venerdì 28 marzo 2025

ITALIENAREN – Montagna

Sciare è meraviglioso. Non è però uno sport per tutti. Non mi riferisco soltanto all’aspetto economico con costi elevati per accaparrarsi l’equipaggiamento adeguato, i vestiti giusti, il viaggio nella località sciistica e l’acquisto dello skipass. Mi riferisco anche alla sofferenza collegata agli sci. È una pena che chi si dedica a questo sport deve decidere se tollerare o meno. Trasportare tutto il necessario e la fase preparatoria prima di lanciarsi finalmente sulla pista innevata sono operazioni non da poco, che richiedono pazienza e una certa dose di dolore fisico.
Ho da poco sperimentato tutto ciò sulla mia pelle dopo un fine settimana lungo passato in montagna con la mia famiglia. A dire il vero, in Svezia, la parola montagna dovrebbe essere scritta tra virgolette. Al mio arrivo alla base dell’impianto di risalita, infatti, alzo gli occhi per seguire con lo sguardo il percorso della pista e invece di trovarmi un muro di montagna trovo la cima perfettamente visibile a occhio nudo. Le Fjällar svedesi non sono molto alte, spesso si aggirano attorno ai 300 o 500 metri sopra il livello del mare. Solo molto a nord, dopo molte ore di viaggio si raggiungono i 1000-1400 metri. Le Fjällar sono dunque delle collinette che di primo acchito mi provocano sempre una lacrima di nostalgia perché mi fanno ripensare ai colli dietro casa mia in Italia dove si coltiva l’uva e perché mi sbattono in faccia il duro confronto con le Dolomiti.
Mi asciugo la lacrimuccia e inforco gli sci. Basta con le solite lamentele da italiano medio. È ora di darsi da fare. Salgo in cima e faccio la prima discesa. La neve è fresca. La pista è ben curata. La discesa è stimolante. Sorrido soddisfatto ma mi passa subito, appena mi rendo conto di essere già a valle, dopo solo un paio di minuti. Mestamente scivolo verso la seggiovia e mi metto in fila. La coda è lunga e lenta perché molti sciano in questo periodo dell’anno e perché i visitatori sono nordici e vogliono stare larghi lasciando malvolentieri il posto ai vicini. Hanno però il pregio di farmi sentire a casa perché è un po’ quello che succede in autobus o in metropolitana a Stoccolma. Ci metto dunque tra i dieci e i quindici minuti per risalire. I muscoli hanno fatto in tempo a raffreddarsi, ma mi consolo ammirando il panorama rilassante della campagna svedese e lodando le tante pale eoliche disseminate nel territorio. Dopo aver fatto una pista rossa per rompere il ghiaccio – metaforicamente, s’intende – ora mi sento pronto per le piste più impegnative. La difficoltà è di poco maggiore. Ogni volta che qualcuno definisce queste piste “nere”, un altoatesino muore, penso divertito – non per la morte dell’altoatesino, s’intende, anche quella era una metafora.
Nulla però mi toglie la voglia di continuare a sciare e godermi la bella giornata di sole. Col passare delle ore le code agli impianti diminuiscono e posso salire e scendere a ripetizione in modo soddisfacente. La giornata passa in fretta. Mi diverto e ammiro l’abilità svedese nel valorizzare qualsiasi piano inclinato per trasformarlo in una pista da sci apprezzabile. Mi ricorda molto quelle poche rovine romane fuori dai confini italiani trattate giustamente come un patrimonio storico e culturale da preservare con cura.
Nonostante sia felice e grato di poter sciare, – ho sognato a occhi aperti di poterlo fare prima di arrivare qui e so che stanotte lo sognerò a occhi chiusi – rimango dell’idea che sciare sia una sofferenza, ma anche tanto altro. È uno sfogo fisico, è contemplazione della natura, è un attimo di meditazione soli con sé stessi, è libertà al vento che ti sferza la faccia, è velocità che ti fa sfrecciare sulla neve fresca. Infine, sciare è anche sollievo, soprattutto quando al termine della giornata arrivi a casa e ti sfili gli scarponi dai piedi indolenziti. 

venerdì 10 gennaio 2025

ITALIENAREN – Ghiaccio

La squadra di pattinaggio artistico nazionale volteggia sul ghiaccio con precisione e coordinazione invidiabili. Ammiro estasiato i loro movimenti eleganti che seguono l’esercizio provato e riprovato mille volte in allenamento. La loro professionalità e precisione è incredibile. Gli artisti eseguono davanti ai miei occhi piroette perfette, tripli axel fenomenali, avvitamenti da capogiro. Tutto meraviglioso. A bocca aperta assisto a uno spettacolo strepitoso. Non posso far altro che sorridere inebetito e applaudire con entusiasmo.
L’infermiera però mi ferma e mi ricorda di non agitarmi troppo. Mi rassicura che l’ortopedico mi visiterà a breve. Devo riposare nella mia condizione malconcia. Mi sa che la morfina che mi hanno dato contro il dolore sta facendo brutti scherzi al cervello perché quello che vedevo andare avanti e indietro non era uno spettacolo di pattinaggio artistico ma il personale dell’ospedale, indaffarato a curare ogni paziente che è caduto e si è rotto qualche osso nell’ultima settimana. La maggioranza dei degenti sono anziani, ma anche qualche giovane e il reparto è pieno. Le statistiche d’altronde parlano chiaro: ci sono state 2,2 cadute dovute a ghiaccio e neve per 1000 abitanti dall’inizio dell’inverno e i costi per la sanità sono già saliti a 116 milioni di corone solo per la regione di Stoccolma[1].
Considerando che la stagione è solo iniziata e se fuori dalla finestra guardo il palaghiaccio che si è esteso a tutta la città, è meglio cercare di tutelarsi. I ramponcini da attaccare al tacco delle scarpe, acquistabili in farmacia, sembrano essere la migliore opzione, se non si ha paura di passare per dei matusa o dei maniaci del controllo. In alternativa si può sempre adottare l’andatura a pinguino impaurito che tiene l’uovo sotto ai piedi quando si cammina. Si può fare slalom tra le lastre di ghiaccio grandi come campi da calcio e le pozze d’acqua così torbide e gelida da permettere al mostro di Loch Ness di nascondersi. È bene studiarsi bene il percorso da seguire preferendo il ben più spazzato asfalto della strada alle scivolose mattonelle dei marciapiedi. Essere investiti da un’auto appare come un rischio meno grave di quello di cadere rovinosamente col sedere a terra. Conviene sempre prendere la strada più lunga ma più sicura anche se comporta la circumnavigazione del quartiere per evitare le scalinate trasformate in scivolo e il parco in pista da pattinaggio. Non c’è da aver paura se ci si perde perché basta seguire i sassetti sparsi con parsimonia qua e là e fare finta di essere Pollicino. È importante però fare attenzione alla neve fresca infingarda che spesso nasconde lastroni di ghiaccio lucidi come la pelata di Mastro Lindo ma che non lasciano il suo sorriso in faccia. In ogni caso non bisogna mai avere fretta.
Per fortuna la mia caduta sulle scale della scuola di qualche giorno fa non mi è costata una visita all’ospedale e l’allucinazione da morfina è solo un’invenzione, ma la prendo come un monito a fare più attenzione in futuro, nella speranza di non aver scritto la promessa sul ghiaccio.


[1] https://www.mynewsdesk.com/se/liberalerna-region-stockholm/pressreleases/baettre-snoeroejning-och-avgiftsfria-broddar-foer-att-minska-antalet-halkolyckor-dags-att-prioritera-tryggheten-paa-stockholms-gator-3363135?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=Alert&utm_content=pressrelease#:~:text=Enligt%20statistik%20fr%C3%A5n%20regionens%20h%C3%A4lso,is%20under%20vinterm%C3%A5naderna%20f%C3%B6rra%20%C3%A5ret.

mercoledì 11 dicembre 2024

ITALIENAREN – Sunbusters

L’allarme suona squarciandomi le orecchie. Mi sveglio di colpo nel buio della notte mattutina. Sull’orologio leggo “zerootto.zerozero”. È ora di andare. Sveglio tutti gli altri e senza colazione scivoliamo in fretta al piano terra grazie alla pertica e al buco nel pavimento. Ci infiliamo le overall grigie, indossiamo il nostro equipaggiamento e usciamo in città.
 
SIGLA
If there’s something strange
In the neighborhood
Who you gonna call?
Sunbusters!
 
If there’s something weird
And it looks damn good
Who you gonna call?
Sunbusters!
 
Un sole bianco con viso sorpreso e braccia allargate, sbarrato da un segnale di divieto rosso compare in sovraimpressione per un paio di secondi.
MUSICA IN DISSOLVENZA
 
Sì, baby, per i prossimi tre mesi noi diventiamo i Sunbusters, gli Acchiappasole – non nel significato romanesco di fregature, eh – al servizio della salute mentale di tutti, soprattutto della nostra.
Armati di rivelatore P.K.E. Meter ci aggiriamo per le strade cittadine alla ricerca di attività paranormali che possano risvegliare i nostri ritmi circadiani. Girovaghiamo disperati da ormai sei giorni, due ore e quindici minuti con la schiena gobba e le occhiaie scavate. Scaliamo una collinetta e l’ago del rivelatore impazzisce. Ci siamo. Ci siamo. Un ammasso di nuvoloni grigi si sposta a nord sospinto dal vento gelido di dicembre. Le prime radiazioni elettromagnetiche dell’ultima settimana ci appaiono in tutto il loro splendore.
«Lasciate fare ai professionisti!» Urliamo mentre ci facciamo largo tra i civili accorsi in gran numero per assistere all’evento. Una rapida indagine psichiatrica condotta dal medico di campo ha già escluso che si tratti di un’allucinazione collettiva. Possiamo procedere. Abbagliati dalla celestiale visione e mossi sempre più in alto dall’energia psicocinetica, chiudiamo un attimo gli occhi, inspiriamo in profondità e allarghiamo il sorriso tra le labbra.
Non per molto però. Il vento è già cambiato e le nubi si riaddensano. È tempo di agire. Dall’acceleratore protonico non autorizzato che portiamo sulle spalle estraiamo il fucile con una mossa in sincrono. Premiamo il tasto d’accensione, indirizziamo il flusso verso l’alto, poco più in alto dell’orizzonte – mai allo zenit, purtroppo – e irradiamo l’obbiettivo.
«Ora, Alex!» Ordino al mio collega. Lui lancia la trappola per terra e quando la potenza dei nostri fucili protonici sta per esaurire schiaccia il tasto d’apertura con il piede. I raggi solari vengono assorbiti e la trappola si richiude tra leggere scosse elettriche, lucette verdi lampeggianti e fumi di calore. Ce l’abbiamo fatta. Il vapore a erranza di quinta classe è stato catturato. Ora non ci resta che depositarlo, assieme agli altri pochi raggi raccolti durante l’ultimo mese, nel dispositivo di stoccaggio psicocerebrale che lo trasformerà in vitamina D. Se andiamo avanti così ci dovremmo salvare, ma c’è tanto da lavorare.
«Abitanti di Stoccolma e di qualsiasi territorio sopra il 55° parallelo nord della Terra, ascoltatemi bene.» Con aria risoluta guardo dritto verso la telecamera che mi sta inquadrando. «Non rilassatevi e non smettete di muovervi. Continuate a cercare quella tiepida pallina gialla tra i palazzi durante la pausa pranzo, nei prati dei parchi cittadini nel fine settimana e affacciati dai balconi o dalle finestre durante le pause caffè. Se vedete qualcosa di strano nel vicinato, se qualcosa vi colpisce e vi fa star bene, alzate allora gli occhi al cielo, sorridete, porgete entrambi i palmi aperti delle mani verso la fonte di energia e non esitate a chiamarci.» Punto l’indice verso lo schermo. «I Sunbusters saranno lì con voi per acciuffare il sole!»
 
MUSICA IN CRESCENDO E TITOLI DI CODA
 
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mercoledì 27 novembre 2024

ITALIENAREN – Macchinari malefici

Sto guardando un video su YouTube di un tipo in pantaloncini corti e maglietta sportiva che in palestra sembra stia facendo sesso con un vogatore. È affannato, impreca e quasi s’ingarbuglia con il cavo. Dopo un minuto un ragazzo muscoloso gli passa vicino e, mosso da compassione ma con un mezzo sorriso trattenuto tra le labbra, gli mostra l'uso corretto del macchinario. Il tipo si guarda attorno e ringrazia in notevole imbarazzo. Io rido. Mi sento uno stronzo ma rido lo stesso. Potrei essere io quel tipo del video, ma continuo a ridere lo stesso. La Schadenfreude – la gioia maligna – alle volte è davvero spassosa.
Eppure mi diverte guardare il video perché è un modo per esorcizzare la paura. Mi ci è voluto tempo e coraggio per superare le mie ansie e per essere dove sono adesso: su un tapis roulant in una palestra affollata, durante l’ora di punta.
Mi metto a petto in fuori e tengo le spalle larghe. Non solo perché sono orgoglioso di me stesso e dei miei progressi ma anche perché ho appena notato una bella ragazza che corre al mio fianco. Sorrido sgargiante. Lei ovviamente non mi calcola, immersa in sé stessa e nella musica che sta ascoltando con le cuffiette. Non perdo però l’entusiasmo e ricordo il mio percorso in palestra che definirei terapeutico.
La palestra mi ha salvato dalla depressione. In un periodo difficile al lavoro, avevo abbandonato la pallacanestro giocata e mi ero ritrovato a essere fisicamente inattivo per più di un semestre. Rifiutavo di andare in palestra perché ritenevo fosse solo per fighetti e io invece ero un duro. Mi ero allora buttato sulla corsa all’aria aperta ma avevo fallito in fretta. La temperatura svedese che non sale sopra i 5 gradi da ottobre a marzo e la mia inappetenza verso la noiosa corsa in solitaria avevano aiutato come il due di bastoni con briscola in denari. Spinto dalla quantità di palestre presenti in ogni angolo a Stoccolma e dai prezzi abbordabili, decisi finalmente di cambiare idea e di acquistare una tessera annuale. La promessa di mia moglie di accompagnarmi agli allenamenti con il guinzaglio e il biscotto come ricompensa resero il primo passo più facile.
Nonostante temessi di essere osservato e giudicato quando mi sarei ritrovato asincrono con il resto dei partecipanti, gli esercizi di gruppo mi sembrarono il modo migliore di cominciare. Classi di sollevamento peso finite il giorno dopo a casa con difficoltà ad alzare anche un bicchiere d’acido lattico. Classi di spinning finite ad annaspare aria come se mi avessero tolto le narici e la bocca. Classi di aerobica finite a spostarmi a sinistra della stanza mentre il resto del gruppo salta a destra.
Col tempo la condizione migliorava e assieme a essa anche la fiducia in me stesso. Stavo meglio. Tornavo a essere il vecchio me stesso sportivo. In effetti la palestra non era solo per i fighetti, ma anche per i duri, come loro, quelli che i muscoli ben distribuiti in tutto il corpo ce li hanno davvero.
Restava un tabù da sfatare. Andare in palestra senza prenotare una classe di gruppo. «E se ridono di me perché uso il leg curl per allenare i bicipiti?» «E se non so da dove cominciare e alla fine me ne vado in imbarazzo?» «E se sbaglio l’esercizio e mi procuro un danno muscolare?» «E se per lo sforzo mi scappa una scoreggina?» Non era facile convivere con questi pensieri. Neanche con la puzza a dire il vero. Parlando però con dei Personal Trainer – PT, per gli amici –, studiando programmi di allenamento su internet come fossero un copione teatrale da ripetere senza errori e facendo affidamento alle App della palestra per seguire religiosamente quello che mi dicevano di fare, col tempo mi avventurai nei meandri della palestra. Prima durante gli orari meno frequentati a costo di allenarsi di notte. Poi in un angolo della sala separata facendo una pausa forzata ogni volta che qualcuno passava vicino. Infine in centro alla sala principale, con i faretti puntati, con una canottiera attillata addosso e la fascetta bianca sulla fronte, muovendomi scatenato e cantando a squarciagola Maniac di Michael Sembello – colonna sonora di Flashdance… ok, ok, ok. Con l’ultima ho un tantino esagerato, ma ora ho davvero la libertà di scegliere se prenotare una classe di gruppo, se seguire un programma personalizzato con o senza la App. Questo per me ha fatto la differenza tra ritornare fisicamente e mentalmente in carreggiata e lo smettere di fare attività fisica per paura di finire su un video di sfottò. Cerco di ricordarmelo sempre quando non ho voglia di uscire di casa per andare in palestra.
In un attimo il mio percorso terapeutico mi scorre davanti agli occhi, mentre spengo il video del tipo che faceva l’amore con il vogatore. Sto ancora ridacchiando. Non posso farne a meno. Perdo però l'equilibrio, inciampo sul bordo del tapis roulant come fosse una buccia di banana e cado di faccia sul nastro trasportatore. Solo ora la ragazza carina che mi sta di fianco mi nota – eccome se mi nota – e potrei giurare che un tipo dietro di me ha appena ripreso tutta la scenetta con la fotocamera del cellulare. Le immagini della mia rovinosa caduta viaggiano ora veloci sulla fibra ottica verso un server di YouTube. Chi la fa, l’aspetti.
 
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mercoledì 20 novembre 2024

ITALIENAREN – Movember

Sul palmo della mano sinistra riposa una montagnola bianca e soffice. Nella presa salda della mano destra tengo uno strumento affilato. Mi guardo allo specchio e mi spalmo con foga la schiuma sulla superficie della faccia dalle basette e dalle narici in giù. È un’operazione che non eseguo molto spesso e mi sento un po’ impacciato. Tagliare la barba non è il mio forte. Mi concedo questo momento solo per situazioni eccezionali come un matrimonio (solo per il mio) e per entrare in un personaggio teatrale durante gli spettacoli. Passati gli eventi, abbandono subito la pratica per pigrizia e ritorno allo stato brado. Ho da poco però scoperto un’altra iniziativa molto importante che ha richiamato la mia attenzione: Movember[1], un neologismo sincratico – anche detto parola macedonia – che unisce le parole Moustache e November. È un evento annuale a scopo benefico che si svolge nel mese di novembre nel quale gli uomini che vi aderiscono (chiamati Mo bro) si fanno crescere i baffi per sensibilizzare l’opinione pubblica sul carcinoma della prostata.
Un’occasione lodevole da cogliere al volo ora che, con la schiuma spalmata, sembro Babbo Natale o un pagliaccio preso a torta di panna in faccia. Partendo da una barba alla Leonardo di Caprio in The Revenant la scelta è ampia e mi permette diversi tipi di baffi. Comincio a togliere le basette e i peli ispidi dalle guance fino a lasciare un pizzetto alla Edward Norton. Accosto la lama del rasoio al lato delle labbra ma poi mi fermo. Tentenno. Ci sono molti stili di baffo. Difficile scegliere. Cerco su internet per trovare ispirazione e vado.
Taglio la barba sotto e sopra il mento e lascio due linguette, una sotto il lato destro e una sotto il lato sinistro della bocca. Ecco un baffo a ferro di cavallo alla Hulk Hogan, James Hetfield dei Metallica o di un biker con l’Harley Davidson. Fletto i muscoli e sfodero indice, mignolo e pollice a forma di corna. Mi sento molto cool, ma questo vestito peloso non mi si addice. Sad But True.
Rado ancora e mi trasformo in un tricheco con un bel paio di baffi folti che escono da entrambi i lati della faccia e coprono tutta la bocca. Mi do un’aria da letterato alla Mark Twain o da filosofo alla Nietzsche. No, cercare di essere un Superuomo e un Nichilista è un peso troppo grande.
Accorcio un po’ ed eccomi scaraventato alla fine del IXX, inizio XX secolo, nell’Impero austro-ungarico. Davanti a me non vedo più la mia faccia, ma quella di Francesco Ferdinando. Hm, meglio evitare di finire come lui e scaturire l’inizio della Terza Guerra Mondiale.
Aggiusto un po’, arriccio all’infuori e all’insù con un’abilità che stupisce anche me stesso. Ormai ci ho preso mano e ho appeno rifinito dei baffi a manubrio. Vittorio Emanuele II, Buffalo Bill e lo stereotipo dell’uomo messicano sarebbero orgogliosi di me. Mi rendo conto però che non raggiungerò mai Salvador Dalì quindi meglio andare oltre.
Aggiungo un po’ di schiuma e passo con la lama di qua e di là: stupendi, mitici, eccezionali. Mi viene voglia di cantare e trasformo il rasoio in un microfono. Con questi mustacchi a V rovesciata che coprono di poco il labbro superiore mi sono proprio liberato e ora sono un campione. Sono Freddie Mercury. Nah, meglio abbassare i toni. Questi baffi chevron non mi fanno assomigliare tanto né a lui né tantomeno a Tom Selleck in Magnum P.I. Peccato. Sbuffo e proseguo la mia ricerca: Lo spettacolo deve continuare.
Riduco ancora di più verso le narici e, voilà, ecco un baffo a spazzolino come Charlie Chaplin e Ollio. Sorrido, ma poi mi passa. Nessuno penserà a loro due ma a un altro personaggio di moda in Germania negli anni ’40 del secolo scorso e purtroppo di nuovo in voga ora, negli anni ‘20 di questo secolo.
Non mi resta che lasciare un filetto di peli attaccato al labbro, ben curato e molto elegante dallo stampo classico. Non riuscirò a essere a Zorro, Gomez Addams o Clarke Gable, non solo perché mi manca lo smoking giusto o il mantello, ma soprattutto perché ormai ho tolto la parte di baffo verso l’estremità delle labbra per completare lo stile a fiammifero. Che tristezza.
Tutte queste associazioni di nomi, personaggi affascinanti e mostri sacri della storia mi hanno dato alla testa. Così, mi scappa la mano e tolgo ancora un altro pezzo di baffo. Nel processo mi procuro un taglietto che tampono subito con pezzi di carta igienica. La frittata è fatta. Ora devo togliere tutto e rimanere sbarbato. Ci riproverò il prossimo anno ad aderire a Movember. Nel frattempo faccio una donazione dal sito: offerta baffuta, sempre piaciuta.
 
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[1] https://se.movember.com/

mercoledì 13 novembre 2024

RACCONTI – Il tempismo delle idee

Sono disteso supino. Inspiro ed espiro sempre più lentamente. Il calore del mio corpo viene trattenuto dalle coperte e mi lascia in un dolce tempore. Le gambe e le braccia sono pesanti, allungate sopra il materasso. Il battito cardiaco decelera e la mente comincia a percorre la porta di transito tra la veglia e il sonno. Ho girato la maniglia e ho fatto il primo passo sulla soglia. Ci sono quasi. Tra pochi secondi sarà domani mattina.
I muscoli si rilassano e faccio un altro passo avanti, ma inciampo su qualcosa. Il cuore ricomincia a corre e la frequenza del respiro aumenta. Guardo bene cosa mia abbia fatto perdere l’equilibrio. È un cubo a forma sferica, con spuntoni che urlano parole incomprensibili, in due dimensioni. Lo guardo meglio: ora è un triangolo isoscele, con cinque angoli e due diametri, in tre dimensioni che si muove nel tempo. I muscoli del corpo s’irrigidiscono. Tutta la mia attenzione si dirige verso l’oggetto. Ora è un fiume di lettere in piena che striscia all’indietro, cadendo da una cascata di canzoni ad altissimo basso volume.
Ho capito di cosa si tratta: ho appena avuto un’idea. Lascio la porta verso il regno dei sogni alle mie spalle e torno indietro. Gli occhi si spalancano nel buio della camera. Sento il respiro di mia moglie al mio fianco. Riprendo coscienza della mia posizione nello spazio.
Non posso riprendere sonno prima di aver annotato da qualche parte quello che mi è venuto in mente, altrimenti rischio di perderlo tra le lenzuola, tra le nuvole di zucchero filato o nell’archivio impolverato del cervello. Non ho scelta, devo uscire dal letto.
Colto da un’agitazione febbricitante, do acqua al semino dell’idea e la vedo crescere in fretta in un progetto abbozzato. È un germoglio piccolo e insicuro, ma ho già molte aspettative e speranze. Metto un piede fuori e il gelo della stanza mi aggredisce. Esco con le gambe, spostando la coperta di quel poco che basta per non far svegliare mia moglie e mi infilo al volo le ciabatte. Cerco a tentoni gli occhiali e dopo un primo tentativo nel quale la stanghetta mi finisce nell’occhio, li inforco. Devo sbrigarmi altrimenti l’idea perderà d’intensità. Vedo il contorno della porta ora che le pupille si sono dilatate. Seguo il bordo del letto con una mano e con l’altra cerco l’armadio per orientarmi. Smanioso di buttare giù un appunto che plachi la mia irrequietezza, sbatto l’alluce contro la base del letto. Bestemmio in silenzio mentre mia moglie si rigira mugugnando qualcosa di incomprensibile. Faccio un paio di passi e giungo alla porta. Con cautela apro, entro in salotto e richiudo dietro di me. Posso tirare un sospiro di sollievo. Mi affretto in cucina dove mi aspettano un blocco di fogli e una penna a sfera. Scrivo senza pensare, come se fosse un’eruzione vulcanica. Annoto cubi, piramidi, fiumi in piena, lettere e parole, musica, pioggia di cristalli e colline di margherite – tutto.
Mi fanno male le dita della mano per quanto ho stretto la penna. Una goccia di sudore cola dalla fronte. Quando ho finito sono esausto ma soddisfatto. Mi chiedo se si sentano così i tossicodipendenti con una dosa dopo una crisi d’astinenza. Coccolo la nuova idea come un neonato dal sorriso dolcissimo. Nei prossimi giorni ci sarà tempo per cambiargli il pannolino. Ora si può sognare a occhi aperti, prima di godersi di nuovo un meritato sogno a occhi chiusi.
Il giorno dopo sono sotto la doccia. L’acqua è tiepida e il flusso mi massaggia la pelle. Starei qua dentro per delle ore. Mi rilasso e lascio andare il treno dei pensieri. Schivo un paio di preoccupazioni e di scadenze da rispettare e divento tutt’uno con l’acqua che scorre. Si sta così bene: è caldo e sono pulito. Nonostante io non abbia mosso la mano, all’improvviso il getto d’acqua cambia direzione e mi finisce in faccia, assieme a pezzi di puzzle, bulloni e ingranaggi vari. Era quello che mi mancava nel nuovo progetto. Raddrizzo la schiena e sgrano gli occhi. Mi giro da una parte e poi dall’altra nello spazio ristretto della cabina nel goffo tentativo di appoggiare il doccino. Devo trovare una penna. Devo scrivermelo. Non posso dimenticarmelo. Devo registrare l’appunto. Mi sembra di essere in una scena del film “Memento”. Devo afferrare una penna il prima possibile e buttare giù su foglio l’idea prima che finisca risucchiata nello scarico. In fretta e furia, chiudo l’acqua, mi asciugo alla meno peggio ed esco dal bagno gocciolante. Mi getto a pesce sul blocco degli appunti e scrivo a caldo. Ci sarà tempo per asciugare le scie che ho lasciato e per subire un cazziatone da mia moglie. Avevo bisogno della mia dose.
Nel pomeriggio, sono le quattro e tre quarti, devo uscire di casa per correre a prendere i bambini. Sono già in ritardo. Mi metto le scarpe e il giubbotto. Afferro le chiavi e sono pronto a uscire. Uno strano formicolio parte dal collo e si estende al petto. Passa alla schiena, scende sulle gambe e infine ai piedi. Devo slacciare le scarpe e toglierle. Il formicolio risale il corpo fino alle braccia. Devo togliermi anche il giubbotto. Le mani mi tremano e mollo le chiavi sul mobiletto d’ingresso. Sbatto la testa contro il muro un paio di volte finché da una fessura ne esce una lunga stringa di parole alla rinfusa che cominciano a volare via. Le inseguo per l’appartamento. Mi sfuggono due volte di fila ma alla terza raccolgo tutto e lo spingo a forza dentro il retro di una penna bic. Prima che scappino fuori di nuovo, prendo un quaderno e butto giù il più velocemente possibile tutto quello che l’inchiostro ha da offrire. Mi sembra sia passato un minuto, in realtà ne sono trascorsi venti. Trasalisco alzando gli occhi verso l’orologio. Avrei dovuto essere a scuola dai bambini cinque minuti fa. Rimpiango di non essere Spock e impreco contro l’umanità per la mancanza dell’invenzione del teletrasporto.
Il giorno dopo, al lavoro, tutto il personale è raccolto per la settimanale generalissima riunione aziendale – da leggersi con la voce di Fantozzi – la quale ha il potere magico di trasformare i marroni dei presenti i noci di cocco giganti. Lottando contro la forza di gravità delle palpebre mi guardo attorno e noto un collega perdere lo sguardo oltre la finestra verso il nulla del cielo grigio, un altro annuisce a ritmo sintonizzato su una canzone che gli passa per la testa e non sul discorso del capo e infine un’altra ancora che sbircia sul cellulare usando il foglio con l’ordine del giorno come scudo protettivo contro i raggi X del datore di lavoro. Bene, sono in buona compagnia. Sto per tornare a lottare contro Morfeo ma abbozzo un sorriso quando mi accorgo che i colleghi si stanno trasformando in animali parlanti, la stanza in una stalla e il pavimento in letame. Mi devo dare un pizzicotto sul braccio per assicurarmi di non essermi davvero addormentato e per ricordarmi che purtroppo non sono sotto l’effetto di sostanze allucinogene. Prendo la penna dal taschino e annoto tutto sul retro dell’ordine del giorno. Ho l’accortezza di fingere di ascoltare quello che dicono gli altri e di non scrivere durante le pause della discussione. Scrivo di getto tutto e il brusio della riunione sparisce nel sottofondo, sovrastato dal baccano della mia idea.
Il resto del giorno si adegua e invece di rispettare la scadenza di un compito importante ma noioso, il progetto alternativo nato durante la riunione prende il sopravvento, facendomi perdere tempo e il lavoro, se dovessero beccarmi.
A fine giornata torno a casa in bici. È già buio e la pioggerellina rende l’aria umida e nebulosa. La visibilità farebbe invidia alla Pianura Padana in novembre. Meglio attivare tutti i sensi. Non sono Spiderman ma per girare sulle strade della città senza pista ciclabile e senza rischiare la morte dovrei diventarlo. Frenando di colpo evito un ciclista che mi taglia la strada. Un’automobile corre troppo vicina al marciapiede e mi schizza l’acqua addosso passando sopra una pozzanghera marrone. Sovrappensiero sto per sbagliare strada e all’ultimo secondo svolto a sinistra. Un fascio di luce mi inonda e mi acceca. Spalanco gli occhi invece di socchiuderli. Non è un autobus o un tir che mi sta investendomi mandandomi al creatore, ma un'altra illuminazione creativa. Mancano ancora un paio di chilometri a casa e la devo trattenere fino a quando mi potrò fermare a scrivere. Potrei farlo qui e ora ma la pioggia cade più fitta e maciullerebbe la carta. Il cellulare è scarico e voglio andare a casa. Tiro la coperta corta della mia attenzione una volta verso l’idea per tenerla in vita e una volta verso la strada per tenermi in vita. Con questa alternanza spingo anche sul pedale destro e sul sinistro. Vado avanti così finché giungo a casa sano e salvo. Mi guardo alle spalle per controllare di non aver perso guanti, berretto o dettagli del concetto che ho sviluppato in testa e mi precipito a casa. Prima ancora di salutare moglie e bambini, sto già appuntando tutto prendendomi il tempo necessario e arrivando tardi per cena. Sono così concentrato che non sento gli schiamazzi dei bimbi e gli insulti della mia compagna.
Dopo il pasto sopraggiunge un nuovo stimolo. Questa volta è fisico e devo scappare in bagno. Mi siedo sulla tazza. Per una volta tanto ho lasciato il cellulare in salotto di proposito e così rifletto sulla giornata e sulla vita. I pensieri svolazzano liberi tra le mattonelle bianche davanti a me. Alcune si organizzano, altre si oscurano in blocchi neri e tutte insieme formano un cruciverba gigantesco e difficile come quello di Bartezzaghi sulla settimana enigmistica. Le associazioni si allineano e si compongono come i calcoli matematici dei geniacci nei film americani. Mettendo assieme parole e concetti, spingendo da una parte e dall’altra, viene fuori qualcosa di grosso. I maligni credono di sapere da dove sia uscito ma si sbagliano. È qualcosa che aspettavo da tutto il giorno ma che non aveva ancora trovato lo sfogo. Sono soddisfatto del risultato ma non ho penna con me e l’unica carta a disposizione è quella igienica. È poca ma mi accontento e la uso tutta. Ancora una volta sono riuscito a mantenere viva un’idea prima che scappasse via. A come pulirmi le natiche dalla cacca ci penserò più tardi.

giovedì 7 novembre 2024

ITALIENAREN – Bruno

Oggi ho visto un orso!
Si muoveva lento e silenzioso verso la sua meta: del dolcissimo miele d’acacia. Non potevo credere ai miei occhi perché non è facile vederlo in giro in questo periodo e quest’ora del giorno. Si spostava con circospezione adagiando tutto il suo peso prima sugli arti destri e poi su quelli sinistri, seguendo la tipica camminata ciondolante come se fosse una danza ubriaca. Maestoso e un po’ goffo allo stesso tempo. La sua pelliccia folta e arruffata, che lo proteggeva dal freddo e dalle intemperie della giornata uggiosa, lo rendeva simpatico. I denti aguzzi, con resti di radici e foglie incastrati tra un incisivo e il canino, però ricordavano a tutti di stargli alla larga.
All’orso bruno piace stare da solo, soprattutto mentre mangia. Oggi non faceva eccezione. In pochi minuti, infatti, sotto il mio sguardo allibito, si era divorato tutto il miele. Poi si era trangugiato una bella manciata di noci e semi emettendo vocalizzi d’eccitazione dalle tonalità basse. Infine si era sbafato anche due mele e una pera. Tutta roba trovata nelle tasche del mio giubbotto che avevo malauguratamente lasciato incustodito alla sua facile portata. Non soddisfatto si era messo ad annusare in giro, probabilmente in cerca di bottini più grossi. Avrei voluto fermarlo, farlo scappare, magari muovendo un ramo o urlando ma avevo preferito lasciarlo in pace per continuare ad osservarlo con attenzione nella speranza che non mi avrebbe notato. È vero che è di indole pacifica e diffidente, ma può attaccare se disturbato o sorpreso a breve distanza.
Dopo aver cercato invano altro cibo, si era adagiato sul fianco in cerca di ristoro, proprio sotto il rifugio dove mi ero sistemato per studiare i suoi comportamenti. Era probabilmente l’ennesimo riposino della giornata nella sua tana. Non potevo muovermi e avrei dovuto aspettare il suo risveglio fino alle ore crepuscolari se non fosse che l’arrivo dei suoi cuccioli lo avevano distolto dalla pacchia in panciolle. Con i loro schiamazzi e giochi incontrollati i piccoli lo avevano reso nervoso. Lo sentivo diffondere ripetutamente profondi e prolungati brontolii (definiti “ruglio”) nel tentativo di controllare senza successo la vivacità della prole. Nonostante fossi ben al sicuro dai suoi possenti artigli, avevo cominciato ad allarmarmi, impaurito di non poter più andare via.
L’occasione per uscirne sano e salvo però sarebbe arrivata poco dopo quando l’orso era stato costretto dalla sua partner ad andare a scovare qualche buon fungo e procacciare un bel pezzo di carne fresca per lui e la famiglia. Lasciando la tana doveva schivare le tante pozzanghere formatesi durante questa stagione della pioggia e le sue capacità di abile nuotatore tornavano utili nella circostanza. In poco tempo era tornato nel suo covo con la cena. Almeno così la giornata aveva avuto un senso.
Sì, oggi ho visto un orso. L’ho osservato tutto il pomeriggio avvolto nei vestiti del giorno prima, con la barba incolta, i capelli spettinati, assonnato, con poca voglia di lavorare e men che meno di incontrare altri individui. Gli capita spesso da quando fuori è grigio, piove e comincia a far freddo, soprattutto perché sta a casa più spesso del solito, troppe volte tentato dal divano e da altre distrazioni. Povero orso, fa quasi tenerezza. È ancora qui, davanti a me, mentre lo guardo allo specchio.
 
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