Così all’improvviso, come spesso mi
capita, mentre sto procrastinando qualsiasi compito mi capiti sotto le mani
scorrendo inebetito le pagine di Facebook mi ritrovo nello spazio. No, non
finisco sulla pagina di Myspace che forse ormai non esiste più o quantomeno che
nessuno usa più da cent’anni, ma vengo scaraventato senza pietà nello spazio vero
e proprio, nell’universo ignoto. Non ho ossigeno, soprattutto al cervello, mi
pare evidente, ma inspiegabilmente sopravvivo. Non sono morto. Peggio: non sono
ancora morto e sono nel vuoto della mia mente.
Mi sento perso come una sonda Voyager che vaga e inevitabilmente, prima o poi, verrà attratta e inghiottita senza rimorso da un qualsiasi buco nero sparso nel cosmo. Mi sento vuoto. Non ho idee. Non so da dove sono arrivato e non so dove sto andando. Manco a pieno il perfetto paradigma dell’uomo di mezza età realizzato e sicuro di sé. Rotolo all’infinito come i miei pensieri senza senso. Alcune volte il passaggio dal buio di una notte insonne al profondo nero dello spazio è rapido e con dolore. Altre volte invece mi sveglio la mattina e, PUFF, eccomi a volteggiare vertiginosamente alla periferia del più grande pianeta del sistema solare. Grande Giove, che nausea! Io non avrei mai voluto essere Io e ora non ci posso fare niente. Io, il satellite del gigante gassoso, intendo… anche se spesso non vorrei neanche essere me stesso per tutti i cliché che butto dentro alla rinfusa in quello che scrivo. Nettuno mi aveva avvisato che sarebbe finita così, ma io non l’ho ascoltato e ho fatto ancora una volta di testa mia e ora mi ritrovo a prenderlo nell’Urano.
Mentre mi vergogno della brutta serie di battute da terza elementare che ho appena scritto, la fascia di asteroidi mi sfreccia a filo del fianco e per fortuna non mi sfascia la faccia, poi fugge lontano. In quel momento mi accorgo di avere un tardigrado davanti agli occhi, così a caso, non c’entra niente con la storia, ma lo metto qui perché ho appena letto un libro sugli animali più resistenti del mondo a mio figlio di sei anni e anche per distrarmi dal patetico tentativo di formulare un’annominazione, una figura retorica che ho dovuto cercare sul dizionario perché non sapevo si chiamasse così e che probabilmente ho anche usato in modo incorretto.
Poi continuo a vagare a caso nel vuoto. Non sono finito in un buco nero come avevo previsto nei miei pensieri più catastrofici, ma neanche attorno a un pianeta maggiore. Gravito invece a tratti nell’orbita di Plutone, il pianeta reietto, l’escluso, che non ha neanche la forza di trattenermi e infatti, dopo qualche piroetta, mi lancia di nuovo nello spazio a fare bungee jumping, senza corda.
Saltello e gironzolo nell’universo smisurato senza sapere come tornare a casa sulla Terra evitando di sfracellarmi al suolo durante l’atterraggio e soprattutto senza sapere come chiudere questo orribile pezzo. Così, dopo aver denigrato le mie capacità di scrittore nella patetica speranza che qualcuno mi conforti solo per ridurre momentaneamente le mie ansie e alimentare i miei circoli viziosi dell’insicurezza rendendomi inconsolabile e logorroico, non aggiungo nient’altro di significativo, lascio tutto così e scrivo la parola.
Fine.
Mi sento perso come una sonda Voyager che vaga e inevitabilmente, prima o poi, verrà attratta e inghiottita senza rimorso da un qualsiasi buco nero sparso nel cosmo. Mi sento vuoto. Non ho idee. Non so da dove sono arrivato e non so dove sto andando. Manco a pieno il perfetto paradigma dell’uomo di mezza età realizzato e sicuro di sé. Rotolo all’infinito come i miei pensieri senza senso. Alcune volte il passaggio dal buio di una notte insonne al profondo nero dello spazio è rapido e con dolore. Altre volte invece mi sveglio la mattina e, PUFF, eccomi a volteggiare vertiginosamente alla periferia del più grande pianeta del sistema solare. Grande Giove, che nausea! Io non avrei mai voluto essere Io e ora non ci posso fare niente. Io, il satellite del gigante gassoso, intendo… anche se spesso non vorrei neanche essere me stesso per tutti i cliché che butto dentro alla rinfusa in quello che scrivo. Nettuno mi aveva avvisato che sarebbe finita così, ma io non l’ho ascoltato e ho fatto ancora una volta di testa mia e ora mi ritrovo a prenderlo nell’Urano.
Mentre mi vergogno della brutta serie di battute da terza elementare che ho appena scritto, la fascia di asteroidi mi sfreccia a filo del fianco e per fortuna non mi sfascia la faccia, poi fugge lontano. In quel momento mi accorgo di avere un tardigrado davanti agli occhi, così a caso, non c’entra niente con la storia, ma lo metto qui perché ho appena letto un libro sugli animali più resistenti del mondo a mio figlio di sei anni e anche per distrarmi dal patetico tentativo di formulare un’annominazione, una figura retorica che ho dovuto cercare sul dizionario perché non sapevo si chiamasse così e che probabilmente ho anche usato in modo incorretto.
Poi continuo a vagare a caso nel vuoto. Non sono finito in un buco nero come avevo previsto nei miei pensieri più catastrofici, ma neanche attorno a un pianeta maggiore. Gravito invece a tratti nell’orbita di Plutone, il pianeta reietto, l’escluso, che non ha neanche la forza di trattenermi e infatti, dopo qualche piroetta, mi lancia di nuovo nello spazio a fare bungee jumping, senza corda.
Saltello e gironzolo nell’universo smisurato senza sapere come tornare a casa sulla Terra evitando di sfracellarmi al suolo durante l’atterraggio e soprattutto senza sapere come chiudere questo orribile pezzo. Così, dopo aver denigrato le mie capacità di scrittore nella patetica speranza che qualcuno mi conforti solo per ridurre momentaneamente le mie ansie e alimentare i miei circoli viziosi dell’insicurezza rendendomi inconsolabile e logorroico, non aggiungo nient’altro di significativo, lascio tutto così e scrivo la parola.
Fine.
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