È
notte. Fuori fa freddo. Fulmini squarciano il cielo. I lampi illuminano la
città e i tuoni spaccano i timpani. La pioggia cade fitta e bagna le coscienze
della gente. A parte il temporale tutto tace.
La
mattina seguente, come previsto, la sveglia suona. Sono le otto. Schiaccio il
tasto e la pospongo di dieci minuti. La sveglia suona di nuovo. La spengo e
torno a dormire: in fondo è il mio quarantacinquesimo compleanno, me lo merito.
Sto per riprendere sonno quando un monitor ai piedi del letto si accede di
colpo e una nota voce femminile mi ordina di alzarmi. Era inevitabile. Speravo
di poter dormire, ma il monitor di sorveglianza non lascia mai scampo. Non dà
mai tregua. Allora mi alzo e a piedi nudi vado verso il bagno. A metà strada il
monitor parla di nuovo: «con le pantofole!» Torno indietro ed eseguo. «Prima
fai il letto.» Non ho scampo. Il monitor vede tutto. Sbuffo infastidito e
sussurro «che palle» a denti stretti. «Ti ho sentito, sai!» Il monitor vede e
ascolta tutto. Finito di rassettare il letto, posso finalmente andare a fare
pipì e sciacquarmi il viso. Scendo le scale e arrivo in cucina dove mi aspetta
la colazione. Inizio a mangiare ma a metà lascio perché non ho appetito. «Finisci
tutto!» Il monitor dei fornelli non aspetta un secondo di più. «Non ho fame…»
«Hai bevuto ieri, vero?» «No.» «Bugiardo. Barcollavi ieri notte… e sei anche
rientrato più tardi del previsto» «C’era traffico.» «Alle quattro del mattino?»
Non rispondo e mi alzo per uscire. Il monitor dell’ingresso parte con la solita
lista di domande «Vai fuori? Hai preso il pranzo che ti ho preparato? Ti sei
messo la maglia di lana sotto la camicia che ti ho stirato? Guarda che fuori
piove, hai preso l’ombrello? Fuori fa freddo, ti sei coperto bene?» Rispondo di
sì a tutte le domande. Ad alcune ho mentito. Prendo la giaccia e finalmente
esco. Il monitor dell’uscio mi urla: «hai dimenticato la sciarpa e il berretto…
ti ho detto che fa freddo!» Rientro in fretta, predo gli indumenti e saluto.
«Fai il bravo, mi raccomando.» Cammino in fretta. Ormai la casa dei miei
genitori è lontana. No, non l’ho ereditata. È ancora casa loro. Sì, vivo ancora
con loro. Ora però sono fuori. No, non vado al lavoro. Non ho un lavoro. Vado al
bar dell’università. Lì trovo tutti gli altri miei coetanei studenti fuori
corso che chiacchierano beatamente tra di loro, bevono tre caffè all’ora,
leggono almeno due volte tutti i giornali sportivi a disposizione. Questo è il
nostro lavoro. Così ogni santo giorno, tranne il sabato e la domenica, quando
si fa il tour dei parenti. A tutti va bene così. No, non a tutti: a me no. Non
posso però dirlo a nessuno. Il monitor ha occhi e orecchie dappertutto. Il
monitor ha alleati e spie ovunque. Devo stare attento. Così recito la mia
parte: scambio pacche sulle spalle ai miei compari, ordino un macchiato, fingo
di leggere le notizie sportive mentre penso alla mia prossima mossa. Poi la
vedo. Oh, finalmente è arrivata: è la mia ragazza. Le lancio uno sguardo complice.
Lei risponde. Nessuno ci vede. Allora lei si alza ed esce nei corridoi
dell’università. Dopo una decina di minuti mi alzo anch’io. Ordino e bevo un
altro caffè. Dico agli amici che devo andare in bagno. Prendo il corridoio, mi
guardo attorno velocemente e invece di entrare nella toilette, giro a sinistra
e m’infilo nel buio sottoscala. Ad attendermi c’è la mia ragazza. Ci baciamo in
silenzio. Lei cerca di dirmi qualcosa, ma io sento qualcuno scendere le scale,
così la zittisco con un altro bacio. «Per quanto dovremo stare nella
clandestinità?» la mia ragazza bisbiglia preoccupata. «Te l’ho detto, manca
ancora poco. È quasi tutto pronto.» «Me lo dici ogni volta…» Alzo gli occhi al
cielo sapendo che lei non mi vede perché siamo al buio. «Fidati di me. Sto sistemando
gli ultimi dettagli. Sta andando un po’ a rilento perché il monitor non mi
lascia respirare.» «Ma perché non puoi semplicemente presentarmi a casa?»
«Ancora con questa storia?» Alzo un po’ troppo la voce e mi zittisco da solo
«Il monitor non approverebbe: ha un giudizio molto severo.» «Stiamo assieme da quindici
anni… che cosa dobbiamo ancora aspettare?» «Lo so. Abbi pazienza. Fidati,
bisogna fare come dico io: nel pomeriggio incontrerò una persona che ci
aiuterà… ora però devo andare. Sono stato via troppo tempo, potrebbero
sospettare. Ci vediamo domani.» Ci baciamo di nuovo e poi usciamo dal
sottoscala in tempi diversi. Nessuno nota niente. Di sera torno a casa. Il
monitor del salotto mi saluta e attacca con la solita solfa: «come è andata a
scuola? Hai passato gli ultimi esami? Ti vedo sciupato, hai mangiato a pranzo?
Mangi le lasagne per cena? Non penserai mica di uscire anche stasera, vero?» La
voce non sembra voler sentire una risposta, quindi ne farfuglio una quasi
incomprensibile e vado di sopra a cambiarmi. Quando scendo di nuovo alle sette,
con mia grande sorpresa, la tavola non è preparata. Il monitor della cucina mi
fissa. «Che succede?» Chiedo preoccupato. «Tranquillo, non ti faccio niente.»
Questa risposta m’inquieta ancora di più. «Dove sei stato oggi pomeriggio?» «In
biblioteca a studiare.» Rispondo il più tranquillamente possibile. «Balle! Sì,
eri in biblioteca, ma non tutto il tempo.» «Non capisco...» Il monitor non mi
dà il tempo di spiegare. «E quanto sei stato in bagno stamattina al bar?» «Oh
andiamo, ora cronometri anche i minuti per fare pipì?» «No, non lo faccio,
perché non hai fatto la pipì stamattina al bar!» Il monitor fa una pausa poi
riprende. «Come lo so? Me l’ha detto la mia amica, la cameriera.» Maledetta
Concetta, avrei dovuto fare più attenzione. «E come so che non eri tutto il
tempo in biblioteca? Perché so che eri in banca!» Deglutisco nervosamente e
resto in silenzio. Il monitor si avvicina e punta il dito contro di me. «E cosa
facevi in banca? Cercavi di ritirare contante per pagare l’affitto di un
appartamento in periferia.» Come diavolo fa a saperlo? Quello stronzo allo
sportello deve aver fatto la spia in cambio di una crostata alle albicocche. Non
dovevo fidarmi di lui. «E a cosa ti serviva l’appartamento? Per andarci a
vivere con la tua fidanzatina! Con quella poco di buono…» Sono spalle al muro
ma provo l’ultima difesa: «Sono grande ormai, posso decidere da solo…» «Zitto!
Non provare a giustificarti… mi hai deluso! Ho già provveduto a bloccarti il
conto in banca. Questo però non basta, ovviamente. Per punizione vai subito in
camera tua, a letto senza cena… e guai a te se scopro ancora che parli con
quella ragazzaccia. Non la vedrai più. Ho parlato anche con i suoi genitori e
sono d’accordo. Fila di sopra!» A testa bassa salgo le scale. Il monitor della
camera mi ordina di entrare e poi chiude la porta alle mie spalle. Da solo e al
buio, piango silenziosamente rannicchiato sul letto. La Grande Mamma sente e
vede tutto. La Grande Mamma non perdona.
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