giovedì 24 gennaio 2019

HORROR ALL’ITALIANA – Villaggio maledetto

È notte. Fuori fa freddo. Fulmini squarciano il cielo. I lampi illuminano la città e i tuoni spaccano i timpani. La pioggia cade fitta e bagna le coscienze della gente. A parte il temporale tutto tace. 
Non c’è molto da fare nel piccolo villaggio: un unico bar ormai chiuso, un cinema dismesso, una sala bingo con il vietato l’ingresso ai minori di sessantacinque anni, la grande città viva a più di cinquanta chilometri di distanza… e tanta pioggia. Tantissima pioggia. In quel villaggio nordeuropeo piove sempre. Quello che però sarebbe un luogo senza speranza per molti è invece terreno fertile per un missionario italiano come me, dedito alla salvezza delle genti del nord. Quella che per molti sembra una missione impossibile, già fallita dai miei predecessori, per me è una sfida: la leggenda narra, infatti, che in quel villaggio ci sia una maledizione che nessuno sia mai riuscito a raccontare, tantomeno a sconfiggere. Niente di meglio per un giovane volenteroso come me, armato delle tante lettere d’incoraggiamento del mio predecessore. Sono appena arrivato al villaggio, stanco e spossato dopo cinquantadue ore di treno, dopo aver attraversato quattro paesi diversi, facendo scalo in dodici città. Uscito dalla stazione ferroviaria, incontro un senzatetto che mi accoglie benevolmente nella lingua locale: «Benvenuto, straniero!». Oh, la gente del posto è molto garbata. Poi però guardo meglio e mi accorgo che il senzatetto accompagna le sue parole con un sorriso e un gesto della mano che sembra indicarmi di andare via. Che voglia lanciarmi un monito? Forse sono troppo stanco per capirci qualcosa. Meglio rifocillarsi. Il senzatetto allora mi mostra indice e medio e li fa rotare mimando una forchetta. Mi sta invitando a condividere un pasto. Io annuisco e lui mi lancia una coperta. Poi torna a dormire. Pur rimanendo perplesso e deluso, lo ringrazio. Mi metto a dormire anch’io. Il mattino seguente vengo svegliato da un poliziotto del villaggio che, rigirando più volte la punta del suo dito medio sulla propria guancia, mi fa: «Si alzi. Lei è quello della missione, vero?» Annuisco e, un po’ intontito, chiedo. «Che ore sono?». Lui alza al cielo l’indice e mignolo e li agita: «Sono le due». Ho dormito parecchio, penso, ma perché mi ha fatto le corna? È uno scongiuro per neutralizzare la maledizione? «Mi scusi, agente, mi potrebbe portare dal mio predecessore?» Il poliziotto alza le spalle, unisce indice e pollice, formando un cerchio, e li porta verso la bocca. «Oh sì, grazie agente, mi servirebbe proprio un caffè!» «Non c’è tempo per il caffè» Risponde lui scocciato. «Ma se me l’ha proposto lei ora…» Il poliziotto si gratta un paio di volte il sottomento con il dorso delle dita, dimostrando disinteresse, ma poi replica arrabbiatissimo: «Se non la smette con queste richieste assurde, non la porto da nessuna parte, è chiaro?» Io ammutolisco. Ma dove sono capitato? Una strana sensazione di terrore mi sale dalla spina dorsale fino alla punta dei capelli. Il poliziotto ed io rimaniamo in silenzio e mentre camminiamo noto che il villaggio si è animato un po’. È domenica e gli abitanti si ritrovano per le strade e nella piazza centrale per scambiare chiacchiere e opinioni. C’è però qualcosa di strano nel loro comportamento. Qualcosa che non colgo nell’immediato, ma solo dopo una più attenta osservazione: la gente gesticola moltissimo, più del necessario. Non riesco a sentire cosa dicono, ma li vedo solo muovere le mani a dismisura. Lo stesso brivido di terrore mi assale di nuovo. Non ci faccio caso e, animato dal mio entusiasmo, accelero il passo per giungere alla mia meta. A un certo punto, però, il poliziotto si ferma e mi indica una casa in fondo alla via. Poi se ne va invitandomi a proseguire da solo. Mi saluta facendo un pugno con la mano ma chiudendo un dito alla volta partendo dal mignolo. Che sia una zona dove rubano molto e lui non vuole prendersi il rischio? Penso stupito. Il quartiere è in realtà tranquillissimo, esattamente come il resto del villaggio. Una sola cosa mi colpisce: man mano che mi avvicino alla casa che il poliziotto mi ha indicato, sento un pianto crescente. Prima fievole, poi sempre più forte e disperato. Mi avvicino con paura ma anche con curiosità. Quando giungo a pochi metri dalla casa, un ragazzo si avvicina a passo spedito e con sguardo gioviale. «Benvenuto!» Tiene la punta delle dita della mano destra unite e agita il polso in un gesto interrogativo. Poi afferma deciso. «Tu devi essere il nuovo missionario! Ti aspettavamo con ansia! Io sono il tuo nuovo assistente, nonché ex-assistente del tuo predecessore. Ora te la presento.» Appena il ragazzo finisce di parlare, il pianto all’interno dell’abitazione diventa ancora più forte. «Non ti preoccupare, fa così da solo due settimane di fila…» Sono terrorizzato ma anche eccitato per la mia missione. Entro nella casa e poi nella sala principale dove c’è il mio predecessore. Una ragazza giovane, ma che sembra vecchia e stanca. Appena mi vede, smette di piangere di colpo e si asciuga velocemente le lacrime. Il ragazzo mi saluta picchiettandosi l’indice sulla tempia e mi dice prima di andarsene: «Sarà un piacere assisterti!» Io mi rivolgo alla missionaria, finalmente in italiano, la nostra lingua madre: «Eri tu quella che piangeva tanto? Che ti è successo?» «Niente, non stavo piangendo.» risponde con gli occhi ancora rossi. Sono molto perplesso ma non lo faccio troppo a vedere per buona educazione, così cambio discorso: «Ho letto con ammirazione tutte le tue lettere di richiesta aiuto. Mi hai raccontato di una scuola. Di che si tratta?» Lei sembra nervosa e poi indica un cartello appeso al muro, con la scritta “SCUOLA DI GuSTI – decimo anniversario”. Il cartello ha qualcosa di strano, ma non capisco cosa. «Ah, una scuola di cucina per insegnare ai popoli del nord come cucinare all’italiana. Ottimo! Sarò lieto di proseguire la tua strada.» Lei annuisce, mentre si soffia in naso. Poi solleva le sue valige, appoggiate lì vicino. «Scusami, ora devo proprio andare. Il mio treno parte tra poco…» «Ma come, pensavo che avremmo collaborato assieme!» «No, no. Tu sei molto più bravo. Ora che ci sei tu, potrai mandare tu avanti questa scuola di… cucina!» Poi esce di fretta e corre verso la stazione. Il ragazzo assistente la saluta dalla finestra, sfregando il pollice e l’indice: «Ci mancherai!» Osservo il gesto del ragazzo con irrequietezza. Forse ho capito, ma non voglio ammetterlo a me stesso. Ho paura. Tanta paura. Dalla finestra si alza una folata di vento che fa cadere un pezzo del cartellone di prima. La verità della maledizione mi è finalmente rivelata, ma ormai è troppo tardi per tornare indietro. Quella che mi ha preceduto è già corsa alla stazione con un sospiro di sollievo. Ho paura a guardare il cartello, ma alla fine lo faccio. Il cartello recita “SCUOLA DI GESTI – decimo anniversario”. È questa dunque la condanna di un missionario italiano in terra nordica: insegnare la gestualità italiana a chi compie gesti a casaccio… e fallire indecorosamente, come hanno fatto tutti i miei predecessori! È un incubo. Non mi resta che cominciare a scrivere lettere di aiuto e sperare che qualcun altro venga a salvarmi, occupando il mio posto in questo villaggio maledetto.

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