Piango. Sì, piango. Ogni ciclo emotivo
inizia, o finisce se si vuole, da un pianto. Le lacrime escono in abbondanza dai
miei occhi. Scendono lungo le guance e cadono sulla sabbia. Scavano dei solchi sulla
battigia e scorrono verso il mare. Si fondono con l’acqua e il sale. Le lacrime
e l’acqua del mare sono simili. Si riconoscono e si abbracciano come vecchie
amiche che si vogliono ancora bene.
Questo mi succede ogni estate, dopo un anno d’assenza dall’Italia, davanti alla vista del mare. Non mi trattengo davanti al rumore delle onde, il sapore della salsedine e il tepore dell’aria di casa. Fisso l’orizzonte, guardo l’Istria in lontananza dall’altro lato dell’Adriatico e ripenso a tutto quello che mi è mancato stando all’estero. La famiglia: i baci, gli abbracci, l’affetto, le riunioni, l’incontro tra i miei figli e i loro cugini, le nonne babysitter (gratis… alleluia!), le mance degli zii (che ti fanno sentire ancora un ragazzino). Il cibo: i baci (i cioccolatini), gli abbracci (i biscotti), gli affettati, le scorpacciate di pasta allo scoglio, le focacce, i gelati, le colazioni al bar (quelle dolci… non pane e formaggio), i vini, gli aperitivi, il prezzo degli alcolici. I vecchi amici: le chiacchierate infinite, le tavolate, gli scherzi, le prese per il culo, le risate, la conta dei figli, dei capelli bianchi e dei disoccupati. L’ambiente: le piazze gremite, il piacevole brusio delle persone che chiacchierano, le passeggiate in città storiche, l’arte, gli spettacoli teatrali in italiano, la spensieratezza della musica all’aria aperta, i passanti che ti ringraziano con la mano quando ti fermi con la macchina alle strisce pedonali (non come al nord Europa che ti guardano in cagnesco perché oltre a fermarti non hai abbassato il capo in segno di profondo pentimento).
Rimango immobile per qualche minuto piantato lì davanti al mare e penso a tutto questo. E piango. Di felicità. Di gioia per essere di nuovo in terra italica dopo l’ennesimo anno d’esilio.
Poi mi sposto perché la sabbia scotta. Già, perché in Italia fa caldo. Tanto caldo. Afa da morire. Umido e appiccicaticcio. Che sia nord, sud, ovest o est è una calura insopportabile… se non fa tempesta con acquazzoni e grandine grossa come canederli. Non importa. Dopo mesi di freddo si può sopportare. Mi siedo per leggere un buon libro in tranquillità. Ah che pace! No, il carretto del gelataio spara musica a palla dalle casse. I vicini sbraitano da un ombrellone all’altro spettegolando su parenti e amici. Dei bambini mi lanciano la sabbia in faccia correndo a fianco al mio sdraio. Va beh, torno a casa. La macchina è un fornelletto (come quello da quattrocento gradi che mi sono comprato per farmi la pizza… più buona di quella di tante pizzerie del nord Italia). Dopo un po’ di sano traffico arrivo al cancello di casa. Qualcuno ha lasciato la propria auto in sosta vietata davanti al mio passo carrabile. Dovrò parcheggiare da qualche altra parte ma per fortuna ci metto un attimo, giusto il tempo che fa decidere a mia moglie di mandare la mia foto a “Chi l’ha visto?”. Tornando verso casa evito svariate cacche di cane lungo il percorso, sfioro la morte in più occasioni perché nessun autista si ferma sulle strisce, inciampo un paio di volte sui sampietrini del marciapiede dissestato e arrivo a casa con la barba lunga. Ah, mannaggia! Mi sono dimenticato che oggi dovevo rinnovare la carta d’identità prima di ripartire per l’estero. Beh, ci vorrà un attimo, no? No. Il formato della foto che ho portato seguendo le indicazioni del sito del comune è sbagliato. Ce ne vuole un altro (il sito non è aggiornato). La cabina per fototessere automatica all’angolo è guasta. Lo svogliato impiegato comunale è mosso da compassione, ritaglia la foto che avevo e dice che va bene. C’è però un problema: la carta d’identità in formato tessera non è ancora disponibile. Procedendo in ordine alfabetico il Ministero dell’interno era quasi giunto alla lettera M ma poi è caduto il governo e non se n’è più fatto niente. Potrei avere il formato cartaceo (quello vecchio di cinquant’anni che pure in Niger ci deriderebbero) ma il cui rilascio è sotto la responsabilità dell’ambasciata italiana del mio stato di residenza. Ci manca solo che mi chiedano di passare prima dal notaio. In quel momento mi passano a fianco Asterix e Obelix che mi chiedono il lasciapassare A38. È il segnale che è meglio lasciare stare, userò il passaporto. Accartoccio la pratica e la lancio con stizza nel cestino. Ne approfitto per buttare anche il resto della spazzatura che avevo nel portaoggetti dell’auto. Torsolo di mela nell’umido. Bottiglietta d’acqua nella plastica. Fazzoletto nella carta. Tutto semplice. Poi le cose si complicano. Lattina nella plastica (perché?) Involucro di plastica non nella plastica, ma nel residuo secco (davvero, ma perché?). Il tetrapak di un succo di frutta nel… nel… dove? Non so. Chiamo mia madre a casa per chiedere. Mentre aspetto la sua risposta, le zanzare mi divorano e le mosche mi girano attorno in attesa che il mio corpo diventi una carcassa putrida. Non ci tengo. Nel frattempo è caduta la linea. Rinuncio a sapere la risposta e per la rabbia mi mangio il tetrapak come Rockerduck s’ingoia il cappello.
Basta! Non ce la faccio più. Devo andarmene. D’impulso prendo il primo volo di sola andata per il nord Europa e torno a casa. In un paio d’ore atterro. Esco il prima possibile dall’aeroporto spintonando gli altri passeggeri e respiro a pieni polmoni l’aria fresca di Ferragosto. Oddio, forse troppo fresca. Freddina. E pure piove. Ah no, è neve. Poco, ma nevica.
Piango. Davanti all’autobus che mi riporterà in centro piango. Le lacrime escono giusto in tempo per congelarsi sul mio volto. Si scioglieranno solo il prossimo anno. In luglio. Su una spiaggia dell’Adriatico del nord. E il ciclo si ripeterà… all’infinito.
Questo mi succede ogni estate, dopo un anno d’assenza dall’Italia, davanti alla vista del mare. Non mi trattengo davanti al rumore delle onde, il sapore della salsedine e il tepore dell’aria di casa. Fisso l’orizzonte, guardo l’Istria in lontananza dall’altro lato dell’Adriatico e ripenso a tutto quello che mi è mancato stando all’estero. La famiglia: i baci, gli abbracci, l’affetto, le riunioni, l’incontro tra i miei figli e i loro cugini, le nonne babysitter (gratis… alleluia!), le mance degli zii (che ti fanno sentire ancora un ragazzino). Il cibo: i baci (i cioccolatini), gli abbracci (i biscotti), gli affettati, le scorpacciate di pasta allo scoglio, le focacce, i gelati, le colazioni al bar (quelle dolci… non pane e formaggio), i vini, gli aperitivi, il prezzo degli alcolici. I vecchi amici: le chiacchierate infinite, le tavolate, gli scherzi, le prese per il culo, le risate, la conta dei figli, dei capelli bianchi e dei disoccupati. L’ambiente: le piazze gremite, il piacevole brusio delle persone che chiacchierano, le passeggiate in città storiche, l’arte, gli spettacoli teatrali in italiano, la spensieratezza della musica all’aria aperta, i passanti che ti ringraziano con la mano quando ti fermi con la macchina alle strisce pedonali (non come al nord Europa che ti guardano in cagnesco perché oltre a fermarti non hai abbassato il capo in segno di profondo pentimento).
Rimango immobile per qualche minuto piantato lì davanti al mare e penso a tutto questo. E piango. Di felicità. Di gioia per essere di nuovo in terra italica dopo l’ennesimo anno d’esilio.
Poi mi sposto perché la sabbia scotta. Già, perché in Italia fa caldo. Tanto caldo. Afa da morire. Umido e appiccicaticcio. Che sia nord, sud, ovest o est è una calura insopportabile… se non fa tempesta con acquazzoni e grandine grossa come canederli. Non importa. Dopo mesi di freddo si può sopportare. Mi siedo per leggere un buon libro in tranquillità. Ah che pace! No, il carretto del gelataio spara musica a palla dalle casse. I vicini sbraitano da un ombrellone all’altro spettegolando su parenti e amici. Dei bambini mi lanciano la sabbia in faccia correndo a fianco al mio sdraio. Va beh, torno a casa. La macchina è un fornelletto (come quello da quattrocento gradi che mi sono comprato per farmi la pizza… più buona di quella di tante pizzerie del nord Italia). Dopo un po’ di sano traffico arrivo al cancello di casa. Qualcuno ha lasciato la propria auto in sosta vietata davanti al mio passo carrabile. Dovrò parcheggiare da qualche altra parte ma per fortuna ci metto un attimo, giusto il tempo che fa decidere a mia moglie di mandare la mia foto a “Chi l’ha visto?”. Tornando verso casa evito svariate cacche di cane lungo il percorso, sfioro la morte in più occasioni perché nessun autista si ferma sulle strisce, inciampo un paio di volte sui sampietrini del marciapiede dissestato e arrivo a casa con la barba lunga. Ah, mannaggia! Mi sono dimenticato che oggi dovevo rinnovare la carta d’identità prima di ripartire per l’estero. Beh, ci vorrà un attimo, no? No. Il formato della foto che ho portato seguendo le indicazioni del sito del comune è sbagliato. Ce ne vuole un altro (il sito non è aggiornato). La cabina per fototessere automatica all’angolo è guasta. Lo svogliato impiegato comunale è mosso da compassione, ritaglia la foto che avevo e dice che va bene. C’è però un problema: la carta d’identità in formato tessera non è ancora disponibile. Procedendo in ordine alfabetico il Ministero dell’interno era quasi giunto alla lettera M ma poi è caduto il governo e non se n’è più fatto niente. Potrei avere il formato cartaceo (quello vecchio di cinquant’anni che pure in Niger ci deriderebbero) ma il cui rilascio è sotto la responsabilità dell’ambasciata italiana del mio stato di residenza. Ci manca solo che mi chiedano di passare prima dal notaio. In quel momento mi passano a fianco Asterix e Obelix che mi chiedono il lasciapassare A38. È il segnale che è meglio lasciare stare, userò il passaporto. Accartoccio la pratica e la lancio con stizza nel cestino. Ne approfitto per buttare anche il resto della spazzatura che avevo nel portaoggetti dell’auto. Torsolo di mela nell’umido. Bottiglietta d’acqua nella plastica. Fazzoletto nella carta. Tutto semplice. Poi le cose si complicano. Lattina nella plastica (perché?) Involucro di plastica non nella plastica, ma nel residuo secco (davvero, ma perché?). Il tetrapak di un succo di frutta nel… nel… dove? Non so. Chiamo mia madre a casa per chiedere. Mentre aspetto la sua risposta, le zanzare mi divorano e le mosche mi girano attorno in attesa che il mio corpo diventi una carcassa putrida. Non ci tengo. Nel frattempo è caduta la linea. Rinuncio a sapere la risposta e per la rabbia mi mangio il tetrapak come Rockerduck s’ingoia il cappello.
Basta! Non ce la faccio più. Devo andarmene. D’impulso prendo il primo volo di sola andata per il nord Europa e torno a casa. In un paio d’ore atterro. Esco il prima possibile dall’aeroporto spintonando gli altri passeggeri e respiro a pieni polmoni l’aria fresca di Ferragosto. Oddio, forse troppo fresca. Freddina. E pure piove. Ah no, è neve. Poco, ma nevica.
Piango. Davanti all’autobus che mi riporterà in centro piango. Le lacrime escono giusto in tempo per congelarsi sul mio volto. Si scioglieranno solo il prossimo anno. In luglio. Su una spiaggia dell’Adriatico del nord. E il ciclo si ripeterà… all’infinito.
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