mercoledì 20 novembre 2024

ITALIENAREN – Movember

Sul palmo della mano sinistra riposa una montagnola bianca e soffice. Nella presa salda della mano destra tengo uno strumento affilato. Mi guardo allo specchio e mi spalmo con foga la schiuma sulla superficie della faccia dalle basette e dalle narici in giù. È un’operazione che non eseguo molto spesso e mi sento un po’ impacciato. Tagliare la barba non è il mio forte. Mi concedo questo momento solo per situazioni eccezionali come un matrimonio (solo per il mio) e per entrare in un personaggio teatrale durante gli spettacoli. Passati gli eventi, abbandono subito la pratica per pigrizia e ritorno allo stato brado. Ho da poco però scoperto un’altra iniziativa molto importante che ha richiamato la mia attenzione: Movember[1], un neologismo sincratico – anche detto parola macedonia – che unisce le parole Moustache e November. È un evento annuale a scopo benefico che si svolge nel mese di novembre nel quale gli uomini che vi aderiscono (chiamati Mo bro) si fanno crescere i baffi per sensibilizzare l’opinione pubblica sul carcinoma della prostata.
Un’occasione lodevole da cogliere al volo ora che, con la schiuma spalmata, sembro Babbo Natale o un pagliaccio preso a torta di panna in faccia. Partendo da una barba alla Leonardo di Caprio in The Revenant la scelta è ampia e mi permette diversi tipi di baffi. Comincio a togliere le basette e i peli ispidi dalle guance fino a lasciare un pizzetto alla Edward Norton. Accosto la lama del rasoio al lato delle labbra ma poi mi fermo. Tentenno. Ci sono molti stili di baffo. Difficile scegliere. Cerco su internet per trovare ispirazione e vado.
Taglio la barba sotto e sopra il mento e lascio due linguette, una sotto il lato destro e una sotto il lato sinistro della bocca. Ecco un baffo a ferro di cavallo alla Hulk Hogan, James Hetfield dei Metallica o di un biker con l’Harley Davidson. Fletto i muscoli e sfodero indice, mignolo e pollice a forma di corna. Mi sento molto cool, ma questo vestito peloso non mi si addice. Sad But True.
Rado ancora e mi trasformo in un tricheco con un bel paio di baffi folti che escono da entrambi i lati della faccia e coprono tutta la bocca. Mi do un’aria da letterato alla Mark Twain o da filosofo alla Nietzsche. No, cercare di essere un Superuomo e un Nichilista è un peso troppo grande.
Accorcio un po’ ed eccomi scaraventato alla fine del IXX, inizio XX secolo, nell’Impero austro-ungarico. Davanti a me non vedo più la mia faccia, ma quella di Francesco Ferdinando. Hm, meglio evitare di finire come lui e scaturire l’inizio della Terza Guerra Mondiale.
Aggiusto un po’, arriccio all’infuori e all’insù con un’abilità che stupisce anche me stesso. Ormai ci ho preso mano e ho appeno rifinito dei baffi a manubrio. Vittorio Emanuele II, Buffalo Bill e lo stereotipo dell’uomo messicano sarebbero orgogliosi di me. Mi rendo conto però che non raggiungerò mai Salvador Dalì quindi meglio andare oltre.
Aggiungo un po’ di schiuma e passo con la lama di qua e di là: stupendi, mitici, eccezionali. Mi viene voglia di cantare e trasformo il rasoio in un microfono. Con questi mustacchi a V rovesciata che coprono di poco il labbro superiore mi sono proprio liberato e ora sono un campione. Sono Freddie Mercury. Nah, meglio abbassare i toni. Questi baffi chevron non mi fanno assomigliare tanto né a lui né tantomeno a Tom Selleck in Magnum P.I. Peccato. Sbuffo e proseguo la mia ricerca: Lo spettacolo deve continuare.
Riduco ancora di più verso le narici e, voilà, ecco un baffo a spazzolino come Charlie Chaplin e Ollio. Sorrido, ma poi mi passa. Nessuno penserà a loro due ma a un altro personaggio di moda in Germania negli anni ’40 del secolo scorso e purtroppo di nuovo in voga ora, negli anni ‘20 di questo secolo.
Non mi resta che lasciare un filetto di peli attaccato al labbro, ben curato e molto elegante dallo stampo classico. Non riuscirò a essere a Zorro, Gomez Addams o Clarke Gable, non solo perché mi manca lo smoking giusto o il mantello, ma soprattutto perché ormai ho tolto la parte di baffo verso l’estremità delle labbra per completare lo stile a fiammifero. Che tristezza.
Tutte queste associazioni di nomi, personaggi affascinanti e mostri sacri della storia mi hanno dato alla testa. Così, mi scappa la mano e tolgo ancora un altro pezzo di baffo. Nel processo mi procuro un taglietto che tampono subito con pezzi di carta igienica. La frittata è fatta. Ora devo togliere tutto e rimanere sbarbato. Ci riproverò il prossimo anno ad aderire a Movember. Nel frattempo faccio una donazione dal sito: offerta baffuta, sempre piaciuta.
 
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Ecco il link all’articolo su Italienaren - Il lavoratore:
https://italienaren.org/movember/
[1] https://se.movember.com/

mercoledì 13 novembre 2024

RACCONTI – Il tempismo delle idee

Sono disteso supino. Inspiro ed espiro sempre più lentamente. Il calore del mio corpo viene trattenuto dalle coperte e mi lascia in un dolce tempore. Le gambe e le braccia sono pesanti, allungate sopra il materasso. Il battito cardiaco decelera e la mente comincia a percorre la porta di transito tra la veglia e il sonno. Ho girato la maniglia e ho fatto il primo passo sulla soglia. Ci sono quasi. Tra pochi secondi sarà domani mattina.
I muscoli si rilassano e faccio un altro passo avanti, ma inciampo su qualcosa. Il cuore ricomincia a corre e la frequenza del respiro aumenta. Guardo bene cosa mia abbia fatto perdere l’equilibrio. È un cubo a forma sferica, con spuntoni che urlano parole incomprensibili, in due dimensioni. Lo guardo meglio: ora è un triangolo isoscele, con cinque angoli e due diametri, in tre dimensioni che si muove nel tempo. I muscoli del corpo s’irrigidiscono. Tutta la mia attenzione si dirige verso l’oggetto. Ora è un fiume di lettere in piena che striscia all’indietro, cadendo da una cascata di canzoni ad altissimo basso volume.
Ho capito di cosa si tratta: ho appena avuto un’idea. Lascio la porta verso il regno dei sogni alle mie spalle e torno indietro. Gli occhi si spalancano nel buio della camera. Sento il respiro di mia moglie al mio fianco. Riprendo coscienza della mia posizione nello spazio.
Non posso riprendere sonno prima di aver annotato da qualche parte quello che mi è venuto in mente, altrimenti rischio di perderlo tra le lenzuola, tra le nuvole di zucchero filato o nell’archivio impolverato del cervello. Non ho scelta, devo uscire dal letto.
Colto da un’agitazione febbricitante, do acqua al semino dell’idea e la vedo crescere in fretta in un progetto abbozzato. È un germoglio piccolo e insicuro, ma ho già molte aspettative e speranze. Metto un piede fuori e il gelo della stanza mi aggredisce. Esco con le gambe, spostando la coperta di quel poco che basta per non far svegliare mia moglie e mi infilo al volo le ciabatte. Cerco a tentoni gli occhiali e dopo un primo tentativo nel quale la stanghetta mi finisce nell’occhio, li inforco. Devo sbrigarmi altrimenti l’idea perderà d’intensità. Vedo il contorno della porta ora che le pupille si sono dilatate. Seguo il bordo del letto con una mano e con l’altra cerco l’armadio per orientarmi. Smanioso di buttare giù un appunto che plachi la mia irrequietezza, sbatto l’alluce contro la base del letto. Bestemmio in silenzio mentre mia moglie si rigira mugugnando qualcosa di incomprensibile. Faccio un paio di passi e giungo alla porta. Con cautela apro, entro in salotto e richiudo dietro di me. Posso tirare un sospiro di sollievo. Mi affretto in cucina dove mi aspettano un blocco di fogli e una penna a sfera. Scrivo senza pensare, come se fosse un’eruzione vulcanica. Annoto cubi, piramidi, fiumi in piena, lettere e parole, musica, pioggia di cristalli e colline di margherite – tutto.
Mi fanno male le dita della mano per quanto ho stretto la penna. Una goccia di sudore cola dalla fronte. Quando ho finito sono esausto ma soddisfatto. Mi chiedo se si sentano così i tossicodipendenti con una dosa dopo una crisi d’astinenza. Coccolo la nuova idea come un neonato dal sorriso dolcissimo. Nei prossimi giorni ci sarà tempo per cambiargli il pannolino. Ora si può sognare a occhi aperti, prima di godersi di nuovo un meritato sogno a occhi chiusi.
Il giorno dopo sono sotto la doccia. L’acqua è tiepida e il flusso mi massaggia la pelle. Starei qua dentro per delle ore. Mi rilasso e lascio andare il treno dei pensieri. Schivo un paio di preoccupazioni e di scadenze da rispettare e divento tutt’uno con l’acqua che scorre. Si sta così bene: è caldo e sono pulito. Nonostante io non abbia mosso la mano, all’improvviso il getto d’acqua cambia direzione e mi finisce in faccia, assieme a pezzi di puzzle, bulloni e ingranaggi vari. Era quello che mi mancava nel nuovo progetto. Raddrizzo la schiena e sgrano gli occhi. Mi giro da una parte e poi dall’altra nello spazio ristretto della cabina nel goffo tentativo di appoggiare il doccino. Devo trovare una penna. Devo scrivermelo. Non posso dimenticarmelo. Devo registrare l’appunto. Mi sembra di essere in una scena del film “Memento”. Devo afferrare una penna il prima possibile e buttare giù su foglio l’idea prima che finisca risucchiata nello scarico. In fretta e furia, chiudo l’acqua, mi asciugo alla meno peggio ed esco dal bagno gocciolante. Mi getto a pesce sul blocco degli appunti e scrivo a caldo. Ci sarà tempo per asciugare le scie che ho lasciato e per subire un cazziatone da mia moglie. Avevo bisogno della mia dose.
Nel pomeriggio, sono le quattro e tre quarti, devo uscire di casa per correre a prendere i bambini. Sono già in ritardo. Mi metto le scarpe e il giubbotto. Afferro le chiavi e sono pronto a uscire. Uno strano formicolio parte dal collo e si estende al petto. Passa alla schiena, scende sulle gambe e infine ai piedi. Devo slacciare le scarpe e toglierle. Il formicolio risale il corpo fino alle braccia. Devo togliermi anche il giubbotto. Le mani mi tremano e mollo le chiavi sul mobiletto d’ingresso. Sbatto la testa contro il muro un paio di volte finché da una fessura ne esce una lunga stringa di parole alla rinfusa che cominciano a volare via. Le inseguo per l’appartamento. Mi sfuggono due volte di fila ma alla terza raccolgo tutto e lo spingo a forza dentro il retro di una penna bic. Prima che scappino fuori di nuovo, prendo un quaderno e butto giù il più velocemente possibile tutto quello che l’inchiostro ha da offrire. Mi sembra sia passato un minuto, in realtà ne sono trascorsi venti. Trasalisco alzando gli occhi verso l’orologio. Avrei dovuto essere a scuola dai bambini cinque minuti fa. Rimpiango di non essere Spock e impreco contro l’umanità per la mancanza dell’invenzione del teletrasporto.
Il giorno dopo, al lavoro, tutto il personale è raccolto per la settimanale generalissima riunione aziendale – da leggersi con la voce di Fantozzi – la quale ha il potere magico di trasformare i marroni dei presenti i noci di cocco giganti. Lottando contro la forza di gravità delle palpebre mi guardo attorno e noto un collega perdere lo sguardo oltre la finestra verso il nulla del cielo grigio, un altro annuisce a ritmo sintonizzato su una canzone che gli passa per la testa e non sul discorso del capo e infine un’altra ancora che sbircia sul cellulare usando il foglio con l’ordine del giorno come scudo protettivo contro i raggi X del datore di lavoro. Bene, sono in buona compagnia. Sto per tornare a lottare contro Morfeo ma abbozzo un sorriso quando mi accorgo che i colleghi si stanno trasformando in animali parlanti, la stanza in una stalla e il pavimento in letame. Mi devo dare un pizzicotto sul braccio per assicurarmi di non essermi davvero addormentato e per ricordarmi che purtroppo non sono sotto l’effetto di sostanze allucinogene. Prendo la penna dal taschino e annoto tutto sul retro dell’ordine del giorno. Ho l’accortezza di fingere di ascoltare quello che dicono gli altri e di non scrivere durante le pause della discussione. Scrivo di getto tutto e il brusio della riunione sparisce nel sottofondo, sovrastato dal baccano della mia idea.
Il resto del giorno si adegua e invece di rispettare la scadenza di un compito importante ma noioso, il progetto alternativo nato durante la riunione prende il sopravvento, facendomi perdere tempo e il lavoro, se dovessero beccarmi.
A fine giornata torno a casa in bici. È già buio e la pioggerellina rende l’aria umida e nebulosa. La visibilità farebbe invidia alla Pianura Padana in novembre. Meglio attivare tutti i sensi. Non sono Spiderman ma per girare sulle strade della città senza pista ciclabile e senza rischiare la morte dovrei diventarlo. Frenando di colpo evito un ciclista che mi taglia la strada. Un’automobile corre troppo vicina al marciapiede e mi schizza l’acqua addosso passando sopra una pozzanghera marrone. Sovrappensiero sto per sbagliare strada e all’ultimo secondo svolto a sinistra. Un fascio di luce mi inonda e mi acceca. Spalanco gli occhi invece di socchiuderli. Non è un autobus o un tir che mi sta investendomi mandandomi al creatore, ma un'altra illuminazione creativa. Mancano ancora un paio di chilometri a casa e la devo trattenere fino a quando mi potrò fermare a scrivere. Potrei farlo qui e ora ma la pioggia cade più fitta e maciullerebbe la carta. Il cellulare è scarico e voglio andare a casa. Tiro la coperta corta della mia attenzione una volta verso l’idea per tenerla in vita e una volta verso la strada per tenermi in vita. Con questa alternanza spingo anche sul pedale destro e sul sinistro. Vado avanti così finché giungo a casa sano e salvo. Mi guardo alle spalle per controllare di non aver perso guanti, berretto o dettagli del concetto che ho sviluppato in testa e mi precipito a casa. Prima ancora di salutare moglie e bambini, sto già appuntando tutto prendendomi il tempo necessario e arrivando tardi per cena. Sono così concentrato che non sento gli schiamazzi dei bimbi e gli insulti della mia compagna.
Dopo il pasto sopraggiunge un nuovo stimolo. Questa volta è fisico e devo scappare in bagno. Mi siedo sulla tazza. Per una volta tanto ho lasciato il cellulare in salotto di proposito e così rifletto sulla giornata e sulla vita. I pensieri svolazzano liberi tra le mattonelle bianche davanti a me. Alcune si organizzano, altre si oscurano in blocchi neri e tutte insieme formano un cruciverba gigantesco e difficile come quello di Bartezzaghi sulla settimana enigmistica. Le associazioni si allineano e si compongono come i calcoli matematici dei geniacci nei film americani. Mettendo assieme parole e concetti, spingendo da una parte e dall’altra, viene fuori qualcosa di grosso. I maligni credono di sapere da dove sia uscito ma si sbagliano. È qualcosa che aspettavo da tutto il giorno ma che non aveva ancora trovato lo sfogo. Sono soddisfatto del risultato ma non ho penna con me e l’unica carta a disposizione è quella igienica. È poca ma mi accontento e la uso tutta. Ancora una volta sono riuscito a mantenere viva un’idea prima che scappasse via. A come pulirmi le natiche dalla cacca ci penserò più tardi.

giovedì 7 novembre 2024

ITALIENAREN – Bruno

Oggi ho visto un orso!
Si muoveva lento e silenzioso verso la sua meta: del dolcissimo miele d’acacia. Non potevo credere ai miei occhi perché non è facile vederlo in giro in questo periodo e quest’ora del giorno. Si spostava con circospezione adagiando tutto il suo peso prima sugli arti destri e poi su quelli sinistri, seguendo la tipica camminata ciondolante come se fosse una danza ubriaca. Maestoso e un po’ goffo allo stesso tempo. La sua pelliccia folta e arruffata, che lo proteggeva dal freddo e dalle intemperie della giornata uggiosa, lo rendeva simpatico. I denti aguzzi, con resti di radici e foglie incastrati tra un incisivo e il canino, però ricordavano a tutti di stargli alla larga.
All’orso bruno piace stare da solo, soprattutto mentre mangia. Oggi non faceva eccezione. In pochi minuti, infatti, sotto il mio sguardo allibito, si era divorato tutto il miele. Poi si era trangugiato una bella manciata di noci e semi emettendo vocalizzi d’eccitazione dalle tonalità basse. Infine si era sbafato anche due mele e una pera. Tutta roba trovata nelle tasche del mio giubbotto che avevo malauguratamente lasciato incustodito alla sua facile portata. Non soddisfatto si era messo ad annusare in giro, probabilmente in cerca di bottini più grossi. Avrei voluto fermarlo, farlo scappare, magari muovendo un ramo o urlando ma avevo preferito lasciarlo in pace per continuare ad osservarlo con attenzione nella speranza che non mi avrebbe notato. È vero che è di indole pacifica e diffidente, ma può attaccare se disturbato o sorpreso a breve distanza.
Dopo aver cercato invano altro cibo, si era adagiato sul fianco in cerca di ristoro, proprio sotto il rifugio dove mi ero sistemato per studiare i suoi comportamenti. Era probabilmente l’ennesimo riposino della giornata nella sua tana. Non potevo muovermi e avrei dovuto aspettare il suo risveglio fino alle ore crepuscolari se non fosse che l’arrivo dei suoi cuccioli lo avevano distolto dalla pacchia in panciolle. Con i loro schiamazzi e giochi incontrollati i piccoli lo avevano reso nervoso. Lo sentivo diffondere ripetutamente profondi e prolungati brontolii (definiti “ruglio”) nel tentativo di controllare senza successo la vivacità della prole. Nonostante fossi ben al sicuro dai suoi possenti artigli, avevo cominciato ad allarmarmi, impaurito di non poter più andare via.
L’occasione per uscirne sano e salvo però sarebbe arrivata poco dopo quando l’orso era stato costretto dalla sua partner ad andare a scovare qualche buon fungo e procacciare un bel pezzo di carne fresca per lui e la famiglia. Lasciando la tana doveva schivare le tante pozzanghere formatesi durante questa stagione della pioggia e le sue capacità di abile nuotatore tornavano utili nella circostanza. In poco tempo era tornato nel suo covo con la cena. Almeno così la giornata aveva avuto un senso.
Sì, oggi ho visto un orso. L’ho osservato tutto il pomeriggio avvolto nei vestiti del giorno prima, con la barba incolta, i capelli spettinati, assonnato, con poca voglia di lavorare e men che meno di incontrare altri individui. Gli capita spesso da quando fuori è grigio, piove e comincia a far freddo, soprattutto perché sta a casa più spesso del solito, troppe volte tentato dal divano e da altre distrazioni. Povero orso, fa quasi tenerezza. È ancora qui, davanti a me, mentre lo guardo allo specchio.
 
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venerdì 1 novembre 2024

ITALIENAREN – Angolo di paradiso

Passeggio con la testa immersa nei miei pensieri e nelle preoccupazioni. Lo sguardo è basso rivolto ai sampietrini di questa stradina di Södermalm. Dal nulla si alza un refolo di vento e sposta in avanti le foglie lungo il pavé. Un altro colpo le porta in alto e mi costringe a seguirle con gli occhi. Le foglie autunnali dalle mille gradazioni di giallo e arancione svoltano all’improvviso a sinistra, giù per una scala di legno, poi a destra tra le fronde degli alberi e lungo un percorso sterrato. Il vento mi spinge a seguire il fogliame che infine si libera e danza nell’aria limpida a contatto col pallido sole dell’ottobre stoccolmese. Come spesso mi succede, quasi senza accorgermene, arrivo all’improvviso in questo posto magico in pieno centro. Camminando lungo il sentiero ghiaioso, mi ritrovo la città sbattuta in faccia. Ci sono dentro e allo stesso tempo mi sembra di esserne fuori, distante, in un percorso parallelo. Mi sembra di stare sopra la città e di guardarla come se fosse un soprammobile comprato in un negozio di souvenir. È una sensazione che mi coglie sempre di sorpresa. Rimango ammaliato dalla bellezza di Gamla Stan, dell’imponenza dello Stadshuset coi suoi mattoni rossi. Gli occhi si spostano a destra e sinistra e il sorriso si allarga tra le labbra: seguo tutto il Norrmälarstrand fino allo slanciato Västerbron in lontananza. Mi fermo ad accarezzare un gatto che, accovacciato sul passamano di legno, fa le fusa a tutti i passanti, senza eccezioni. Dal lato opposto dell’orizzonte scorgo i tetti del palazzo reale che nascondono Djurgården e Östermalm. Nel contorno della città svettano le guglie delle chiese, le torri radio, le immancabili gru di una capitale sempre in costruzione e le due nuove torri di “Sauron” a Torsplan. Riprendo a camminare e mi diverto a indovinare da quale paese provengano i tanti turisti presenti sul percorso. Ascolto le loro lingue e le loro espressioni stupite. Riconosco gli italiani dal loro modo di muoversi e di vestirsi ancora prima di sentirli parlare. Scatto una foto a chi me lo chiedo e ributto lo sguardo oltre il precipizio dove trovo lo specchio d’acqua che mi riflette e mi fa riflettere. Questo posto magico è nascosto, ma molti sognatori riescono comunque a trovarlo a occhi chiusi. Scorro la mano sui lucchetti agganciati sulla rete metallica e provo anch’io un rinnovato amore per una città che mi sta dando filo da torcere in questo periodo. Dall’alto osservo le automobili sfrecciare sul Centralbron come delle Micro Machines uguali a quelle che avevo da piccolo, ogni tanto passa il treno come in un modellino che gira in cerchio all’infinito. Perso nelle mie fantasie mi scanso all’ultimo secondo per far passare una coppia di anziani che si tiene per mano. Immagino le case del paesaggio fatte di mattoncini Lego multicolori e i palazzi più importanti come miniature rubate al museo civico. I passanti in fondo alla scarpata sono formichine e le barche sembrano radiocomandate da qualcuno nascosto tra i parchi o gli appartamenti dai prezzi esorbitanti alle mie spalle. Le foglie gialle – mi piace pensare che fossero le stesse di prima – spinte ancora dal vento, ballano davanti al mio volto rilassato e mi riportano sulla strada principale.
Sono bastati cinquecento metri di passeggiata in questo posto tanto semplice quanto incantato per dimenticare ansie e paure. Quanto tempo è passato dall’inizio della camminata? Non ne ho idea e non è importante. È proprio questo l’effetto che fa questo terrazzo che sporge dalla e sulla città e mi proietta oltre i limiti osservabili dai miei sensi. Mi scuoto dal sogno e riprendo il passo spedito lungo Bastugatan. La mia pausa pranzo è finta, devo andare. Alla prossima volta, cara Monteliusvägen.
 
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giovedì 24 ottobre 2024

ITALIENAREN – Come ci vedono

Sto bighellonando su internet dopo aver messo a letto i bambini con molta fatica. Leggo qualche notizia, scrivo un’e-mail, ascolto della musica e guardo un video divertente. È sera tardi e sono stanco. Come passa il tempo quando sei improduttivo e ozioso. Dovrei già essere a letto, ma il maledetto algoritmo di Facebook mi tiene incollato allo schermo fornendomi rinforzi mentali intermittenti, cioè una notizia interessante ogni cinque di spazzatura. Alla fine afferro la mia spada laser e con tutta la forza di volontà rimasta sferzo un colpo deciso contro Mark-Darth-Vader Zuckerberg. Lo metto sotto, ma lui ribatte, non con un altro colpo di spada o una citazione trita e ritrita su chi sia mio padre, ma con un video. Un video potentissimo che mi disarma e mi lascia senza parole.
Mi devo fermare. Trattengo il dito dallo schiacciare il bottone di spegnimento del computer. Tolgo il muto dall’audio e premo play. Parte subito una base musicale campionata e sullo schermo compaiono personaggi improbabili in pieno stile anni ’80: un uomo dai capelli scuri, lunghi e unti, vestito con camicia e pantaloni bianchi che ostenta un petto villoso; una donna dai capelli cotonati e pantaloncini in jeans corti e strappati; uno strumentista giovane acqua e sapone armato di pianola elettrica a tracolla – la Keytar – e un altro con gli occhiali da sole che finge di suonare la batteria elettrica. Le immagini sono volutamente distorte per sembrare di bassa qualità. Dopo un attimo di confusione capisco che si tratta di una pubblicità per la giornata dedicata al Kanelbulle del Pressbyrån, una catena di negozi svedese di vendita al dettaglio che si trova in ogni angolo della città e soprattutto alle uscite delle fermate della metropolitana. Niente di strano fin qui per chi, come me, è cresciuto a pane e kitsch. Lo sbalordimento sopraggiunge quando mi accorgo che i protagonisti di questo revival cantano in italiano. Il testo fa ripetuti riferimenti ai panini dolci alla cannella di “Pressburoni” che il cantante ama più di sua madre, che sono la passione dell’altra cantante e che sono dolcissimi e buonissimi. Il tutto condito con un miscuglio di parole che suonano italiane ma che non lo sono[1].
Va bene che vivendo all’estero, e non solo, ormai si è abituati e si convive più o meno pacificamente con gli stereotipi italiani, ma con questo geniale video musicale gli svedesi hanno raggiunto limiti invalicabili che neanche la sonda spaziale Voyager 1 potrà mai superare. Eppure in tutti questi anni spesso molti svedesi, quantomeno nei loro sogni stereotipati, ci sono andati vicini. Molte volte siamo stati tacciati a priori come simpatici, rumorosi, vanitosi, affascinanti e inaffidabili mammoni che si esprimono come dei primitivi a gesti, sorrisi e versi incomprensibili ad alto volume. Abbiamo dovuto spiegare che non esistono solo Roma, Milano e Venezia… e Rimini (l’ultima per gli svedesi di una certa età). Spesso abbiamo dovuto difenderci dalle accuse di essere una nazione, sportivamente e non, di imbroglioni e simulatori. Altrettanto spesso abbiamo dovuto abbassare lo sguardo e concordare che la precedente osservazione fosse vera. Abbiamo dovuto inorridirci e insegnare che in Italia le fettuccine Alfredo non esistono, che i pepperoni sono in realtà una verdura e non un salame (come chi ci crede) e che la ricetta polpette di carne con spaghetti non la puoi trovare al ristornate ma solo nel cartone Lilli e il Vagabondo. La lista del bestiario internazionale potrebbe continuare probabilmente all’infinito, ma preferisco fare una siesta, riposarmi durante la giornata lavorativa per rubare un po’ lo stipendio e fare una chiamata veloce a mammina per dirle quanto non posso stare senza di lei.
Nella vita di ogni giorno, nel mio piccolo, cerco sempre di sfatare questi falsi miti, con l’esempio e con un po’ di sana educazione culturale. Mia moglie ed io, infatti, abbiamo cresciuto due bambini Italiani con la “I” maiuscola anche se loro sono nati e cresciuti in Svezia. Oh, ma eccoli che tornano da scuola… attaccati alla gonna della mamma… aggiustandosi il ciuffo dei capelli davanti ad uno specchietto… muovendo i polsi avanti e indietro, con le dita della mano che si uniscono in punta… scimmiottando la voce di Mario e Luigi e intonando e sghignazzando a ripetizione con eccessiva allegria ebete una canzoncina che fa cosi: “Mamma mia, Pizzeria, tuttar fria (letteralmente, tette al vento)".
Rileggo cosa ho appena scritto e concludo il verso della canzone “…Santa Lucia, portami via!”
 
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https://italienaren.org/Come-ci-vedono/
[1] https://www.resume.se/marknadsforing/kampanj/kranger-kanelbullar-med-discodanga-har-ar-nasta-uttag-av-pressbyrans-kampanj/

giovedì 17 ottobre 2024

RACCONTI - Confessioni

Sono le dieci e cinquanta di sera. La casa è avvolta nel silenzio e nella penombra. Sono seduto al tavolo della cucina e sto facendo finta di scrivere qualcosa al computer. Con la coda dell’occhio mi guardo attorno. I bambini sono a dormire da un bel pezzo, mia moglie è andata da poco in camera ma sta già ronfando. È quell’atmosfera serale che ho sempre amato, nella quale ho sempre trovato pace e ispirazione, nonostante fossi stanco e preoccupato dalla prospettiva di passare un’altra serata con poche ore di sonno alle spalle. Mi sento a mio agio e so quello che sta per succedere ormai da qualche mese a questa parte. Sento un brivido che mi percorre la schiena. So che non dovrei farlo ma allo stesso tempo vorrei tanto. È un prurito irrefrenabile che parte dalla testa, passa per il petto, arriva allo stomaco e forse anche più giù. Lei mi chiama. Non posso resisterle, anche se dobbiamo fare le cose di nascosto. È un errore e me ne pentirò, ma in questo momento il sangue non circola bene nel cervello. Sono ebbro al solo pensiero di essere di nuovo lì con lei.
Riesco a resistere ancora solo qualche minuto mordicchiandomi le unghie, tamburellando con le dita e agitando le gambe. Devo alzarmi, non ce la faccio più. Più i minuti passano e più le immagini mentali di lei mi distraggono dal quello che sto facendo al computer e mi lasciano solo un pensiero fisso in testa. Scosto la sedia con cautela e mi metto in piedi.
Prima passeggio avanti e indietro per la sala da pranzo, indeciso sul da farsi, poi mi guardo allo specchio e parto deciso all’azione. Per sicurezza faccio una capatina nella cameretta dei miei figli. Entro nella penombra e li guardo dormire angelici. Mi chino e do loro un bacio sulla fronte e passo alla camera matrimoniale. Anche lì tutto sotto controllo. Sorrido e torno in salotto. Nessuno senso di colpa. Nessun rammarico o esitazione ora. In questo momento farei di tutto pur di averla. Lei sa che è solo questione di tempo prima che io ceda. Lei mi aspetta e io sono come accenderla.
Mi metto comodo sul divano e sistemo un cuscino dietro la schiena. Lei suona e io la vedo arrivare. Mi fa attendere qualche secondo di troppo che mi sembra un’eternità mentre ardo dalla passione di farla mia. Io so però toccare i tasti giusti, l’afferro con due mani e con le dita percorro la superficie liscia della sua figura slanciata. Alla fine lei è pronta. Non aspettavo altro. A entrambi piace giocare ma quando è il momento di fare sul serio non ci tiriamo indietro. A volte si scalda ma so che devo solo attendere qualche minuto prima di ricominciare e il piacere è garantito.
Guardo l’orologio e ho un sussulto. È mezzanotte e mezza. Impreco e mi mordo le labbra. Porca miseria! Succede sempre così con lei. Il tempo vola e tutto il resto attorno a me sparisce e non ha più importanza. La mia famiglia, il lavoro che mi attende il giorno dopo e i miei hobby passano in secondo piano quando mi faccio assalire dalla sua inebriante dipendenza. È troppo piacevole tenerla stretta a me e coccolarla. Certo, ogni tanto mi fa arrabbiare, ma basta una sua carezza e tutto passa. Dovrei staccarmi da lei ma non posso. Ho bisogno di starci ancora un po’ assieme. I minuti si accumulano e passa un’altra mezz’ora. Maledizione! Mia moglie potrebbe accorgersi della mia assenza prolungata e beccarmi. Mi convinco che alla fine ne valga comunque la pena e tiro avanti altri cinque minuti. Ho gli occhi stanchi e la testa pesante. Siamo oltre l’una di notte e finalmente decido di allontanarmi da lei.
Questa è l’ultima sera che staremo vicini. Me lo dico ogni volta. Poi di solito ci ricasco.
Il giorno dopo però resisto. E anche il giorno dopo. E quello dopo ancora. Un paio di volte l’ho guardata da lontano e il pensiero è ritornato spesso a lei durante le giornate, ma ho sempre resisto. In quest’ultime due settimane non l’ho toccata, nonostante le tentazioni. Ho capito che era sbagliato, che era una perdita di tempo e che non era corretto nei confronti di mia moglie e dei miei figli.
Ora è tutto passato, per fortuna. Sto meglio. Ora leggo un libro, parlo con mia moglie o gioco coi bambini ogni volta che mi viene voglia di lei. La mia vita è di nuovo sana e regolare. Non sono più assuefatto da lei. Ogni tanto è così: mi succede di perdermi in una dipendenza per settimane, mesi o anni. La scimmietta mi sale in testa e non scende più. Poi però mi passa e torno quello di prima. Anche quest’ultimo mese intenso di Xbox è passato e lei ormai non mi tenta più. Ne sono uscito libero. Non sono più in catene.
Ora però devo andare a controllare, per la terza volta nell’ultima ora, quali esercizi di teatro che vorrei preparare per il gruppo. Poi devo ripianificare la scaletta delle prove perché le ultime due versioni non mi avevano soddisfatto. Infine devo riscrivere il riassunto delle scene per essere più preparato quando reciteremo. La nuova stagione teatrale mi ha preso alla grande, ma è tutto sotto controllo.
È proprio vero: ne sono uscito. Non ho più nessuna dipendenza. 

venerdì 11 ottobre 2024

ITALIENAREN – Porte in faccia

Signore e Signori, la storia che sto per raccontare non è divertente. Per niente. Ci sarebbe da piangere se ci si lasciasse sopraffare dallo sconforto e dalla tristezza. Io e i miei amici, però, siamo fatti di una pasta diversa, che non scuoce tanto facilmente come quella che trovi negli scaffali dei supermercati svedesi. Perché quando si tratta di stare assieme, divertirsi, gozzovigliare e giocare siamo dei veri bighelloni, degni delle migliori bande di saltimbanchi medioevali. Se però allo stesso tempo c’è l’opportunità di crescere e imparare, portando avanti un piccolo grande progetto teatrale che abbia l’ambizione se non di arricchire ma quantomeno d’intrattenere la comunità italiana a Stoccolma, allora le idee e le forze per superare le difficoltà si decuplicano. E di energia e di ingegno ne serve davvero tanto perché di questi tempi fare cultura non è affatto facile, signori miei. Non lo è per i professionisti, figurarsi per i sopracitati bighelloni che adorano così tanto quest’arte da essere definiti amatori.
Persino in Svezia da sempre attenta a questi aspetti sociali la favola sembra essere finita.
O forse no? Magari se riesco a infilare un folletto in questa storiella potrei far continuare la magia.
Il giorno dopo quindi esco di casa con la mia camicia a righe, ben stirata e abbottonata stretta fino al collo. Con una mano tengo la valigetta ventiquattrore con tutti i documenti importanti, con l’altra un borsone più grande con lo strumento del mestiere. Parto a piedi per una nuova giornata extra-lavorativa. Sorrido appena incontro i miei colleghi con gli stessi arnesi e vestiti allo stesso stile. Sembriamo dei predicatori americani e non dei rappresentati di aspirapolvere. Ne ridiamo assieme per sdrammatizzare e ci dirigiamo verso le prime porte che ci aspettano.
Una serie di villette a schiera tutte uguali le une alle altre si presentano davanti alla nostra vista. Ci dividiamo le abitazioni di legno rosse. Con passo deciso io punto a quella centrale. Percorro il breve vialetto, salgo il gradino del piccolo portico, mi assesto la cravatta e suono alla porta con una perfetta pressione del dito indice sul campanello. Aspetto. Passa qualche minuto. Nessuno risponde. Passa un altro minuto e ancora niente. Il mio sorriso smagliante si sta scalfendo. Alla fine la porta si apre con timidezza e dalla fessura ne esce mezza faccia di una rugosa anziana.
Il mio sorriso si ringalluzzisce e in un secondo estraggo l’aspirapolvere dal borsone.
«Buongiorno signora! Mi permetta di presentarle il nostro nuovo prodotto per la prossima stagione: il nuovissimo e sensazionale aspirapolvere VI-2024-25! Da oggi non si dovrà più preoccupare della polvere sui libri e sugli scaffali del salotto. Non ci sarà più bisogno di…»
«No, grazie. Non mi interessa.» La signora comincia a chiudere la porta.
«Ma guardi che con VI-2024-25 potrà finalmente dare una scrollata a quel bel vestito da sera che è nascosto nell’armadio e indossarlo per andare a teatro. E poi…»
«No, grazie. Non mi interessa. Arrivederci.» E chiude del tutto la porta.
Torno sulla strada principale e ritrovo i miei compagni. Tutti hanno ricevuto la stessa risposta. Ci può stare. Non ci perdiamo d’animo e ci incamminiamo verso il successivo blocco di abitazioni. Un condomino di cinque piani. Ci dividiamo i piani e gli appartamenti. Io prendo quello in alto.
Uno scalino alla volta, un po’ sudato, giungo al pianerottolo finale. Mi fermo a prendere fiato e mi sistemo la camicia. Prendo il manuale per mostrarlo meglio e suono al campanello con rinnovata speranza. Questa volta aprono subito. Buon segno, penso.
«Buongiorno! Sono un rappresentante dell’aspirapolvere VI…»
Il signore sulla sessantina, grassottello con i capelli bianchi, non mi lascia il tempo di finire la frase e io mi ritrovo col muso a un paio di centimetri dal legno della porta. D’istinto torno col dito sul campanello ma all’ultimo decido invece di bussare, per non disturbare. Nessuna risposta. Busso ancora una volta, più forte di prima. Niente.
Scendo le scale e ad ogni piano raccolgo i miei amici a pezzi come la fiducia in noi stessi. Intuisco che sia capitata la stessa sorte anche a loro. Giunti al pian terreno, ci diamo una pacca sulle spalle e ricominciamo a camminare. Non sarà certo questo a fermarci. Nuovo quartiere, nuove possibilità.
Mentre ci avviciniamo al gruppo di villette sulla collina, notiamo che i passanti cambiano strada ogni volta che ci vedono. Se chiediamo informazioni qualcuno fa finta di non averci visto e continua a testa bassa guardando il cellulare, altri ci insultano.
«Andate a cercarvi un lavoro vero!»
Inutile ricordar loro che per molti professionisti questo è un vero lavoro e che per noi questo è un hobby oltre al nostro lavoro principale. Non vogliono capire. Alzo le spalle e continuo a camminare. Ormai che siamo qui è meglio proseguire, penso.
Avvistiamo una bella villa a due piani, con un giardino grande e ben curato. Questa volta non ci dividiamo e tentiamo un approccio di squadra. Ci raccogliamo in una breve riunione strategica. Ne usciamo più forti e più convinti. Ora siamo pronti. Ci avviciniamo al recinto e suoniamo al citofono.
«Salve, siamo quelli degli aspirapolveri italiani in Svezia.»
«Prego, entrate!»
La voce non esita. Finalmente un po’ di gentilezza e di fortuna dalla nostra parte. Il cigolio del cancello che si apre è lieve e melodioso. Con coraggio e rinnovata fiducia, metto il primo piede dentro per dare il buon esempio. Il suono dell’acqua che scorre nella fontanella al centro del giardino rende il luogo ancora più idilliaco. I miei compagni mi seguono e i nostri passi smuovono la ghiaia in sincrono. Sorridiamo. Una folata d’aria inaspettata ci scuote i capelli pettinati e impomatati. Il rumore dei sassetti smossi sul viale aumenta nonostante noi ci fossimo fermati un attimo a capire che cosa stesse succedendo. Infine, il ringhio dei doberman ci gela il sangue.
«Scappate!», urlo a tutti quando colgo il pericolo. Corriamo a perdifiato verso il cancello che nel frattempo si sta richiudendo. Alle nostre spalle sentiamo l’alito dei cani: letale non solo perché hanno mangiato crocchette all’aglio ma anche perché i denti affilati ci accarezzano le chiappe. Con un salto alla Mission Impossible ci infiliamo tra le sbarre del cancello. Non capisco se siamo noi o i cani ad ansimare più intensamente. Di sicuro le risate del padrone di casa al citofono sovrastano entrambi gli ansimi.
Per oggi può bastare. Torniamo a casa mogi. Stasera per cena si continua con la dieta ipocalorica culturale. Stringiamo la cintura e andiamo avanti. Forse un giorno i proprietari di questa città capiranno che la polvere accumulata sulla televisione renderà tutti i programmi più grigi di quello che già sono, che il cibo sarà sempre più insapore e che a quel punto l’aria sarà irrespirabile.  Se non sarà troppo tardi, solo allora si renderanno conto dell’importanza degli aspirapolveri culturali.
Nel frattempo noi continueremo a operare con quello che abbiamo. Se saranno solo fine pulviscolo grigio, palle di pelo o capelli attorcigliati vorrà dire che costruiremo castelli di polvere.