Drin!
Driiin!
Driiiiiiin!
Non rispondono. Maledizione! Eppure le informazioni erano chiare: chiamare dalle 10.00 alle 10.05 per prendere appuntamento. È proprio quello che ho fatto, ma nessuna risposta.
Non mi arrendo così facilmente e allora mando un’e-mail al consolato. Ricevo subito un messaggio in automatico “Solo le prime tre persone della giornata che scrivono riceveranno risposta”. Neanche fosse una televendita di Mastrota.
Insisto e aspetto il giorno successivo. Compongo il numero giusto, mi sincronizzo con l’orologio atomico svizzero e appena scattano le ore dieci, zero-zero e zero centesimi schiaccio il tasto verde per chiamare di nuovo l’ambasciata. Dopo solo un paio d’ore di fila, durante le quali il mio orecchio è diventato una piastra elettrica dove ci puoi cucinare un uovo, qualcuno mi risponde: “Si ritenga fortunato che le rispondiamo”, mi ricordano quando abbozzo una lamentela per l’attesa. Spiego che mi serve il passaporto e l’impiegato mi dice stancamente che ho sbagliato il numero dell’interno. Dice che devo parlare con un suo collega e mi mette nuovamente in attesa. Aspetto solo trenta minuti e mi rispondono. È lo stesso impiegato di prima: “Ringrazi il cielo di essere italiano e di poter godere di questo servizio”, mi redarguisce. No, non finge di camuffare la voce per sembrare un altro (anche se me lo sarei aspettato), ma commenta semplicemente che il collega è impegnato. Consulta l’agenda cartacea e scarabocchia il mio nome. Bene, ho finalmente un appuntamento! D’ora in poi sarà una strada in discesa… senza freni.
L’ambasciata italiana a Stoccolma è
un palazzo elegante con vista mare a Djurgården, un’isola meravigliosa immersa
nella natura pur essendo relativamente in centro. Un posto tanto bello quanto lontano
da raggiungere con i mezzi pubblici per dove vivo io e dove paghi anche l’aria
che respiri se volessi andarci in macchina e parcheggiare. Tutto fantastico.
Tutto stupendo. Peccato che l’appuntamento che ho ottenuto sia durante un
giorno lavorativo alle 11 di mattina (dovrò chiedere un giorno di ferie) e sia tra
3 mesi. Giusto in tempo per prenotare il prossimo viaggio in Italia per il 2035.
Nel fatidico giorno arrivo alla cancelleria consolare armato di fototessere rigorosamente stampate da me seguendo il rigido protocollo del Ministero, documenti compilati e firmati secondo la prassi e il mio portafogli pieno di soldi. Pago la marca da bollo in contanti che faccio scivolare sotto il plexiglas come fosse una mazzetta. L’impiegato (lo stesso con cui ho parlato al telefono) prima commenta con una smorfia che non assomiglio a quello nella foto (e per forza, sono passati 3 mesi e tutta questa procedura mi sta togliendo anni di vita) e poi non mi rilascia né ricevuta né fattura. Lo spacciatore sotto casa mia ha la dichiarazione dei redditi più pulita dell’ambasciata.
Torno comunque a casa soddisfatto e comincio ad aspettare.
Aspetto.
Aspetto ancora.
Aspetto ancora un po’.
Solo un pochettino… ino, ino, ino.
Poi arriva la tanto agognata lettera per posta. Me l’ha appena consegnata il diligentissimo piccione che si è posato sul mio davanzale. Il dispaccio recita: “Dottor Riva, il suo passaporto è pronto”. Grida di giubilo che giungono fino a San Pietro.
Prendo un altro giorno di ferie e
vado a ritirare il tanto atteso documento. Arrivo in ambasciata all’orario
indicato sul sito internet ma l’ufficio è chiuso. Grida di bestemmie che
giungono fino a San Pietro. Mi rendo conto che il papa deva essere alquanto confuso,
ma in fin dei conti dovrebbe essere abituato.
La cancelleria consolare è chiusa senza preavviso. Sulla porta c’è un cartello: “Sia grato che ci sia un’ambasciata italiana in questo paese dimenticato da Dio”. No, scherzo. C’è scritto: “Chiuso per l’anniversario della morte di Dante”. Non il sommo poeta, ma il vecchio e fedele custode che purtroppo è deceduto qualche anno fa. Ovviamente non si scusano per il disagio. Quello spetta solo a Trenitalia.
Devo prendere un altro giorno di
ferie. Anche se ottenessi il passaporto non potrò usarlo perché ormai mi sono
giocato tutte le vacanze e non potrò viaggiare in Italia. Non importa. Ormai è
una questione di principio.
Ritorno dunque in ambasciata. Questa volta è aperta. Oltrepasso il portone. Ad attendermi c’è un drago alato che sputa fuoco. Schivo le fiamme grazie al mio scudo e poi affondo nel cuore del dragone la mia spada forgiata nella roccia delle montagne della Lapponia direttamente da Babbo Natale.
Ora mi ritrovo davanti a un fiume di lava importata dall’Etna per puro senso patriottico. Un ponte tibetano è l’unico passaggio per giungere sull’altro lato. Ho paura. Mi faccio coraggio pensando che il passaporto mi sta aspettando. Mi reggo alle funi, cerco di non guardare sotto e, un passo dopo l’altro, supero il fiume di lava. Qualche secondo dopo le funi che reggevano il ponte si bruciano e mi rendo conto che non potrò più tornare indietro a rivedere i miei cari. Non importa. C’è un obiettivo più elevato da raggiungere.
Faccio un altro passo in avanti e per poco cado nel burrone che mi separa dallo sportello della cancelleria consolare. In fondo al precipizio una dozzina di simpatici coccodrilli del Nilo mi stanno aspettando per cena. Declino l’invito e mi preparo a superare anche questo ostacolo. L’altra riva è a solo un paio di metri di distanza. Ce la posso fare! Indietreggio di qualche passo, prendo la rincorsa, mi avvicino al ciglio del burrone e proprio mentre sto per saltare, l’impiegato (sì, sempre lui) mi fa lo sgambetto e io finisco giù. Cado come un salame. Finisco in acqua e poco prima di essere preda dei famelici coccodrilli perdo conoscenza.
Mi risveglio tutto bagnato. Incredibile:
sono vivo! Tuttavia non sono fradicio d’acqua, ma di sudore. Sono confuso e
agitato. Ci metto un po’ a riprendermi e a capire che sono nel mio letto. A casa
mia. A Stoccolma. Era solo un brutto sogno.
Mi alzo e accendo il computer. Vado
sul sito della polizia svedese. Prenoto un appuntamento per il lunedì successivo
ed eseguo il pagamento on-line. Puntuale e senza fare coda giungo allo sportello.
L’impiegato mi scatta una foto elettronica e firmo su uno schermo digitale.
Dopo una settimana m’informano via e-mail che il passaporto è pronto. Ritorno alla
stazione di polizia per il servizio drop-in e ritiro il documento nel giro di dieci
minuti.
Phew! Per fortuna che sono anche cittadino
svedese.
Driiin!
Driiiiiiin!
Non rispondono. Maledizione! Eppure le informazioni erano chiare: chiamare dalle 10.00 alle 10.05 per prendere appuntamento. È proprio quello che ho fatto, ma nessuna risposta.
Non mi arrendo così facilmente e allora mando un’e-mail al consolato. Ricevo subito un messaggio in automatico “Solo le prime tre persone della giornata che scrivono riceveranno risposta”. Neanche fosse una televendita di Mastrota.
Insisto e aspetto il giorno successivo. Compongo il numero giusto, mi sincronizzo con l’orologio atomico svizzero e appena scattano le ore dieci, zero-zero e zero centesimi schiaccio il tasto verde per chiamare di nuovo l’ambasciata. Dopo solo un paio d’ore di fila, durante le quali il mio orecchio è diventato una piastra elettrica dove ci puoi cucinare un uovo, qualcuno mi risponde: “Si ritenga fortunato che le rispondiamo”, mi ricordano quando abbozzo una lamentela per l’attesa. Spiego che mi serve il passaporto e l’impiegato mi dice stancamente che ho sbagliato il numero dell’interno. Dice che devo parlare con un suo collega e mi mette nuovamente in attesa. Aspetto solo trenta minuti e mi rispondono. È lo stesso impiegato di prima: “Ringrazi il cielo di essere italiano e di poter godere di questo servizio”, mi redarguisce. No, non finge di camuffare la voce per sembrare un altro (anche se me lo sarei aspettato), ma commenta semplicemente che il collega è impegnato. Consulta l’agenda cartacea e scarabocchia il mio nome. Bene, ho finalmente un appuntamento! D’ora in poi sarà una strada in discesa… senza freni.
Nel fatidico giorno arrivo alla cancelleria consolare armato di fototessere rigorosamente stampate da me seguendo il rigido protocollo del Ministero, documenti compilati e firmati secondo la prassi e il mio portafogli pieno di soldi. Pago la marca da bollo in contanti che faccio scivolare sotto il plexiglas come fosse una mazzetta. L’impiegato (lo stesso con cui ho parlato al telefono) prima commenta con una smorfia che non assomiglio a quello nella foto (e per forza, sono passati 3 mesi e tutta questa procedura mi sta togliendo anni di vita) e poi non mi rilascia né ricevuta né fattura. Lo spacciatore sotto casa mia ha la dichiarazione dei redditi più pulita dell’ambasciata.
Torno comunque a casa soddisfatto e comincio ad aspettare.
Aspetto ancora.
Aspetto ancora un po’.
Solo un pochettino… ino, ino, ino.
Poi arriva la tanto agognata lettera per posta. Me l’ha appena consegnata il diligentissimo piccione che si è posato sul mio davanzale. Il dispaccio recita: “Dottor Riva, il suo passaporto è pronto”. Grida di giubilo che giungono fino a San Pietro.
La cancelleria consolare è chiusa senza preavviso. Sulla porta c’è un cartello: “Sia grato che ci sia un’ambasciata italiana in questo paese dimenticato da Dio”. No, scherzo. C’è scritto: “Chiuso per l’anniversario della morte di Dante”. Non il sommo poeta, ma il vecchio e fedele custode che purtroppo è deceduto qualche anno fa. Ovviamente non si scusano per il disagio. Quello spetta solo a Trenitalia.
Ritorno dunque in ambasciata. Questa volta è aperta. Oltrepasso il portone. Ad attendermi c’è un drago alato che sputa fuoco. Schivo le fiamme grazie al mio scudo e poi affondo nel cuore del dragone la mia spada forgiata nella roccia delle montagne della Lapponia direttamente da Babbo Natale.
Ora mi ritrovo davanti a un fiume di lava importata dall’Etna per puro senso patriottico. Un ponte tibetano è l’unico passaggio per giungere sull’altro lato. Ho paura. Mi faccio coraggio pensando che il passaporto mi sta aspettando. Mi reggo alle funi, cerco di non guardare sotto e, un passo dopo l’altro, supero il fiume di lava. Qualche secondo dopo le funi che reggevano il ponte si bruciano e mi rendo conto che non potrò più tornare indietro a rivedere i miei cari. Non importa. C’è un obiettivo più elevato da raggiungere.
Faccio un altro passo in avanti e per poco cado nel burrone che mi separa dallo sportello della cancelleria consolare. In fondo al precipizio una dozzina di simpatici coccodrilli del Nilo mi stanno aspettando per cena. Declino l’invito e mi preparo a superare anche questo ostacolo. L’altra riva è a solo un paio di metri di distanza. Ce la posso fare! Indietreggio di qualche passo, prendo la rincorsa, mi avvicino al ciglio del burrone e proprio mentre sto per saltare, l’impiegato (sì, sempre lui) mi fa lo sgambetto e io finisco giù. Cado come un salame. Finisco in acqua e poco prima di essere preda dei famelici coccodrilli perdo conoscenza.
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