forse semplicemente dalla stanchezza e monotonia del testo da ripetere. Mentre cerco di captare e interpretare le informazioni relative al volo con le orecchie tappate dalla pressione dell’aria, in poco più di due ore atterro.
Ora che sono in suolo italico la sfida si sposta sull’uso degli accenti. Dopo aver passato anni in Svezia a cercare di convincere colleghi e amici che Huddinge (comune dell’area metropolitana di Stoccolma) non è Udine, nonostante la pronuncia possa assomigliare, ora mi ritrovo con un vecchio scontro tra titani: la pronuncia della mia regione d’origine. Nonostante siano nostri vicini, i veneti non hanno ancora capito che l’accento in Friûli va sulla U e non sulla I. Non importa. Va bene lo stesso. Ormai ci sono abituato. Mi distraggo concentrandomi sugli sforzi dei bambini ad adattarsi all’italiano. Prima usano la svedese grammatica con le italiane parole, che esso non è così tanto diverso da quello che di solito diciono a casa, poi sviluppano lo italiano medievale quando chiedono lo pane perché sono fame e anco quando giocano con li cugini. Io comunque non sono da meno e per almeno un paio di giorni saluto tutti con un bel “Hej” prima di accorgermi che invece dovrei dire “Buongiorno, buonasera”. Risulto un po’ sgarbato, ma mi capiscono e ottengo lo stesso lo scopo richiesto.
Con un po’ di esercizio e di applicazione, però, il cervello si è riassestato e ora sia io sia i bambini riusciamo a parlare senza troppi patemi. I nomi Erika, Marika e Quasimodo sono tornati a essere piani dopo il trattamento sdrucciolo svedese. I bambini parlano fluentemente e coniugano i verbi al congiuntivo meglio di alcuni conduttori televisivi di programmi italiani di dubbia qualità. La grammatica ha riacquistato una forma normale dopo le alterazioni Frankensteiniane dei giorni precedenti. Tutto è a posto.
Peccato che sia già passata una settimana e sia ora di tornare in Svezia e percorrere al contrario la trasformazione linguistica. In bocca al lo lupo, messère.
Tutto inizia dal viaggio. Quale luogo migliore per simboleggiare questa transizione se non l’aereo. È lì che si comincia con la trasformazione linguistica. In qualche modo devo partire dallo svedese e arrivare all’italiano. Il passaggio obbligato è l’inglese ma non quello classico che ti insegnano a scuola, quello più sofisticato britannico oppure quello più hollywoodiano da film. L’inglese speciale che faciliterà il passaggio tra i due paesi è quello internazionale dei piloti e assistenti di volo. Un linguaggio biascicato, distorto dall’alta quota, dall’altoparlante o forse semplicemente dalla stanchezza e monotonia del testo da ripetere. Mentre cerco di captare e interpretare le informazioni relative al volo con le orecchie tappate dalla pressione dell’aria, in poco più di due ore atterro.
Ora che sono in suolo italico la sfida si sposta sull’uso degli accenti. Dopo aver passato anni in Svezia a cercare di convincere colleghi e amici che Huddinge (comune dell’area metropolitana di Stoccolma) non è Udine, nonostante la pronuncia possa assomigliare, ora mi ritrovo con un vecchio scontro tra titani: la pronuncia della mia regione d’origine. Nonostante siano nostri vicini, i veneti non hanno ancora capito che l’accento in Friûli va sulla U e non sulla I. Non importa. Va bene lo stesso. Ormai ci sono abituato. Mi distraggo concentrandomi sugli sforzi dei bambini ad adattarsi all’italiano. Prima usano la svedese grammatica con le italiane parole, che esso non è così tanto diverso da quello che di solito diciono a casa, poi sviluppano lo italiano medievale quando chiedono lo pane perché sono fame e anco quando giocano con li cugini. Io comunque non sono da meno e per almeno un paio di giorni saluto tutti con un bel “Hej” prima di accorgermi che invece dovrei dire “Buongiorno, buonasera”. Risulto un po’ sgarbato, ma mi capiscono e ottengo lo stesso lo scopo richiesto.
Con un po’ di esercizio e di applicazione, però, il cervello si è riassestato e ora sia io sia i bambini riusciamo a parlare senza troppi patemi. I nomi Erika, Marika e Quasimodo sono tornati a essere piani dopo il trattamento sdrucciolo svedese. I bambini parlano fluentemente e coniugano i verbi al congiuntivo meglio di alcuni conduttori televisivi di programmi italiani di dubbia qualità. La grammatica ha riacquistato una forma normale dopo le alterazioni Frankensteiniane dei giorni precedenti. Tutto è a posto.
Peccato che sia già passata una settimana e sia ora di tornare in Svezia e percorrere al contrario la trasformazione linguistica. In bocca al lo lupo, messère.
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