Sono seduto sullo sdraio in
spiaggia. Mio figlio è a qualche metro di distanza, indica una bella ragazza distesa
sull’asciugamano nei pressi di un ombrellone vicino e urla.
— Papà, di chi è questa troia?
Io lo guardo e senza esitare rispondo con un sorriso.
— È mia! Ora vengo a prendermela!
Gelo nello stabilimento balneare anche se ci sono 38 gradi. Il fidanzato della ragazza in questione, un energumeno di due metri per uno di soli muscoli, prima s’indispettisce poi fa finta di non aver sentito e mi risparmia la vita solo per non provocare a mio figlio il trauma di vedere il proprio padre pestato a sangue. Mi lancia comunque un’occhiataccia per farmi capire tutto questo concetto appena espresso. Anche il suo sguardo fa comunque male e io comincio a massaggiarmi la spalla dolorante. Non capisco questo astio nei miei confronti.
All’ultimo secondo però ho un’intuizione. Cerco subito nel marsupio finché trovo quello che volevo: un paio di occhiali speciali color giallo-blu e una specie di auricolare da infilare nell’orecchio. È il mio dispositivo svedese che mi aiuta a reinterpretare gli eventi appena successi. È essenziale se si manca dall’Italia da più di dieci mesi.
Schiaccio indietro veloce e…
— Papà, di chi è questa tröja*?
Mio figlio regge un maglioncino leggero tenendo il braccio teso di lato e accidentalmente indica anche la bella ragazza vicina d’ombrellone. Io non noto la bella ragazza (va beh… l’avevo notata prima, ma non noto che mio figlio la sta indicando) e mi concentro solo sulla maglia. Sorrido e rispondo.
— È mia! Ora vengo a prendermela!
Niente di strano, vero? Col dispositivo svedese tutto torna nella norma. Nel dubbio me ne vado prima che l’energumeno cambi idea sulla sorte che mi spetta.
(* piccolo vocabolario svedese-italiano: tröja = maglione).
Nel tardo pomeriggio stiamo
passeggiando serenamente per Lignano. Passando vicino a un bar animato da abitudinari
bevitori di vino e sfegatati bestemmiatori, i miei figli si contendono qualcosa
che tengono in mano. Litigano e alzano la voce.
— Sono mie. Ora gioco io, ‘io can!
— No. Tocca a me, ‘io can!
Un arzillo signore friulano di circa ottant’anni, incallito giocatore di briscola, tresette e morra, ferma la sua partita per alzarsi dal tavolo. Mi si avvicina commosso, mi dà una pacca sulle spalle e mi fa i complimenti.
— Finalmente qualcuno che cresce i bambini come si deve!
Poi torna al suo posto, non prima di aver scatarrato sul marciapiede una sostanza viscida verde.
Non capisco, ma ringrazio per cortesia (per il complimento, non per lo sputacchio).
Nel frattempo prendo il dispositivo svedese. Infilo occhiali e auricolare e rivedo la scena.
I miei figli stanno litigando su chi debba giocare con le carte Pokemon che abbiamo appena comprato.
— Sono mie. Ora gioco io. Jag kan**!
— No. Tocca a me. Jag kan**!
Ah… ora mi è tutto più chiaro. Proseguiamo per la nostra strada cambiando marciapiede per evitare di schiacciare altre sorpresine lasciate dagli abitatori del bar.
(** vocabolario SVE-ITA: jag kan = Io posso… detto velocemente suona come la popolare bestemmia del triveneto).
Il giorno dopo, di nuovo in
spiaggia. I bambini giocano sulla battigia con dei nuovi amichetti. Ridono, scherzano
e si divertono felici finché mio figlio Sebastian grida a suo fratello.
— Alexander puttanier m’incula!
Io osservo interessato lo sviluppo della prossima mossa di Alexander.
Le madri degli altri bambini invece s’irrigidiscono, si avvicinano ai loro figli e li portano via, lanciandomi uno sguardo di disprezzo per il linguaggio sboccato che consento ai miei figli.
Io penso che non abbiano fatto niente di male, ma poi mi ricordo di inforcare il dispositivo svedese e rivivere l’evento.
Rewind e…
I bambini stanno giocando con le biglie sulla sabbia bagnata. La partita è concitata. Mio figlio Sebastian è in testa e spera ovviamente di non essere superato. La sua biglia è in cima a un dosso.
— Alexander, putta ner min kula***!
Incita beffardamente il fratello Alexander a colpire la sua biglia così da rimanergli dietro e allo stesso tempo far avanzare ancora Sebastian.
Ora ho capito l’accaduto. Mi giro a cercare di spiegare agli altri genitori, ma è troppo tardi: mi hanno segnalato al bagnino.
(*** vocabolario SVE-ITA: putta ner = spingi giù; min kula = la mia biglia).
Qualche giorno dopo siamo al bar del
lungomare. È il primo pomeriggio e cerchiamo refrigerio all’ombra del tendone. Mi
volto a destra e a sinistra. Non c’è molta gente. Guardo mia moglie con voglia
e penso sia il momento giusto per approfittarne ora che i bambini sonnecchiano
sulla panchina.
— Mi dai la fica?
Credevo di averlo sussurrato, invece devo averlo detto a voce abbastanza alta. Lei si arrabbia.
— No! L’hai già avuta stamattina a tavola quando c’erano i bambini. Basta!
Un signore che non avevo notato, seduto a qualche tavolo dietro di noi, indomito berlusconiano voyeurista dei bei tempi, rizza le orecchie e si risveglia allupato dal sonnellino post prandiale.
Non capisco perché ci rivolga quello sguardo fantozziano davanti alla televisione nell’attesa che qualcuno si tolga le mutande. Poi ricordo di controllare con il dispositivo svedese che fortunatamente porto sempre con me.
Mia moglie sta mangiando un bombolone alla marmellata. Ce ne sono anche in Svezia, ma quelli dei bar italiani mi piacciono di più e io non so proprio resistere. Mi pento di non averne ordinato uno anch’io e chiedo golosamente a mia moglie.
— Mi dai la fika****?
Lei non ci sta. Vuole mangiarsi tutto il bombolone e mi rinfaccia di averle fregato il cornetto al cioccolato stamattina durante lo spuntino. Io rimango deluso.
Anche il signore sulla sessantina del tavolo vicino è confuso e scontento per non essere riuscito a godersi la scena da sexy commedia all’italiana degli anni ’70 che si era illuso di vedere.
Vorrei spiegargli cosa intendevo dire, ma lui ha già ricominciato a russare.
(**** vocabolario SVE-ITA: fika = classico termine svedese che sta a indicare una pausa durante la giornata, spesso accompagnata da un caffè e/o da un dolcetto).
Le vacanze al mare in Italia stanno
andando bene, ma non benissimo.
— Papà, di chi è questa troia?
Io lo guardo e senza esitare rispondo con un sorriso.
— È mia! Ora vengo a prendermela!
Gelo nello stabilimento balneare anche se ci sono 38 gradi. Il fidanzato della ragazza in questione, un energumeno di due metri per uno di soli muscoli, prima s’indispettisce poi fa finta di non aver sentito e mi risparmia la vita solo per non provocare a mio figlio il trauma di vedere il proprio padre pestato a sangue. Mi lancia comunque un’occhiataccia per farmi capire tutto questo concetto appena espresso. Anche il suo sguardo fa comunque male e io comincio a massaggiarmi la spalla dolorante. Non capisco questo astio nei miei confronti.
All’ultimo secondo però ho un’intuizione. Cerco subito nel marsupio finché trovo quello che volevo: un paio di occhiali speciali color giallo-blu e una specie di auricolare da infilare nell’orecchio. È il mio dispositivo svedese che mi aiuta a reinterpretare gli eventi appena successi. È essenziale se si manca dall’Italia da più di dieci mesi.
Schiaccio indietro veloce e…
— Papà, di chi è questa tröja*?
Mio figlio regge un maglioncino leggero tenendo il braccio teso di lato e accidentalmente indica anche la bella ragazza vicina d’ombrellone. Io non noto la bella ragazza (va beh… l’avevo notata prima, ma non noto che mio figlio la sta indicando) e mi concentro solo sulla maglia. Sorrido e rispondo.
— È mia! Ora vengo a prendermela!
Niente di strano, vero? Col dispositivo svedese tutto torna nella norma. Nel dubbio me ne vado prima che l’energumeno cambi idea sulla sorte che mi spetta.
(* piccolo vocabolario svedese-italiano: tröja = maglione).
— Sono mie. Ora gioco io, ‘io can!
— No. Tocca a me, ‘io can!
Un arzillo signore friulano di circa ottant’anni, incallito giocatore di briscola, tresette e morra, ferma la sua partita per alzarsi dal tavolo. Mi si avvicina commosso, mi dà una pacca sulle spalle e mi fa i complimenti.
— Finalmente qualcuno che cresce i bambini come si deve!
Poi torna al suo posto, non prima di aver scatarrato sul marciapiede una sostanza viscida verde.
Non capisco, ma ringrazio per cortesia (per il complimento, non per lo sputacchio).
Nel frattempo prendo il dispositivo svedese. Infilo occhiali e auricolare e rivedo la scena.
I miei figli stanno litigando su chi debba giocare con le carte Pokemon che abbiamo appena comprato.
— Sono mie. Ora gioco io. Jag kan**!
— No. Tocca a me. Jag kan**!
Ah… ora mi è tutto più chiaro. Proseguiamo per la nostra strada cambiando marciapiede per evitare di schiacciare altre sorpresine lasciate dagli abitatori del bar.
(** vocabolario SVE-ITA: jag kan = Io posso… detto velocemente suona come la popolare bestemmia del triveneto).
— Alexander puttanier m’incula!
Io osservo interessato lo sviluppo della prossima mossa di Alexander.
Le madri degli altri bambini invece s’irrigidiscono, si avvicinano ai loro figli e li portano via, lanciandomi uno sguardo di disprezzo per il linguaggio sboccato che consento ai miei figli.
Io penso che non abbiano fatto niente di male, ma poi mi ricordo di inforcare il dispositivo svedese e rivivere l’evento.
Rewind e…
I bambini stanno giocando con le biglie sulla sabbia bagnata. La partita è concitata. Mio figlio Sebastian è in testa e spera ovviamente di non essere superato. La sua biglia è in cima a un dosso.
— Alexander, putta ner min kula***!
Incita beffardamente il fratello Alexander a colpire la sua biglia così da rimanergli dietro e allo stesso tempo far avanzare ancora Sebastian.
Ora ho capito l’accaduto. Mi giro a cercare di spiegare agli altri genitori, ma è troppo tardi: mi hanno segnalato al bagnino.
(*** vocabolario SVE-ITA: putta ner = spingi giù; min kula = la mia biglia).
— Mi dai la fica?
Credevo di averlo sussurrato, invece devo averlo detto a voce abbastanza alta. Lei si arrabbia.
— No! L’hai già avuta stamattina a tavola quando c’erano i bambini. Basta!
Un signore che non avevo notato, seduto a qualche tavolo dietro di noi, indomito berlusconiano voyeurista dei bei tempi, rizza le orecchie e si risveglia allupato dal sonnellino post prandiale.
Non capisco perché ci rivolga quello sguardo fantozziano davanti alla televisione nell’attesa che qualcuno si tolga le mutande. Poi ricordo di controllare con il dispositivo svedese che fortunatamente porto sempre con me.
Mia moglie sta mangiando un bombolone alla marmellata. Ce ne sono anche in Svezia, ma quelli dei bar italiani mi piacciono di più e io non so proprio resistere. Mi pento di non averne ordinato uno anch’io e chiedo golosamente a mia moglie.
— Mi dai la fika****?
Lei non ci sta. Vuole mangiarsi tutto il bombolone e mi rinfaccia di averle fregato il cornetto al cioccolato stamattina durante lo spuntino. Io rimango deluso.
Anche il signore sulla sessantina del tavolo vicino è confuso e scontento per non essere riuscito a godersi la scena da sexy commedia all’italiana degli anni ’70 che si era illuso di vedere.
Vorrei spiegargli cosa intendevo dire, ma lui ha già ricominciato a russare.
(**** vocabolario SVE-ITA: fika = classico termine svedese che sta a indicare una pausa durante la giornata, spesso accompagnata da un caffè e/o da un dolcetto).
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