Da una parte un gigante forzuto. I
suoi muscoli sono tesi allo spasimo sotto la canottiera rossa alla Arnold Schwarzenegger
degli anni ‘70. Le vene scoppiano schiacciate tra i bicipiti ingrossati e la
pella tirata. La sua faccia si contrae in espressioni esasperate. Sta sudando come
un maratoneta e sta mettendo tutta la forza che ha dentro di sé per portare la
corda verso di sé.
Dall’altra parte c’è un tipo magrolino. I suoi occhiali hanno le lenti spesse e la montatura nera di gomma rigida. Il suo sguardo è mefistofelico e la sua espressione facciale sottolinea la sua scaltrezza e preparazione. Tiene la corda con due dita come se gli facesse schifo, ma grazie alle sue subdole capacità manipolative del pensiero è come se avesse una forza insuperabile.
I due titani sono alla pari. Entrambi tirano la corda con la stessa intensità e potenza. Ognuno di loro ha i propri metodi infallibili. Entrambi sanno quello che stanno facendo. Entrambi sono convinti di vincere.
E io?
Io sono in mezzo. Trascinato a destra e a sinistra, in avanti e indietro da questi due enti immaginari che non mi lasciano in pace. Succede spesso.
Questa mattina ne è stato un esempio.
È lunedì. Sono le sette, ma sono sveglio da venti minuti. Ho appena finito di fare colazione e sono ancora in pigiama. Ho lasciato dormire un po’ i bambini. Dormono in due letti vicini e si tengono la mano. Sono così carini e soprattutto così silenziosi quando dormono che mi dispiace doverli svegliare, ma è ormai giunto il momento di alzarsi dal letto e andare in cucina dove latte e cereali li aspettano.
Apro le tende per fare luce, ma non ha nessun effetto perché fuori è ancora buio. Mollo un urlaccio che li intima ad alzarsi ma non vengo ascoltato. Scosto le coperte e l’unico risultato che ottengo è una contrazione involontaria dei loro muscoli condita da un paio di mugugni.
Ci vuole qualcosa di più. Qualcosa di più forte. Ci vuole l’artiglieria pesante. Mi abbasso e scuoto mio figlio più piccolo nel tentativo di trascinarlo via dal mondo dei sogni. In tutta risposta lui si gira di scatto e mi arpiona il collo con le sue braccia calde dalla notte appena trascorsa. Perdo l’equilibrio e cado sul letto al suo fianco. Il mostriciattolo piovra di cinque anni ne approfitta per spostarsi velocemente verso di me e mi blocca anche con le gambe. Sono immobilizzato.
Ed è proprio in quel momento che inizia il tiro alla fune tra i due titani sopraccitati, il muscoloso energumeno e il diabolico manipolatore.
Non posso, dice subito il cervello. Rilassati, suggerisce il corpo. Io do un bacio a mio figlio sulla guancia soffice e rotonda.
Dovete andare a scuola e io al lavoro, protesta il cervello. Non senti quant’è morbido il materasso, fa notare il corpo. Io ricambio l’abbraccio.
In effetti giusto oggi non c’è fretta, constata il cervello. È così piacevole qui, sorride il corpo. La mia mano si sposta magicamente sulle coperte e le sistema sopra le nostre spalle.
Non posso accettare di arrivare troppo tardi al lavoro, analizza il cervello. Goditi questi momenti perché non torneranno quando questi due saranno adolescenti e non vorranno più neanche farsi sfiorare, sussurra il corpo. Io allungo una mano sulla spalla dell’altro figlio disteso poco più in là e lo accarezzo.
Sto diventando un pigrone smidollato, si lagna il cervello. Dormi, sentenzia il corpo. Io non faccio niente.
Il sole non è ancora sorto. La mia mano prende gli occhiali e li appoggia sul comodino. Le palpebre sono pesanti e non oppongono resistenza. Si sta così comodi distesi nel letto, al calduccio. Il corpo ha ragione. Non c’è fretta. Oggi vince lui. Mi dispiace cervello. Non c’è impegno che regga il confronto di stare abbracciati ai tuoi figli di cinque anni e sette anni in un uggioso lunedì mattina di novembre. La mia faccia è all’altezza della loro. Non c’è niente che mi possa togliere da qui. Io e i bambini siamo tutt’uno. Inspiriamo ed espiriamo in sincrono. Tutto emana armonia celestiale. Loro mi respirano in faccia e io…
Noooo, urla il cervello. Mi hai fatto prendere un colpo, sussulta il corpo. Io apro gli occhi di colpo.
La fiatella nauseabonda mattutina dei miei figli dà la scossa definitiva alla partita. Il cervello ritrova forze inaspettate. Io mi scosto dalla posizione fetale che avevo assunto e mi allontano dall’odore fatale dell’alito.
Sono le sette e venti, va in panico il cervello. Aspetta, hai ancora bisogn… il corpo non fa in tempo a replicare e io sono già in piedi.
Maledetto cervello. Alla fine ha vinto ancora lui. Con la sua insensibile astuzia l’ha spuntata anche questo lunedì.
Dall’altra parte c’è un tipo magrolino. I suoi occhiali hanno le lenti spesse e la montatura nera di gomma rigida. Il suo sguardo è mefistofelico e la sua espressione facciale sottolinea la sua scaltrezza e preparazione. Tiene la corda con due dita come se gli facesse schifo, ma grazie alle sue subdole capacità manipolative del pensiero è come se avesse una forza insuperabile.
I due titani sono alla pari. Entrambi tirano la corda con la stessa intensità e potenza. Ognuno di loro ha i propri metodi infallibili. Entrambi sanno quello che stanno facendo. Entrambi sono convinti di vincere.
E io?
Io sono in mezzo. Trascinato a destra e a sinistra, in avanti e indietro da questi due enti immaginari che non mi lasciano in pace. Succede spesso.
Questa mattina ne è stato un esempio.
È lunedì. Sono le sette, ma sono sveglio da venti minuti. Ho appena finito di fare colazione e sono ancora in pigiama. Ho lasciato dormire un po’ i bambini. Dormono in due letti vicini e si tengono la mano. Sono così carini e soprattutto così silenziosi quando dormono che mi dispiace doverli svegliare, ma è ormai giunto il momento di alzarsi dal letto e andare in cucina dove latte e cereali li aspettano.
Apro le tende per fare luce, ma non ha nessun effetto perché fuori è ancora buio. Mollo un urlaccio che li intima ad alzarsi ma non vengo ascoltato. Scosto le coperte e l’unico risultato che ottengo è una contrazione involontaria dei loro muscoli condita da un paio di mugugni.
Ci vuole qualcosa di più. Qualcosa di più forte. Ci vuole l’artiglieria pesante. Mi abbasso e scuoto mio figlio più piccolo nel tentativo di trascinarlo via dal mondo dei sogni. In tutta risposta lui si gira di scatto e mi arpiona il collo con le sue braccia calde dalla notte appena trascorsa. Perdo l’equilibrio e cado sul letto al suo fianco. Il mostriciattolo piovra di cinque anni ne approfitta per spostarsi velocemente verso di me e mi blocca anche con le gambe. Sono immobilizzato.
Ed è proprio in quel momento che inizia il tiro alla fune tra i due titani sopraccitati, il muscoloso energumeno e il diabolico manipolatore.
Non posso, dice subito il cervello. Rilassati, suggerisce il corpo. Io do un bacio a mio figlio sulla guancia soffice e rotonda.
Dovete andare a scuola e io al lavoro, protesta il cervello. Non senti quant’è morbido il materasso, fa notare il corpo. Io ricambio l’abbraccio.
In effetti giusto oggi non c’è fretta, constata il cervello. È così piacevole qui, sorride il corpo. La mia mano si sposta magicamente sulle coperte e le sistema sopra le nostre spalle.
Non posso accettare di arrivare troppo tardi al lavoro, analizza il cervello. Goditi questi momenti perché non torneranno quando questi due saranno adolescenti e non vorranno più neanche farsi sfiorare, sussurra il corpo. Io allungo una mano sulla spalla dell’altro figlio disteso poco più in là e lo accarezzo.
Sto diventando un pigrone smidollato, si lagna il cervello. Dormi, sentenzia il corpo. Io non faccio niente.
Il sole non è ancora sorto. La mia mano prende gli occhiali e li appoggia sul comodino. Le palpebre sono pesanti e non oppongono resistenza. Si sta così comodi distesi nel letto, al calduccio. Il corpo ha ragione. Non c’è fretta. Oggi vince lui. Mi dispiace cervello. Non c’è impegno che regga il confronto di stare abbracciati ai tuoi figli di cinque anni e sette anni in un uggioso lunedì mattina di novembre. La mia faccia è all’altezza della loro. Non c’è niente che mi possa togliere da qui. Io e i bambini siamo tutt’uno. Inspiriamo ed espiriamo in sincrono. Tutto emana armonia celestiale. Loro mi respirano in faccia e io…
Noooo, urla il cervello. Mi hai fatto prendere un colpo, sussulta il corpo. Io apro gli occhi di colpo.
La fiatella nauseabonda mattutina dei miei figli dà la scossa definitiva alla partita. Il cervello ritrova forze inaspettate. Io mi scosto dalla posizione fetale che avevo assunto e mi allontano dall’odore fatale dell’alito.
Sono le sette e venti, va in panico il cervello. Aspetta, hai ancora bisogn… il corpo non fa in tempo a replicare e io sono già in piedi.
Maledetto cervello. Alla fine ha vinto ancora lui. Con la sua insensibile astuzia l’ha spuntata anche questo lunedì.
Nessun commento:
Posta un commento