Mi guardo riflesso sullo schermo nero
del computer spento e l’immagine guarda me. Non so se sorridere o sputarmi in
faccia. Faccio una via di mezzo: un ghigno. Devo andarmene da questa casa. Prima
però devo uscire dalla mia stanza e affrontare gli altri. Mi stanno aspettando
tutti. Manco solo io alla riunione di famiglia. Mi alzo e lascio il portatile
aperto alle mie spalle. L’immagine sembra rimanere lì beffarda, quasi a dirmi “Io
non mi muovo”. Ma io devo andare.
Esco dalla stanza. Controllo sullo
specchio lungo del corridoio come mi sta il maglione. Ho una macchia all’altezza
del petto. Tipico. Non sono l’unico a notarla.
Mio padre mi ferma, mi squadra dalla
testa ai piedi. Mi chiede perché non metto mai una giacca, perché non sappia
mai tenermi in ordine e perché stia sempre un po’ gobbo. Con il suo solito tono
da sergente di ferro mi rimprovera di essere in ritardo. Lui pensa di sapere perché
e non tarda a rinfacciarmelo. Smettila di studiare psicologia, mi dice. Lascia
stare quelle perdite di tempo. Sono solo stupidaggini. Se solo avessi deciso di
studiare ingegneria come mi aveva suggerito lui… non avrei comunque mai ottenuto
il suo rispetto ma almeno avrei una camicia addosso e lui forse sarebbe meno incazzato.
Mio padre mi tira un’altra brutta occhiataccia e mi lascia andare.
Vado a fare pipì e a sistemarmi i
capelli allo specchio del bagno. Lì ci trovo mia zia Franca: una donna che col
tempo ha perso un po’ di entusiasmo e di coraggio ma è ancora vispa. Lei ha vissuto
il ’68 e non mi stupirei se di nascosto si facesse ancora le canne. Non lo
farebbe mai a casa mia, ma qualcuno ha esagerato con il deodorante per ambienti
in bagno. Avevo mal di pancia, mi dice. Faccio fatica a crederle. Lei però cambia
argomento. So cosa facevi in camera tua da solo, mi fa con tono accogliente mentre
mi prende sottobraccio. Vorrei dirle che non sono più un adolescente, ma sto zitto
per pudore e per non creare una situazione imbarazzante. Tu stavi scrivendo, mi
dice con mio grande sollievo. Non lo ascoltare tuo padre, continua. Se vuoi scrivere,
scrivi. Segui il tuo cuore. Scrivi ogni volta che puoi. Lasciati andare. Non farti
scappare tutte quelle belle idee che hai. Leggo sempre quello che scrivi, sai: sei
forte! Mi rincuora sentire tutti i suoi incoraggiamenti. Esco dal bagno galvanizzato.
In fin dei conti potrei restare a questa cena di famiglia.
Scendendo le scale controllo il cellulare
e sul riflesso dello schermo noto un pelo bianco sulla barba. Rimango accigliato.
Mia madre mi ferma e guardandomi in faccia mi chiede. Ti vedo pallido, stai bene?
Non ho tempo di rispondere che lei mi abbraccia e mi sommerge di domande. Hai mangiato
qualcosa? Sei sicuro di non voler stare in camera tua? Hm, forse è meglio prendere
un po’ d’aria, no? Hai salutato lo zio Gianni e la zia Franca? Perché hai fatto
arrabbiare tua sorella? Hai fatto quello che ti ha chiesto tuo padre? Hai chiuso
la porta a chiave quando sei uscito ieri?
Scanso mia madre con una mano e vado
oltre. Sono riuscito ad arrivare in fondo alle scale. La porta di casa è a un passo,
prendo in mano il giubbotto e la tentazione di uscire è forte. Dove pensi di
andare? Mia moglie mi blocca subito. Non penserai mica di andare via e lasciarmi
qui da sola con tutta la tua famiglia? Non passi abbastanza tempo con noi, mi
rimprovera. Guarda tuo figlio: gioca sempre da solo. Perché non stai più con
lui? Butto l’occhio verso il bambino di due anni che, seduto sul pavimento, muove
una macchinina lego. Lui risponde al mio sguardo e sorride. Brum-brum-papà, conferma
lui l’invito. Sei sempre pieno di impegni: lavoro, hobbies, amici… ti sei dimenticato
di noi. Un velo di tristezza mi avvolge. Lo capisco dal mio sguardo riflesso
sullo specchio in fondo alle scale. Riappoggio il giubbotto e vado in salotto.
Pss! Pss! Mio cugino Alfredo
richiama la mia attenzione. Che vorrà ora? Lascia stare tua moglie. Lascia
stare tuo padre. E lascia stare anche mia madre che ti dice di buttarti sulla scrittura.
Ah, ecco dove voleva arrivare. Rilassati un po’, mi fa lui appoggiato al muro mentre
armeggia con un coltello d’argento rilucente che probabilmente si intascherà a
fine serata. Goditi la vita. Lascia perdere quello che ti dicono gli altri. Fai
il tuo lavoro di psicologo e lascia stare il resto… anzi, sai cosa? Lascia stare
anche il tuo lavoro: prendi un volo di sola andata per gli Stati Uniti e fatti
un bel coast-to-coast oppure vai in India, in Giamaica, in Messico… vai dove ti
pare, guarda, ma vai via da qua. Lasciati andare, cazzo! Sei sempre così rigido.
Facile parlare per lui che non ha moglie, figli e lavoro stabile…
Mi giro dall’altra parte ma lo faccio
troppo velocemente e vado a sbattere contro l’anta della cristalliera. Noto subito
che la mia fronte riflessa sulla vetrina è già rossa: mi verrà un bernoccolo. Male,
vero? Mi chiede mia sorella col suo solito sarcasmo. Io annuisco. Quindi ora
capisci come ci si sente a vedere la mamma che sta sempre peggio con l’ansia e tu
sei l’unica persona che la sta aiutando, vero? Mia sorella è tagliente come sempre.
Tu te ne sei andato dal paese e l’hai lasciata a me, vero? Torni qui per le feste
e ammazzano pure il vitello grasso per te, vero? Ma durante il resto dell’anno
a lei non ci pensi, vero? Vorrei risponderle che si sbaglia ma non mi lascia parlare.
Forse perché credi che almeno il papà stia bene, vero? Invece non sai che lui è
sempre più testardo e perso nella sua ricerca dell’ordine, vero? Sarai anche diventato
padre ma mi sa che ti sei dimenticato di essere ancora un figlio, vero?
E dai respiro a questo ragazzo! Mio
zio Toni con la sua voce decisa mi salva dai cazzotti di mia sorella. La mia faccia
martoriata (l’ho vista io stessa riflessa sui suoi occhiali spessi) deve avergli
fatto pietà. Lo zio Toni mi offre un bicchiere di vino e mi trascina fuori dalla
calca di parenti e dal brusio generale. Mi guarda dritto negli occhi e sentenzia.
Sei vuoi scrivere, scrivi! Buttati a capofitto e fanculo il resto. Se vuoi fare
lo psicologo, studia! Trova la tua specialità e sbaraglia gli altri. Se vuoi fare
il cazzone, cazzeggia… ma alla grande però! Ride e m’inonda con i suoi sputacchi
e il fiato etilico. Fai quello che ti pare, conclude, ma fallo al cento per cento!
Basta con ste mezze misure del cazzo! Mi dà una pacca sulle spalle e mi spinge via.
Se solo sapessi veramente quello che voglio e che posso fare…
Senza accorgermene sono finalmente nell’ingresso. Nessuno mi guarda. Nessuno
mi ferma. Ho bisogno di fare una passeggiata. Da solo. È il mio momento. Prendo
al volo il giubbotto e mi sistemo il berretto in testa. Sono pronto. Gli altri si
accorgono solo ora delle mie mosse e si ammutoliscono all’improvviso. Passo la
soglia ed esco. Ce l’ho fatta. Sono fuori. Sono uscito dalla mia mente: mi sa proprio
che devo togliere un po’ di specchi.