mercoledì 3 giugno 2020

RACCONTI – Crescita (due punto) zero


«È arrivato! È arrivato!» Urla mia moglie entrando in casa e saltando per la gioia.
Io sto tranquillamente seduto al tavolo della cucina leggendo al computer le notizie della giornata su questo maledetto nuovo virus. Le grida provenienti dall’ingresso mi fanno sobbalzare e quasi rovesciare addosso il caffè che stavo bevendo. Non faccio in tempo a chiedere di che si tratta che mia moglie si è già seduta sulle mie ginocchia. È raggiante e ripete ancora una volta con gli occhi lucidi: «Finalmente è arrivato!». A quel punto capisco. Capisco perché tutto quell’entusiasmo non poteva che arrivare da un profondo senso di liberazione dopo la ricerca spasmodica delle ultime settimane. Giorni e giorni passati a rimbalzare come una pallina del flipper da un angolo all’altro della città. L’attesa è finalmente finita. Mia moglie non riesce a trattenere l’eccitazione e non sta ferma un momento.
«È ora di mettersi all’opera. Non possiamo aspettare oltre. Bisogna cogliere l’attimo. Domani potrebbe essere già troppo tardi.» Poi si alza di scatto e si rimbocca le maniche.
Non vorrei smorzare il suo slancio e bloccare il treno dei suoi pensieri, così chiedo timidamente, più per curiosità che per un reale bisogno di sapere: «Dove lo hai trovato?»
«Al supermercato in fondo alla strada.»
Io faccio una faccia sorpresa: ero stato allo stesso negozio il giorno precedente senza successo.
«Un colpo di fortuna: erano appena arrivati i nuovi rifornimenti.» Mia moglie chiarisce e io le sorrido. «Allora, che fai ancora lì fermo? Non mi aiuti?»
Mi alzo dalla sedia e mi metto sull’attenti. Poi mi lavo le mani e sono pronto. Al mio rientro in cucina lei è già in assetto da guerra: ha tirato fuori dagli scaffali tutte le farine che abbiamo, ha disposto cinque ciotole sul piano di lavoro, in ordine crescente di grandezza, mestoli e cucchiai sono sparpagliati sul tavolo, uova, latte e burro sono pronti per essere pesati dalla bilancia e il rubinetto è aperto con l’acqua corrente. Come ogni grande ospite d’onore che si rispetta, per ultimo, in calcolato ritardo, entra lui: il lievito. Mia moglie ed io lo accogliamo con un meritato applauso. Non ci facciamo distrarre, però, da nessun timore reverenziale e cominciamo subito. Una volta scartata la confezione, il lievito si presenta soffice e fresco (quello secco in polvere si è dato alla macchia ed è veramente introvabile). Mia moglie lo scalfisce con il coltello e ne porta via una parte, poi calcola le porzioni per gli altri ingredienti e li mette assieme. Ora tocca a me, la forza bruta, mescolare il tutto per raggiungere una consistenza omogenea. A lei non importa se uso mestoli, cucchiai o le mani nudi: il fine deve giustificare i mezzi. Così, in pochi minuti abbiamo un impasto per la pizza pronto. Copro la terrina con un panno e lo metto in un luogo fresco e asciutto. Il tempo farà il resto.
Non faccio in tempo a prendere fiato che mi ritrovo davanti un altro contenitore con ingredienti da mescolare. Mi metto all’opera senza fiatare perché so quanto abbiamo aspettato questo momento e in un attimo ho preparato l’impasto per il pane, che anche in questo caso viene coperto e lasciato riposare.
Ora è il turno della focaccia salata, poi del ciambellone allo yogurt per la colazione e infine dei panetti dolci allo zafferano, una mia richiesta personale. Tutti mescolati energicamente e ora messi a lievitare nei diversi angoli della cucina. Mia moglie è stanca ma felice. Sognava questo giorno dall’inizio del mese, da quando il lievito era sparito dalla circolazione. Io sono esausto e ho dolori muscolari. Non ricordo di avere così male al braccio destro da quando ero adolescente. Vedere mia moglie così contenta, però, alleggerisce la fatica. Vedere il suo sorriso raggiante rinfranca lo spirito.  Inoltre, ora possiamo finalmente fare anche noi come gli impasti preparati: riposare. I piatti sporchi possono aspettare.
«Andiamo a farci una passeggiata per prendere un po’ d’aria?» Le chiedo.
«No. Preferisco stare qui ad aspettare e controllare gli impasti mentre leggo un libro.»
Ottima scelta anche la sua, ma io ho proprio bisogno di uscire un po’ e così metto le scarpe, m’infilo la mascherina e vado fuori. La giornata di oggi è stupenda, decido così di fare un giro al parco qui vicino. In un attimo attraverso la strada trafficata sotto casa e sono nell’angolo verde del quartiere. Nelle stradine del parco incrocio i tipici frequentatori del luogo: mamme o papà col passeggino, bambini che corrono tenendo in mano il loro bastone preferito, cani e padroni di cani (senza capire chi dei due stia portando a spasso l’altro), filosofi solitari, innamorati che si tengono per guanto. Sorrido e proseguo fino alla riva del lago. Lancio un sasso ma faccio un buco nell’acqua. Mi consolo guardando le anatre che nuotano sincronizzate sul pelo dell’acqua e godendomi il sole al tramonto che si rispecchia sul lago. Il tramonto? È già così tardi? Portando a spasso miei pensieri ho perso la concezione del tempo e si è fatto più tardi di quello che pensavo. Saranno passate due ore. È ora di tornare a casa.
Cammino velocemente e in breve tempo giungo al mio palazzo. Apro il portone e mentre sto mettendo la chiave nella toppa della porta di casa, mi assale una strana sensazione provocata da un odore tipico, che conosco molto bene ma che avevo quasi dimenticato negli ultimi tempi. È un odore dolce, leggermente acidulo, ma gradevole. Lo riconosco e me ne rallegro, ma nonostante l’olfatto ne sia soddisfatto, il sesto senso non mi lascia in pace. Proprio quando sono fermo da qualche secondo con la chiave nella serratura, sento un rumore. È la voce di mia moglie. Sta urlando. Mi sblocco dall’impasse e apro in fretta la porta di casa. Ad attendermi c’è una massa giallognola, soffice e pastosa. La riconosco subito: è l’impasto della pizza. Si è impossessato dell’ingresso e mi intima a non entrare. Mia moglie sta ancora urlando in qualche angolo della casa. Non posso tirarmi indietro, la devo salvare. Afferro allora un ombrello appeso all’attaccapanni, avvolgo il braccio con un giubbotto che uso come scudo e infine mi metto il casco della bici in testa come protezione. Sono pronto alla guerra. Brandisco l’ombrello e avanzo cercando di non mostrare la mia paura. Con un paio di sciabolate ben assestate riesco a farmi strada nell’ingresso. L’impasto ha subito il colpo e indietreggia in un'altra stanza. Ora posso muovermi con più dimestichezza.
«Aiuto!» Questa è ancora la voce di mia moglie che mi chiama. Non c’è da rilassarsi per una battaglia vinta. Si deve lottare ancora.
«Dove sei, cara?»
«Sono prigioniera in cucina.»
«Che cosa è successo?»
«Il lievito è dappertutto. Dopo che sei andato via tu, mi sono addormentata sul divano e mi sono risvegliata tutta appiccicosa.»
«Vengo a prenderti!»
«Fai attenzione. Ho provato di tutto: l’acqua, la farina, i mestoli e persino lo sbattitore automatico.» Mi dice singhiozzando «Non ha funzionato niente!»
Deglutisco nervosamente e raccolgo una scarpa dal pavimento come arma. Poi faccio un passo in direzione della voce di mia moglie e per poco non mi accorgo che alle spalle mi sta aggredendo un’altra palla gigante color beige. Questa volta è il pane che è abbondantemente strabordato dal suo contenitore e ha preso il controllo del salotto. Mi giro di scatto e lancio la scarpa col tacco che avevo in mano. Il pane lo schiva e poi si allunga verso di me. Con il giubbotto che uso come scudo mi proteggo e con l’ombrello allontano il pane che poi si ritrae impaurito. Tiro un sospiro di sollievo e procedo verso la cucina. Lungo tutto il corridoio, sui mobili e persino sul soffitto ci sono resti di impasto e di lievito che ogni tanto cadono per terra come bombe sganciate da un caccia bombardiere. In casa aleggia lo stesso odore che avevo percepito fuori dalla porta di casa ma ora è molto più acidulo e intenso. Con passi felpati fiancheggio il muro e arrivo alla maniglia. Provo a guardare dal buco della serratura per studiare le loro mosse ma non si vede niente. Si sente solo un gorgoglio inquietante: è il lievito che cresce ancora; il lievito non smette mai di crescere. Meglio passare all’attacco deciso. Con un calcio spingo la porta. La scena che mi si presenta davanti mi lascia pietrificato. Il ciambellone cinge con forza mia moglie al centro della stanza. I dolcetti gialli alla zafferano si sono moltiplicati da soli e ora sorvegliano il perimetro del tavolo come dei soldati dell’armata rossa. L’impasto della focaccia è ormai imbevuto d’olio e blocca la finestra.
«Salvami amore. Mi stanno stritolando!»
Devo muovermi. I lievitati ghignano beffardi. Io sto esplodendo di rabbia. Impulsivamente faccio un balzo in avanti. È però un errore. Ho dimenticato la pizza, che, saltando fuori da dietro la porta, mi blocca ogni via di fuga. Sono spacciato.
L’impasto della pizza si avvicina lentamente da dietro, mentre i panetti allo zafferano strisciano nella mia direzione inebriandomi col loro odore dolciastro. Sono circondato. Lancio un’altra scarpa che avevo trovato in corridoio ma non va a segno. Provo a roteare il giubbotto sopra la testa, ma si appiccica all’impasto unto della focaccia e si blocca. Cerco di tenere i miei aggressori a distanza con l’ombrello ma loro sono troppi per me. Il ciambellone se la ride e continua a tenere stretta mia moglie. Inesorabilmente sto per essere anch’io inghiottito. Il potere del lievito cresce sempre di più e io sto per essere la sua prossima vittima. Mi viene da piangere. Guardo mia moglie per salutarla un’ultima volta e un po’ per chiederle scusa per averla lasciata da sola e per non essere riuscito a salvarla. Lei però scuote il capo: lo fa perché è delusa di me o forse perché vuole dire di non preoccuparmi e che mi capisce? Io comunque mi vergogno.
«Scusa tesoro. Ci ho provato… ti amo!»
Lei continua a scuotere il capo. Perché lo fa? Non riesco a capire. Non mi ama più?
«Non ti arrendere…» riesce a dire con voce impastata prima che l’impasto le blocchi la bocca. Ed è lì che capisco. Idiota che non sono altro. Mi ci sono voluti più di cinque minuti di gesti muti per capirlo. Mia moglie non stava scuotendo il capo per di no, stava indicando qualcosa. Voleva attirare la mia attenzione verso una credenza della cucina. Che trovata geniale! Come ho fatto a non arrivarci prima?
Il lievito approfitta del mio momento di riflessione e si avvicina pericolosamente. Con un’attenta pianificazione delle mie prossime mosse sono però pronto a porre fine a questa panificazione mal riuscita. Faccio un passo verso il muro, prendo una breve rincorsa, mi aggancio al lampadario con il manico dell’ombrello e mi proietto verso la credenza da bravo Indiana Jones. All’improvviso non sono più circondato. Questa mossa rocambolesca ha colto di sorpresa gli impasti e mi dà libertà di movimento per alcuni secondi. Quanti bastano per fare la mia prossima mossa. Apro l’anta dell’armadietto e trovo quello che cercavo.
Prendo il primo pacchetto, lo apro ed estraggo un rotolo. Mi avvolgo la mano, poi continuo con l’avambraccio. Finito il primo rotolo, prendo il secondo e mi avvolgo tutto il resto del braccio e la spalla. Prendo il terzo e il quarto rotolo e avvolgo l’altro braccio. Gli impasti osservano increduli le mie mosse. Non hanno ancora capito quello che sta per capitare loro. Non sanno ancora che hanno le ore contate. Con il secondo pacchetto che trovo nella credenza avvolgo il busto. Passando ai pacchetti e ai rotoli successivi avvolgo anche le gambe finché sono pronto: tutto il corpo e ricoperto dalla carta soffice e vellutata. Sono ormai un piccolo omino Michelin, fatto di molti strati di resistente carta igienica. Fortunatamente ne avevamo fatto scorte interminabili durante questa pandemia e finalmente è servita a qualcosa.
Col mio sguardo, non più smarrito ma deciso, sfido il lievito e poi mi lancio all’attacco.
«Banzai!» Urlo senza pensarci due volte. In un attimo sono addosso all’impasto della pizza che si attacca alla carta e non al mio corpo. A piene mani afferro i dolcetti allo zafferano che ora si dimenano impotenti tra i vari fogli di carta igienica nei quali li ho intrappolati. Mi libero del primo strato di carta dove ho bloccato gli impasti e sono pronto al secondo attacco. Così mi lancio sull’impasto di focaccia denso d’olio. Questo sarà un osso duro. Devo tenerlo fermo anche con le gambe ma alla fine ho la meglio. Ora mi manca solo il ciambellone che ormai non ride più ma al contrario trema. Faccio un passo in avanti volteggiando un rotolo. Leggo il terrore nei suoi occhi ma io non ho pietà e mi lancio contro di lui. Mia moglie chiude gli occhi per la paura ma intravedo un sorriso sulle sue labbra. Sa che sto per salvarla. Con una mossa da karate, infatti, spezzo in due l’impasto del ciambellone e lo circondo di carta. Mia moglie è libera e mi abbraccia felice. Io, però, non rido ancora. Non abbiamo finito.
In salotto c’è ancora l’impasto del pane. Passo un paio di rotoli di carta a mia moglie e io ne prendo altri due. Poi ci dirigiamo in sala. Con passo felpato sorprendiamo l’ultimo impasto da due lati. Gli corriamo attorno velocemente senza dargli tempo di reagire e lo blocchiamo senza troppe difficoltà. Abbiamo vinto. Il lievito si è sgonfiato e ha perso.
Usiamo il resto della carta per togliere i residui rimasti sulle pareti e poi buttiamo tutto in grandi sacchi neri della spazzatura. È finita. Possiamo finalmente festeggiare. In cucina ci aspettano un barattolo di fagioli e uno di ceci. Brindiamo poi con una coppa di latte a lunga conservazione. Di questi tempi andrebbero preservati, ma le vittorie vanno celebrare. Sì, perché abbiamo vinto noi. Le chiacchiere e la crescita del lievito stanno a zero.

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