A quindici anni immaginavo un
castello come quello nelle favole. Lo visualizzavo in continuazione senza fatica
davanti ai miei occhi, chiusi o aperti che fossero. Lo vedevo perfetto, senza
una crepa sulle mura di cinta, col fossato di acqua potabile, con i fuochi
d'artificio sullo sfondo, l'alone solare a semicerchio tutto attorno e la
musichetta sognante in sottofondo. Non c'era nessun nemico in vista a
minacciarlo ed era difeso da draghi alati buoni che rispondevano ai miei
comandi come cagnolini ammaestrati. Un sogno insomma.
A vent'anni avevo capito che non sarebbe mai arrivato il castello della Disney, ma speravo ancora che fosse quello dal quale hanno preso ispirazione: il castello di Neuschwanstein in Baviera. Non sapevo come si pronunciava ma mi convincevo che lo avrei imparato, così come sarei riuscito a scalarlo là su sulla sua bella collina. Lo ammiravo integrato nel contesto circostante: bianco e immacolato, coi tetti blu come il cielo e le sue guglie appuntite che stagliano tra il verde della foresta. Bellissimo, anche se non propriamente soleggiato in un freddo inverno teutonico. Lo pensavo inarrivabile, inespugnabile ma avevo ancora tutta la forza e la speranza che la gioventù potesse offrirmi ed ero convinto che prima o poi mi sarei seduto sul trono di quella fortezza. Spesso perdevo più tempo a sognarlo che a lavorare duramente per conquistarlo. Peccati di gioventù, dicevo. Il tempo è dalla mia parte, pensavo. Confidavo che prima o poi avrei trovato tutti i pezzi per comporre quel meraviglioso puzzle della Ravensburger.
A trent'anni avevo smesso di farmi castelli in aria e mi ero concentrato sulla concretezza. Una fortezza medioevale semplice avrebbe fatto al caso mio e sarebbe bastata a ottenere il mio obiettivo. Magari un castello situato in cima a una montagna, con il fossato profondo, coccodrilli affamati nell'acqua gelata, arcieri a difesa con frecce e olio bollente da versare senza pietà su chiunque osasse tentare un'invasione. Lo volevo dotato di un enorme trono d'oro, lunghi tappeti rossi in tutte le stanze, un bacchetto sempre imbandito per sfamare ogni mio sfizio, cortigiane pronte a soddisfare ogni mio vizio, paggi e giullari di corte istruiti a intrattenermi a ogni mio gesto. Immaginavo dunque un palazzo dove potessi essere il re indiscusso, il monarca incontrastato e adorato. A ripensarci non avevo per niente smesso di fare castelli in aria.
A trentacinque anni ormai giocavo con i castelli della Duplo e della Lego, completamente assoggettato a un despota a quattro zampe col ciuccio in bocca che ordinava omogeneizzati al pollo insipido e cambio di pannolino ogni ora. Tra un sonnellino e l'altro sul divano, nei rari momenti di calma, mi accontentavo di una torre di quel castello che tanto avevo idealizzato solo qualche anno prima. Anche le rovine andavano bene, a essere sinceri. Delle rovine ben in vista, curate e che trasmettessero il ricordo di un passato fasto e glorioso. Col passare degli anni, però, la rovina si era ricoperta di edere e di erbacce e persino io facevo fatica a trovarla tra gli arbusti e la terra bruciata.
E alla fine arriviamo al giorno d'oggi. A quarant'anni sono ormai costretto a modellare un castello di sabbia. Le torrette, le mura di cinta ben levigate, il fossato, gli ingressi con ponte levatoio e le bandierine sulle guglie sono presenti come da manuale delle giovani marmotte. La costruzione è bella ma troppo in balia del vento delle critiche e della marea dei miei umori.
In fondo, quindi, resto solo con un mucchio di sabbia in mano. Non mi rimane altro. Questo mi fa paura. Provo a proteggerla dagli schizzi d'acqua del mare e della pioggia per non farla diventare fango. Stringo forte ma più la schiaccio tra i palmi delle mani e più mi sfugge tra le dita.
Alla fine capisco. Credo di sapere quello che devo fare. Lascio che il vento se la porti via e osservo la sua danza nel vento. Ammiro il suo balletto infinito tra la sabbia dorata e il cielo blu nella speranza di poter continuare a sognare ancora per un po'.
A vent'anni avevo capito che non sarebbe mai arrivato il castello della Disney, ma speravo ancora che fosse quello dal quale hanno preso ispirazione: il castello di Neuschwanstein in Baviera. Non sapevo come si pronunciava ma mi convincevo che lo avrei imparato, così come sarei riuscito a scalarlo là su sulla sua bella collina. Lo ammiravo integrato nel contesto circostante: bianco e immacolato, coi tetti blu come il cielo e le sue guglie appuntite che stagliano tra il verde della foresta. Bellissimo, anche se non propriamente soleggiato in un freddo inverno teutonico. Lo pensavo inarrivabile, inespugnabile ma avevo ancora tutta la forza e la speranza che la gioventù potesse offrirmi ed ero convinto che prima o poi mi sarei seduto sul trono di quella fortezza. Spesso perdevo più tempo a sognarlo che a lavorare duramente per conquistarlo. Peccati di gioventù, dicevo. Il tempo è dalla mia parte, pensavo. Confidavo che prima o poi avrei trovato tutti i pezzi per comporre quel meraviglioso puzzle della Ravensburger.
A trent'anni avevo smesso di farmi castelli in aria e mi ero concentrato sulla concretezza. Una fortezza medioevale semplice avrebbe fatto al caso mio e sarebbe bastata a ottenere il mio obiettivo. Magari un castello situato in cima a una montagna, con il fossato profondo, coccodrilli affamati nell'acqua gelata, arcieri a difesa con frecce e olio bollente da versare senza pietà su chiunque osasse tentare un'invasione. Lo volevo dotato di un enorme trono d'oro, lunghi tappeti rossi in tutte le stanze, un bacchetto sempre imbandito per sfamare ogni mio sfizio, cortigiane pronte a soddisfare ogni mio vizio, paggi e giullari di corte istruiti a intrattenermi a ogni mio gesto. Immaginavo dunque un palazzo dove potessi essere il re indiscusso, il monarca incontrastato e adorato. A ripensarci non avevo per niente smesso di fare castelli in aria.
A trentacinque anni ormai giocavo con i castelli della Duplo e della Lego, completamente assoggettato a un despota a quattro zampe col ciuccio in bocca che ordinava omogeneizzati al pollo insipido e cambio di pannolino ogni ora. Tra un sonnellino e l'altro sul divano, nei rari momenti di calma, mi accontentavo di una torre di quel castello che tanto avevo idealizzato solo qualche anno prima. Anche le rovine andavano bene, a essere sinceri. Delle rovine ben in vista, curate e che trasmettessero il ricordo di un passato fasto e glorioso. Col passare degli anni, però, la rovina si era ricoperta di edere e di erbacce e persino io facevo fatica a trovarla tra gli arbusti e la terra bruciata.
E alla fine arriviamo al giorno d'oggi. A quarant'anni sono ormai costretto a modellare un castello di sabbia. Le torrette, le mura di cinta ben levigate, il fossato, gli ingressi con ponte levatoio e le bandierine sulle guglie sono presenti come da manuale delle giovani marmotte. La costruzione è bella ma troppo in balia del vento delle critiche e della marea dei miei umori.
In fondo, quindi, resto solo con un mucchio di sabbia in mano. Non mi rimane altro. Questo mi fa paura. Provo a proteggerla dagli schizzi d'acqua del mare e della pioggia per non farla diventare fango. Stringo forte ma più la schiaccio tra i palmi delle mani e più mi sfugge tra le dita.
Alla fine capisco. Credo di sapere quello che devo fare. Lascio che il vento se la porti via e osservo la sua danza nel vento. Ammiro il suo balletto infinito tra la sabbia dorata e il cielo blu nella speranza di poter continuare a sognare ancora per un po'.
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