Sono bloccato su una sedia: le mani
sui braccioli, i piedi sul piedistallo, la testa ferma, gli occhi ben
spalancati a guardare avanti. La persona di fronte a me mi ha appena imbottito
di domande sulla mia vita e sulle mie abitudini. Il tempo sembra non passare più
da quando sono entrato qua dentro. Sono qui da minuti, ore o addirittura
giorni? Non lo so. Immagino che il Trattamento Ludovico a Alex DeLarge in Arancia
Meccanica fosse qualcosa di simile, ma forse sono il solito esagerato.
Non vorrei essere qui. Mi pento di aver fatto questa scelta, di essere venuto in questo luogo maledetto di mia spontanea volontà. Vorrei essere altrove.
Eppure era la scelta giusta. Era giunto il momento di portare a termine questa tortura.
"È meglio la numero uno o la numero due?"
Non è Mike Bongiorno dal regno dell'aldilà che mi chiede quale busta preferisco e, dato che lo sto evitando da anni, non può neanche essere il mio medico di base che mi propone un paio di creme antifungine da usare sulla schiena. Quella è la voce dell'oculista che mi chiede con quale lente vedo meglio le lettere dall'altra parte della stanza. Un po' come quando la tua compagna ti invita a esprimere una preferenza tra il divano grigio topo di campagna a sinistra o quello grigio topo di città a destra quando siete in visita all'IKEA (spoiler alert: non c'è nessuna differenza). Quello che faccio, quindi, è scegliere una lente o l'altra in base all'istinto, se non addirittura al caso.
"Cosa vedi in questa riga?"
Ecco la domanda che mi tortura più di tutte. La domanda che mi accompagna da quando avevo quattro anni e che mi ha condannato a inforcare gli occhiali e a non lasciarli più. La domanda che mi ha sempre lasciato senza risposte e con un forte senso d'ansia e d'impotenza. Con l'occhio "buono" riesco anche a cavarmela, ma con l'occhio destro sono quasi cieco e cercare di interpretare la forma di quella maledetta lettera è pura sofferenza. Mi sono sempre chiesto se ci siano davvero delle lettere o se l'oculista si diverta a mettere dei segni a caso, tipo rune celtiche oppure sanscrito antico ogni volta che io mi approccio alla tavola optometrica. Ma poi, perché dovrei leggere quelle letterine? Neanche fossi Babbo Natale con gli elfi seduti accanto a me davanti al caminetto.
Da piccolo ogni tanto trovavo una scusa per avvicinarmi alla tavola optometrica e imparavo a memoria l'ordine delle lettere presenti. Era bello poter fregare così l'oculista che per me era una persona sadica che sghignazzava per le mie incapacità visive. Ricordo ancora le risate che mi facevo quando poi, uscito dal negozio col mio nuovo paio di occhiali dalla gradazione sbagliata, festeggiavo la riuscita del mio inganno andando a sbattere involontariamente contro tutti i muri che trovavo. Che pirla.
"Questi li vedi orizzontali o verticali?"
L'oculista passa poi ai suoi classici trucchetti da illusionista e giochi di prestidigitazione. Se tappo un occhio vedo una sequenza di linee, se tappo l'altro intuisco che ci sia qualcos'altro ma non so bene cosa: una macchia del test di Rorschach sarebbe più chiara. In realtà vorrei solo chiudere entrambi gli occhi e sparire dal negozio e ritrovarmi magicamente di nuovo a casa a tortura conclusa. Non posso farlo però e sono invece costretto a continuare a stare ai giochi perversi di quel personaggio in camice bianco che ormai non sembra neanche divertirsi più perché preso da una sorta di compassione per i miei continui fallimenti. Almeno io li percepisco così. L'ho già scritto che sono il solito esagerato? Mi pare di sì.
"E ora guarda qua: tranquillo, non è pericoloso!"
E prima che io possa rendermi conto che questa è la tipica affermazione che mette una gran preoccupazione nel paziente (io, in questo caso), mi ritrovo un raggio sparaflashante alla Men in Black sparato dritto negli occhi che mi acceca completamente. Per un millisecondo, ma mi rende cieco. Mi dice che è un test per il riflesso della dilatazione pupillare ma io credo che sia un metodo astuto per cancellare la memoria degli ultimi e dei prossimi cinque minuti e farmi dimenticare il prezzo del conto da pagare della visita, degli occhiali e delle lenti, così poi potrò tornare agli accertamenti di controllo senza farmi troppe remore.
"Abbiamo finito!"
Oh, il momento più bello di tutti. La frase che aspettavo da quando mi sono seduto in sala d'attesa. La liberazione che mi fa abbassare finalmente le spalle da livello Generale dell'esercito prussiano a livello pappamolla di scuola di polizia. È il lasciapassare che mi fa rilassare tutti i muscoli del corpo e gli sfinteri anali, con notevoli sforzi nel trattenere le conseguenti scoregge…
"Che cos'è questa puzza?"
…cosa che non sempre mi riesce a quanto pare.
A parte questo spiacevole e imbarazzante inconveniente ora non mi resta che aspettare un mesetto che le miei lenti speciali vengano create su misura e un altro mesetto che mi vengano fatte recapitare dall'altra parte del mondo. Mi chiedo se questi tempi d'attesa eterni dipendano dal fatto che le mie lenti siano prodotte a mano da monaci tibetani solamente dopo aver raggiunto il nirvana oppure se sia solo la mia solita sfiga. Non lo saprò mai.
Ad ogni modo, la giornata finisce e io torno a casa esausto. Sono davvero a pezzi. Affrontare le proprie paure e ansie è faticoso. Se avessi saputo che era così difficile non lo avrei mai consigliato ai miei pazienti in tutti questi anni da psicologo. Mi sento comunque orgoglioso per aver risolto questo problema da vero uomo: ovvero prenotando una visita oculistica dopo averla posticipata all'infinito e non aver dato priorità alla mia salute per paura di eventualmente ricevere brutte notizie come per esempio diventare cieco o dover passare da occhiali con lenti spesse come un fondo di una bottiglia a occhiali con lenti spesse come il fondo di una damigiana. Tutto sembra portare a berci sopra, ma non troppo, altrimenti rischio di dimenticare l'importante lezione di oggi: la prossima volta metterò da parte la mia virilità a vantaggio della mia salute.
E quell'altra visita dal dottore che dovevo fare? Ah, ci penserò domani.
Non vorrei essere qui. Mi pento di aver fatto questa scelta, di essere venuto in questo luogo maledetto di mia spontanea volontà. Vorrei essere altrove.
Eppure era la scelta giusta. Era giunto il momento di portare a termine questa tortura.
"È meglio la numero uno o la numero due?"
Non è Mike Bongiorno dal regno dell'aldilà che mi chiede quale busta preferisco e, dato che lo sto evitando da anni, non può neanche essere il mio medico di base che mi propone un paio di creme antifungine da usare sulla schiena. Quella è la voce dell'oculista che mi chiede con quale lente vedo meglio le lettere dall'altra parte della stanza. Un po' come quando la tua compagna ti invita a esprimere una preferenza tra il divano grigio topo di campagna a sinistra o quello grigio topo di città a destra quando siete in visita all'IKEA (spoiler alert: non c'è nessuna differenza). Quello che faccio, quindi, è scegliere una lente o l'altra in base all'istinto, se non addirittura al caso.
"Cosa vedi in questa riga?"
Ecco la domanda che mi tortura più di tutte. La domanda che mi accompagna da quando avevo quattro anni e che mi ha condannato a inforcare gli occhiali e a non lasciarli più. La domanda che mi ha sempre lasciato senza risposte e con un forte senso d'ansia e d'impotenza. Con l'occhio "buono" riesco anche a cavarmela, ma con l'occhio destro sono quasi cieco e cercare di interpretare la forma di quella maledetta lettera è pura sofferenza. Mi sono sempre chiesto se ci siano davvero delle lettere o se l'oculista si diverta a mettere dei segni a caso, tipo rune celtiche oppure sanscrito antico ogni volta che io mi approccio alla tavola optometrica. Ma poi, perché dovrei leggere quelle letterine? Neanche fossi Babbo Natale con gli elfi seduti accanto a me davanti al caminetto.
Da piccolo ogni tanto trovavo una scusa per avvicinarmi alla tavola optometrica e imparavo a memoria l'ordine delle lettere presenti. Era bello poter fregare così l'oculista che per me era una persona sadica che sghignazzava per le mie incapacità visive. Ricordo ancora le risate che mi facevo quando poi, uscito dal negozio col mio nuovo paio di occhiali dalla gradazione sbagliata, festeggiavo la riuscita del mio inganno andando a sbattere involontariamente contro tutti i muri che trovavo. Che pirla.
"Questi li vedi orizzontali o verticali?"
L'oculista passa poi ai suoi classici trucchetti da illusionista e giochi di prestidigitazione. Se tappo un occhio vedo una sequenza di linee, se tappo l'altro intuisco che ci sia qualcos'altro ma non so bene cosa: una macchia del test di Rorschach sarebbe più chiara. In realtà vorrei solo chiudere entrambi gli occhi e sparire dal negozio e ritrovarmi magicamente di nuovo a casa a tortura conclusa. Non posso farlo però e sono invece costretto a continuare a stare ai giochi perversi di quel personaggio in camice bianco che ormai non sembra neanche divertirsi più perché preso da una sorta di compassione per i miei continui fallimenti. Almeno io li percepisco così. L'ho già scritto che sono il solito esagerato? Mi pare di sì.
"E ora guarda qua: tranquillo, non è pericoloso!"
E prima che io possa rendermi conto che questa è la tipica affermazione che mette una gran preoccupazione nel paziente (io, in questo caso), mi ritrovo un raggio sparaflashante alla Men in Black sparato dritto negli occhi che mi acceca completamente. Per un millisecondo, ma mi rende cieco. Mi dice che è un test per il riflesso della dilatazione pupillare ma io credo che sia un metodo astuto per cancellare la memoria degli ultimi e dei prossimi cinque minuti e farmi dimenticare il prezzo del conto da pagare della visita, degli occhiali e delle lenti, così poi potrò tornare agli accertamenti di controllo senza farmi troppe remore.
"Abbiamo finito!"
Oh, il momento più bello di tutti. La frase che aspettavo da quando mi sono seduto in sala d'attesa. La liberazione che mi fa abbassare finalmente le spalle da livello Generale dell'esercito prussiano a livello pappamolla di scuola di polizia. È il lasciapassare che mi fa rilassare tutti i muscoli del corpo e gli sfinteri anali, con notevoli sforzi nel trattenere le conseguenti scoregge…
"Che cos'è questa puzza?"
…cosa che non sempre mi riesce a quanto pare.
A parte questo spiacevole e imbarazzante inconveniente ora non mi resta che aspettare un mesetto che le miei lenti speciali vengano create su misura e un altro mesetto che mi vengano fatte recapitare dall'altra parte del mondo. Mi chiedo se questi tempi d'attesa eterni dipendano dal fatto che le mie lenti siano prodotte a mano da monaci tibetani solamente dopo aver raggiunto il nirvana oppure se sia solo la mia solita sfiga. Non lo saprò mai.
Ad ogni modo, la giornata finisce e io torno a casa esausto. Sono davvero a pezzi. Affrontare le proprie paure e ansie è faticoso. Se avessi saputo che era così difficile non lo avrei mai consigliato ai miei pazienti in tutti questi anni da psicologo. Mi sento comunque orgoglioso per aver risolto questo problema da vero uomo: ovvero prenotando una visita oculistica dopo averla posticipata all'infinito e non aver dato priorità alla mia salute per paura di eventualmente ricevere brutte notizie come per esempio diventare cieco o dover passare da occhiali con lenti spesse come un fondo di una bottiglia a occhiali con lenti spesse come il fondo di una damigiana. Tutto sembra portare a berci sopra, ma non troppo, altrimenti rischio di dimenticare l'importante lezione di oggi: la prossima volta metterò da parte la mia virilità a vantaggio della mia salute.
E quell'altra visita dal dottore che dovevo fare? Ah, ci penserò domani.
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