Ce l’ho fatta! Incredibile, ma ci
sono riuscito. Ora sono nel bagno di questo locale dove suonano musica hard
rock dal vivo. Che bei ricordi. Ci sono arrivato nel momento esatto. Che memoria.
Sono infatti davanti a un ragazzo di ventisei anni, tre mesi e dodici giorni.
— Non lo fare! — gli dico — Non bere quella birra che ti sta aspettando al tavolo con gli amici. Stasera ti fermerà la polizia e ti toglierà la patente.
— Che cazzo vuoi? È solo la seconda birra. Non sono mica così scemo da guidare ubriaco.
— Lo so, ma basta per l’etilometro.
— Ma smettila. E poi chi cazzo sei tu per dirmelo? Ma vattene a fanculo!
Niente. Non ha capito chi ero e non mi ha ascoltato. Se ne va. Devo andare via anch’io. Chiudo gli occhi, mi concentro, appoggio l’indice della mano destra sulla tempia destra e l’indice della mano sinistra sulla tempia sinistra. Passano un paio di secondi e sparisco nel nulla tra lo stupore di un signore in piedi davanti all’orinatoio che per cercare di capire cosa sia successo si è pisciato sui pantaloni.
Chi era quel ragazzo con cui parlavo? Ma come chi? Ero sempre io. Non si vedeva la somiglianza? Va bene, ora ho qualche ruga e qualche capello bianco in più ma sono sempre io. Credevo che fosse più facile… ahhhh! Urlo dal dolore ma ricompaio esattamente dove volevo: qualche anno prima. Sono in macchina. Sono sul sedile posteriore della mia* (*di mia madre) Fiat Uno.
— Bacia quella ragazza stasera! Lei ci sta.
Il mio me stesso diciannovenne, sette mesi e ventun giorni per poco non sbanda con l’auto quando si accorge che ci sono anch’io.
— Ancora tu, ma si può sapere che cazzo vuoi? Mi hai fatto venire un colpo.
— Sì, sempre io. Ti ho detto: bacia quella ragazza stasera.
— Ma non saremo soli, ci sono altri compagni di classe.
— Lo so, ma alla fine rimarrete solo tu e lei… e ci sarà un motivo, vero?
— Mah… non so.
— Il motivo è che lei ci sta! Credimi.
Lui esita.
— Devo andare ora, fai come ti dico. Non fare il coglione come al solito!
— Oh coglione sarai tu! Ah, e la prossima volta avverti prima di arrivare così all’improvviso… hey, ma dove sei sparito?
Il mio me stesso da giovane ha fermato l’auto per cercarmi, ma ovviamente non mi troverà. Io sono già da un’altra parte. Ricompaio, infatti, davanti a me stesso a ventiquattro anni, undici mesi e due giorni. Appena mi vede sbuffa.
— Coglione, quella ragazza di sei anni fa mi ha dato un ceffone quando ho provato a baciarla!
— Hm… scusa. Mi sbagliavo: non ci stava. Errore mio.
— Cazzo vuoi ora?
— Ho solo cinque minuti, poi sparisco.
— Lo so… allora?
— La vedi quella ragazza là in fondo che ti aspetta? Non la baciare.
— Ma è il mio appuntamento di stasera. Ci sto provando da mesi e ora finalmente ha deciso di uscire con me e ora tu mi…
— Ti ho detto di non baciarla. Ti si attacca come una cozza e non te la togli più di dosso.
— Hm. E prima bacia quella… poi non baciare questa. Oh senti Coso, lasciami in pace.
— Ma no, fidati.
Mi spinge via e va verso la ragazza. Con gli occhi pieni di libidine andrà sicuramente a baciarla. Sbaglia. Di brutto. Se ne pentirà… me ne pentirò. Devo fare meglio di così. Se voglio salvare la mia vita, devo fare meglio. Mi nascondo in un vicolo, chiudo gli occhi, mi concentro, dita sulle tempie e… via!
Sono all’uscita di un liceo scientifico. Il mio liceo scientifico. Eccomi là a diciotto anni, cinque mesi e sedici giorni. Fermo subito me stesso mentre passeggio da solo verso la fermata della corriera.
— Ti posso rubare un minuto?
— Hm… che cosa vuoi? Non compro niente… non voglio fumo. Aspetta, io e te ci siamo già visti prima?
— Non credo. Senti. Tu vorresti studiare psicologia, vero?
— Hm… sì — lui è stupito, lo capisco —Come fai a saperlo?
Come faccio a saperlo? Lo so perché lo sai tu. Troppo complicato da spiegare e non ho tempo per farlo. Quindi mi invento una scusa.
— Te ne ho sentito parlare con quella tua compagnia di classe là giù. Beh, ti posso dare un consiglio? Studia altro. Non andare all’università per fare psicologia. Non in Italia almeno. È una passione, lo so, ma farai una fatica matta a trovare lavoro. Ti dovrai sobbarcare i mille problemi degli altri e non avrai tempo di sistemare i tuoi. Sarai sempre al limite dell’esaurimento emotivo e molto spesso i pazienti non ti ringrazieranno neanche. Vero, ogni tanto sarà gratificante aver aiutato gli altri, ma chiediti se ne vale davvero la pena. — non lo lascio rispondere — Studia informatica… è il futuro. Studia economia… avrai il posto di lavoro assicurato. Studia… (Dio perdonami per quello che sto per dire) ingegneria. Studia…
— Ma io faccio schifo in matematica.
— Hm… hai ragione. Lascia stare le ultime due! Studia architettura… l’unica sufficienza che hai è in disegno tecnico e storia dell’arte.
— Beh, anche filosofia e storia…
Lo prendo per le spalle e lo scuoto.
— Filosofia e storia? Filosofia e storia? Ma senti quello che stai dicendo? Quelle materie ti porteranno alla rovina.
— Mi piace anche scrivere!
— Faccio finta di non aver sentito… tu sei un pazzo!
Sono un pazzo. Il me stesso mi rifila una bella spinta e si allontana a passo spedito. Ha ragione. Così sto sbagliando di brutto. Se voglio evitare una vita piena di dubbi e indecisioni, devo agire in modo diverso. Non faccio in tempo a piangermi addosso che il dolore alle tempie aumenta. Mi concentro e riesco a comandarlo.
Sono ancora davanti allo stesso liceo. Non mi sono spostato di tanto. Fisicamente no, ma temporalmente sì. Mi sono appena visto all’età di quattordici anni, sette mesi e cinque giorni entrare dall’ingresso principale. Devo raggiungermi al più presto. Sono le sette e quarantacinque del mattino. Tra poco inizieranno le lezioni. C’è un sacco di gente e lui, cioè io, si è appena fermato a controllare in quale classe dovrà andare oggi. Mi faccio largo tra la folla e lo fermo. Quello davanti a me è solo un ragazzetto sbarbato, insicuro, sensibile e un po’ sfigato con quegli occhiali dalle lenti spesse quanto il fondo di una bottiglia e i primi brufoli che gli falcidieranno la faccia per i prossimi sette o otto anni.
— Scusami Roberto* (*nome di fantasia) — lui è stupito di vedermi, crederà che sia il genitore di qualche altro studente — Volevo dirti che…
Che cosa gli posso dire? Mah, di osare a essere sé stesso? Di andare avanti per la propria strada nonostante le difficoltà? Sì, potrei, ma sarebbero solo frasi fatte. Che cosa me ne sarei fatto di essere me stesso se all’epoca non sapevo chi ero veramente (come se lo sapessi ora…)? Che cosa ne avrei concluso seguendo la mia strada se mi sentivo perso? Forse non gli direi niente di tutto questo, ma gli darei una pacca sulle spalle e gli direi che io ci sarò sempre per lui, più di quanto lui creda. Poi gli direi anche di lanciarsi, di lasciarsi andare, di perdere il controllo ogni tanto, di provarci sempre, di seguire l’istinto quando sembra la scelta giusta ma hai lo stesso il mal di pancia per la paura. Gli direi che spesso sbaglierà, ma che fa parte del gioco. E allora gioca, ragazzo!
Il mio me stesso adolescente raddrizza la schiena e guarda fiero in avanti. Vedendolo così sicuro di sé stesso, una ragazza gli sorride e si avvicina a lui per parlargli. Beh dai, incredibile: sono riuscito a fare del bene. Oddio, aspetta un secondo: quella è la ragazza più bella della scuola, il sogno bagnato di ogni adolescente, la top model del liceo, il visino e corpicino migliori degli anni ’90 (lei però non sa che ora è ingrassata di trenta chili e ha la faccia butterata… l’ho incontrata ieri al supermercato). Tutto questo è un sogno che si sta realizzando. Sento le campane a festa nella mia testa. No, non sono capane. È un ronzio fastidioso. È un suono ripetitivo che mi penetra le tempie. Il suono è ritmico e non accenna a smettere. Non riesco a fare niente. Alla fine sento dei colpi ben assestati sulle gambe. Mi fanno male. Finalmente ho capito cosa sta succedendo. Questo non è un sogno. Non è mai andata così. Quello che vedo non è mai successo.
Apro gli occhi, anche se erano già aperti e fissi verso un punto vuoto. È il 20 dicembre del 2021. Sono di nuovo nel presente. Stavo solo rimuginando sul passato. L’ho fatto un’altra volta. Ci sono ricascato. Devo smetterla. Sono appena tornato in bicicletta dal mio lavoro come psicologo. Sono nel salotto di casa mia. Mio figlio mi strattona i pantaloni mentre sbatte ripetutamente un oggetto contro il mobile. Gli sorrido. Guardo più in là e c’è mia moglie che gioca con i lego assieme all’altro mio figlio. Siamo felici. Questo mi basta. Se le scelte che ho fatto mi hanno portato a questo punto non c’è niente da cambiare. Niente rimpianti o rimorsi.
Mio figlio mi colpisce ancora con qualcosa sulle gambe. Io mi giro di scatto e urto leggermente il mobile con lo smartphone che ho appena comprato. Solo in quel momento mi accorgo che l’oggetto che tiene in mano è un Nokia 3310. Ancora integro e intatto dopo tutti questi anni. Sullo schermo del mio nuovo smartphone invece si è appena formata una crepa.
Beh, forse qualche rimpianto dei tempi passati ce l’abbiamo.
— Non lo fare! — gli dico — Non bere quella birra che ti sta aspettando al tavolo con gli amici. Stasera ti fermerà la polizia e ti toglierà la patente.
— Che cazzo vuoi? È solo la seconda birra. Non sono mica così scemo da guidare ubriaco.
— Lo so, ma basta per l’etilometro.
— Ma smettila. E poi chi cazzo sei tu per dirmelo? Ma vattene a fanculo!
Niente. Non ha capito chi ero e non mi ha ascoltato. Se ne va. Devo andare via anch’io. Chiudo gli occhi, mi concentro, appoggio l’indice della mano destra sulla tempia destra e l’indice della mano sinistra sulla tempia sinistra. Passano un paio di secondi e sparisco nel nulla tra lo stupore di un signore in piedi davanti all’orinatoio che per cercare di capire cosa sia successo si è pisciato sui pantaloni.
Chi era quel ragazzo con cui parlavo? Ma come chi? Ero sempre io. Non si vedeva la somiglianza? Va bene, ora ho qualche ruga e qualche capello bianco in più ma sono sempre io. Credevo che fosse più facile… ahhhh! Urlo dal dolore ma ricompaio esattamente dove volevo: qualche anno prima. Sono in macchina. Sono sul sedile posteriore della mia* (*di mia madre) Fiat Uno.
— Bacia quella ragazza stasera! Lei ci sta.
Il mio me stesso diciannovenne, sette mesi e ventun giorni per poco non sbanda con l’auto quando si accorge che ci sono anch’io.
— Ancora tu, ma si può sapere che cazzo vuoi? Mi hai fatto venire un colpo.
— Sì, sempre io. Ti ho detto: bacia quella ragazza stasera.
— Ma non saremo soli, ci sono altri compagni di classe.
— Lo so, ma alla fine rimarrete solo tu e lei… e ci sarà un motivo, vero?
— Mah… non so.
— Il motivo è che lei ci sta! Credimi.
Lui esita.
— Devo andare ora, fai come ti dico. Non fare il coglione come al solito!
— Oh coglione sarai tu! Ah, e la prossima volta avverti prima di arrivare così all’improvviso… hey, ma dove sei sparito?
Il mio me stesso da giovane ha fermato l’auto per cercarmi, ma ovviamente non mi troverà. Io sono già da un’altra parte. Ricompaio, infatti, davanti a me stesso a ventiquattro anni, undici mesi e due giorni. Appena mi vede sbuffa.
— Coglione, quella ragazza di sei anni fa mi ha dato un ceffone quando ho provato a baciarla!
— Hm… scusa. Mi sbagliavo: non ci stava. Errore mio.
— Cazzo vuoi ora?
— Ho solo cinque minuti, poi sparisco.
— Lo so… allora?
— La vedi quella ragazza là in fondo che ti aspetta? Non la baciare.
— Ma è il mio appuntamento di stasera. Ci sto provando da mesi e ora finalmente ha deciso di uscire con me e ora tu mi…
— Ti ho detto di non baciarla. Ti si attacca come una cozza e non te la togli più di dosso.
— Hm. E prima bacia quella… poi non baciare questa. Oh senti Coso, lasciami in pace.
— Ma no, fidati.
Mi spinge via e va verso la ragazza. Con gli occhi pieni di libidine andrà sicuramente a baciarla. Sbaglia. Di brutto. Se ne pentirà… me ne pentirò. Devo fare meglio di così. Se voglio salvare la mia vita, devo fare meglio. Mi nascondo in un vicolo, chiudo gli occhi, mi concentro, dita sulle tempie e… via!
Sono all’uscita di un liceo scientifico. Il mio liceo scientifico. Eccomi là a diciotto anni, cinque mesi e sedici giorni. Fermo subito me stesso mentre passeggio da solo verso la fermata della corriera.
— Ti posso rubare un minuto?
— Hm… che cosa vuoi? Non compro niente… non voglio fumo. Aspetta, io e te ci siamo già visti prima?
— Non credo. Senti. Tu vorresti studiare psicologia, vero?
— Hm… sì — lui è stupito, lo capisco —Come fai a saperlo?
Come faccio a saperlo? Lo so perché lo sai tu. Troppo complicato da spiegare e non ho tempo per farlo. Quindi mi invento una scusa.
— Te ne ho sentito parlare con quella tua compagnia di classe là giù. Beh, ti posso dare un consiglio? Studia altro. Non andare all’università per fare psicologia. Non in Italia almeno. È una passione, lo so, ma farai una fatica matta a trovare lavoro. Ti dovrai sobbarcare i mille problemi degli altri e non avrai tempo di sistemare i tuoi. Sarai sempre al limite dell’esaurimento emotivo e molto spesso i pazienti non ti ringrazieranno neanche. Vero, ogni tanto sarà gratificante aver aiutato gli altri, ma chiediti se ne vale davvero la pena. — non lo lascio rispondere — Studia informatica… è il futuro. Studia economia… avrai il posto di lavoro assicurato. Studia… (Dio perdonami per quello che sto per dire) ingegneria. Studia…
— Ma io faccio schifo in matematica.
— Hm… hai ragione. Lascia stare le ultime due! Studia architettura… l’unica sufficienza che hai è in disegno tecnico e storia dell’arte.
— Beh, anche filosofia e storia…
Lo prendo per le spalle e lo scuoto.
— Filosofia e storia? Filosofia e storia? Ma senti quello che stai dicendo? Quelle materie ti porteranno alla rovina.
— Mi piace anche scrivere!
— Faccio finta di non aver sentito… tu sei un pazzo!
Sono un pazzo. Il me stesso mi rifila una bella spinta e si allontana a passo spedito. Ha ragione. Così sto sbagliando di brutto. Se voglio evitare una vita piena di dubbi e indecisioni, devo agire in modo diverso. Non faccio in tempo a piangermi addosso che il dolore alle tempie aumenta. Mi concentro e riesco a comandarlo.
Sono ancora davanti allo stesso liceo. Non mi sono spostato di tanto. Fisicamente no, ma temporalmente sì. Mi sono appena visto all’età di quattordici anni, sette mesi e cinque giorni entrare dall’ingresso principale. Devo raggiungermi al più presto. Sono le sette e quarantacinque del mattino. Tra poco inizieranno le lezioni. C’è un sacco di gente e lui, cioè io, si è appena fermato a controllare in quale classe dovrà andare oggi. Mi faccio largo tra la folla e lo fermo. Quello davanti a me è solo un ragazzetto sbarbato, insicuro, sensibile e un po’ sfigato con quegli occhiali dalle lenti spesse quanto il fondo di una bottiglia e i primi brufoli che gli falcidieranno la faccia per i prossimi sette o otto anni.
— Scusami Roberto* (*nome di fantasia) — lui è stupito di vedermi, crederà che sia il genitore di qualche altro studente — Volevo dirti che…
Che cosa gli posso dire? Mah, di osare a essere sé stesso? Di andare avanti per la propria strada nonostante le difficoltà? Sì, potrei, ma sarebbero solo frasi fatte. Che cosa me ne sarei fatto di essere me stesso se all’epoca non sapevo chi ero veramente (come se lo sapessi ora…)? Che cosa ne avrei concluso seguendo la mia strada se mi sentivo perso? Forse non gli direi niente di tutto questo, ma gli darei una pacca sulle spalle e gli direi che io ci sarò sempre per lui, più di quanto lui creda. Poi gli direi anche di lanciarsi, di lasciarsi andare, di perdere il controllo ogni tanto, di provarci sempre, di seguire l’istinto quando sembra la scelta giusta ma hai lo stesso il mal di pancia per la paura. Gli direi che spesso sbaglierà, ma che fa parte del gioco. E allora gioca, ragazzo!
Il mio me stesso adolescente raddrizza la schiena e guarda fiero in avanti. Vedendolo così sicuro di sé stesso, una ragazza gli sorride e si avvicina a lui per parlargli. Beh dai, incredibile: sono riuscito a fare del bene. Oddio, aspetta un secondo: quella è la ragazza più bella della scuola, il sogno bagnato di ogni adolescente, la top model del liceo, il visino e corpicino migliori degli anni ’90 (lei però non sa che ora è ingrassata di trenta chili e ha la faccia butterata… l’ho incontrata ieri al supermercato). Tutto questo è un sogno che si sta realizzando. Sento le campane a festa nella mia testa. No, non sono capane. È un ronzio fastidioso. È un suono ripetitivo che mi penetra le tempie. Il suono è ritmico e non accenna a smettere. Non riesco a fare niente. Alla fine sento dei colpi ben assestati sulle gambe. Mi fanno male. Finalmente ho capito cosa sta succedendo. Questo non è un sogno. Non è mai andata così. Quello che vedo non è mai successo.
Apro gli occhi, anche se erano già aperti e fissi verso un punto vuoto. È il 20 dicembre del 2021. Sono di nuovo nel presente. Stavo solo rimuginando sul passato. L’ho fatto un’altra volta. Ci sono ricascato. Devo smetterla. Sono appena tornato in bicicletta dal mio lavoro come psicologo. Sono nel salotto di casa mia. Mio figlio mi strattona i pantaloni mentre sbatte ripetutamente un oggetto contro il mobile. Gli sorrido. Guardo più in là e c’è mia moglie che gioca con i lego assieme all’altro mio figlio. Siamo felici. Questo mi basta. Se le scelte che ho fatto mi hanno portato a questo punto non c’è niente da cambiare. Niente rimpianti o rimorsi.
Mio figlio mi colpisce ancora con qualcosa sulle gambe. Io mi giro di scatto e urto leggermente il mobile con lo smartphone che ho appena comprato. Solo in quel momento mi accorgo che l’oggetto che tiene in mano è un Nokia 3310. Ancora integro e intatto dopo tutti questi anni. Sullo schermo del mio nuovo smartphone invece si è appena formata una crepa.
Beh, forse qualche rimpianto dei tempi passati ce l’abbiamo.