mercoledì 26 giugno 2024

ITALIENAREN - Le tre porte

Oggi è il giorno fatidico. Sapevo che sarebbe arrivato. Avrei tanto voluto evitarlo ma non è stato proprio possibile.
Scendo dal mio cavallo, lo accarezzo e gli sussurro parole dolci di ringraziamento. Poi gli do una pacca sul dorso e lo lascio andare. Mi ha dato tanto ed è ora di lasciarlo libero. Questa parte del tragitto la devo fare da solo. Lui non può seguirmi in questa nuova sfida.
Mi sistemo l’armatura, inspiro profondamente e faccio il primo passo in avanti. Subito vengo bloccato dal primo ostacolo. È un portone enorme che sbarra la mia strada. Alzo gli occhi al cielo e a fatica ne vedo la fine. Ansimo e il cuore mi batte forte. Non serve a niente spostarmi a destra e a sinistra perché non c’è modo di aggirarlo. Il portone di bronzo mi toglie il fiato mi oscura la vista. Intarsiati come bassirilievi noto delle scritte e dei disegni sulla superficie. Il più grande che capeggia in alto recita in lettere runiche “Arbetsförmedlingen”. All’inizio non ne colgo il significato ma dopo aver fatto un passo indietro e averlo osservato da un'altra prospettiva capisco quello che devo fare. L’unico modo per superarlo è risolvere gli enigmi proposti dal portone. Interpreto i segni e schiacciando dei bottoni indico la mia età, le mie esperienze nelle precedenti battaglie, il mio livello di conoscenza e di competenze come guerriero della mente. Lo chiamano riassunto dei propri Combattimenti Virtuosi, abbreviato in CV. Ricontrollo tutto con attenzione e tiro una leva. L’ingranaggio si mette in moto e il portone di bronzo comincia a muoversi. Si sta aprendo e s’intravede uno spiraglio, una fessura di luce. Il sorriso però dura poco sulle mie labbra perché il suono cupo del portone che si blocca mi lascia smarrito. Cosa avrò scordato? Ho dimenticato di controllare tutte le parti delle incisioni, anche quelle più piccole che sembravano solo degli sfregi eseguiti malamente dai miei predecessori frustrati con dei coltellini da quattro soldi. Le scritte mi chiedono di mettermi subito all’opera e di indicare il mio livello di conoscenza e di competenze, le mie esperienze nelle precedenti battaglie e la mia età… esattamente gli stessi Combattimenti Virtuosi (CV) di prima ma in un altro ordine. Oh mio Odino! Alzo gli occhi al cielo e sbuffo. Provo a spingere il portone ma non si muove di un centimetro, così, con le dita delle mani, cerco i tasti giusti e alla fine, grazie al Valhalla, il portone si apre del tutto.
Non posso però ancora andare avanti perché la rete di ragnatele mi avvolge e mi rende difficile il passaggio. Per liberarmene devo anche incidere su tavolette di creta i miei piani futuri riguardanti le prossime battaglie. Una pergamena che mi viene consegnata dal sommo emissario reale Minasidor fornisce esempi di elementi da conservare per provare che io abbia veramente partecipato a quelle lotte, tipo gli elmetti degli avversari, il mio scudo scalfito dai colpi oppure tracce di sangue delle vittime sulla mia spada.
Appena concluso il giuramento sui miei propositi davanti al trono reale m’imbatto in un nuovo ostacolo. Un nuovo portone, altrettanto grande e possente come il primo, ma fatto d’argento. Questa volta non perdo tempo e provo subito a interpretare i disegni e le indicazioni incise. Per oltrepassare questo portone dovrò procurarmi una spada speciale. La maestosa spada di acciaio inossidabile dal nome altisonante, Arbetsgivareintyget. Una spada forgiata nel vulcano del mio ultimo anno di guerriglia. Una spada con le tacche dettagliate di ogni ora, giorno e mese di duro sforzo sul campo di combattimento. Una volta procurata la grande portatrice di gloria dovrò infilarla nella fessura del cancello d’argento e spingere con tutte le mie forze. Solo allora la grande scritta dell’Akassa s’infuocherà illuminando a giorno la notte e aprirà le porte alla mia sopravvivenza. Gli arcieri che vigilano l’ingresso di Akassa però mi terranno sempre sotto tiro e non mi permetteranno di sgarrare. Vorranno sapere tutto quello che faccio, settimana per settimana, senza sosta e senza errori. Pena il taglio delle risorse e probabilmente di specifiche parti del corpo.
Potrei proseguire il mio viaggio ma lì vicino, questa volta un po’ defilato, c’è un terzo portone. Più piccolo ma più prezioso, fatto d’oro e con incisioni ancora più complicate da interpretare. Non tutti sanno della sua esistenza e pochi sfruttano le conoscenze dei druidi che vivono oltre il passaggio del portentoso Fackförbundet. Una volta avuto accesso alle stanze segrete, uno stregone Folksam potrà offrirmi l’elisir Inkomstförsäkringen, che potrà darmi fino all’ottanta per cento delle mie energie vitali in caso di ferite durante la mia permanenza nell’Arbetslöshet.
Non è stato facile oltrepassare questi tre maledetti portoni. Il primo mi è costato un po’ del mio orgoglio, gli ultimi due mi sono costati energie mentali per risolvere i loro enigmi e anche sangue, sudore e tributi in monete d’oro al re durante i miei anni di battaglie. Ne è però valsa la pena. Ora sono finalmente libero di cercare nuove armature in questi sterminati campi di grano ed erba alta, dove migliaia di combattenti come me hanno lottato, cercato la gloria, perso e poi ritrovato la loro dignità. Sono finalmente arrivato al grande Välfärd norreno.
 
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venerdì 14 giugno 2024

ITALIENAREN - L’infinito

Sto passeggiando sul Västerbron, uno dei ponti più belli di Stoccolma, dal quale si può ammirare la città vecchia, il palazzo comunale e il quartiere Södermalm da un lato e il verde dei boschi del lago Mälaren dall’altro lato.
«Che cos’è l’infinito?»
È mio figlio di sei anni che mi fa distogliere lo sguardo dal panorama tirandomi per la maglietta. Domanda non facile ma la sua vocina è così dolce e curiosa per non provare a dare una risposta. Ci fermiamo un attimo nel punto più alto del ponte e lo invito a rivolgere lo sguardo a est.
Seguiamo un refolo di vento e in un attimo raggiungiamo le mille isolette dell’arcipelago di Stoccolma. Ci soffermiamo ad annusare l’odore della pece dei tanti pini silvestri e del legno umido di una sauna al bordo di un pontile. Ci crogioliamo al sole delle migliaia di prati verdi o degli scogli bagnati dall’acqua.
Andiamo oltre, in mare aperto dove l’orizzonte è blu per chilometri e chilometri. Ci lasciamo accarezzare dal vento che soffia aria di libertà. L’oceano si estende davanti ai nostri occhi e si fonde con l’azzurro del cielo.
Spicchiamo il volo con la testa tra le nuvole, sempre più in alto, sempre più lontano. Sfiliamo tra cirri, altocumuli, stratocumuli, nembostrati e tutti i possibili anagrammi e combinazioni di nuvole. Ci liberiamo verso la stratosfera, la mesosfera e via nell’esosfera.
Lo spazio sconfinato ci accoglie nella sua indifferenza per qualsiasi forma di vita lasciandoci a bocca aperta. Oltrepassiamo la Luna e ci proiettiamo verso gli altri pianeti del Sistema Solare, fiancheggiamo il sole e poi via lontano verso altri miliardi di stelle scintillanti e affascinanti corpi celesti. Il buio, il vuoto e il silenzio ci inglobano verso mete lontane mai raggiunte dall’occhio e dalla conoscenza umana. Siamo ormai nello spazio inesplorato dell’universo, dove solo l’astrofisica si è spinta con teorie e speculazioni scientifiche.
Solo in quel momento mi giro a osservare lo sguardo di mio figlio. È stupefatto, incredulo e pieno di meraviglia. Sorrido assieme a lui. In un battito di ciglia siamo di nuovo sul Västerbron, il ponte ad arco d’acciaio più lungo della Svezia.
«Ecco cos’è l’infinito.»
Mio figlio mi guarda dritto negli occhi. Sembra stia ancora processando tutte le informazioni e le sensazioni che ha sperimentato. Prima accenna un sorriso, poi aggrotta la fronte.
«Non ho capito, papà!»
Alzo gli occhi al cielo, ma non per contemplare di nuovo l’universo. Mi sa che devo fermarmi prima del viaggio intergalattico, prima degli strati del cielo, prima dell’acque del mare e delle terre lontane. Devo fermarmi in città, più di preciso a est del ponte, a Gamla Stan.
«Caro figliolo, l’infinito è… è… lo stato dei lavori nel cantiere di Slussen. Ecco cos’è l’infinito!»
Lui annuisce e sorride. Non ha mai visto il vecchio Slussen e si chiede se un giorno vedrà quello nuovo. Credo che ora abbia capito cosa significa infinito.
 
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mercoledì 5 giugno 2024

ITALIENAREN – Dica trettitre

Ho i brividi e probabilmente ho di nuovo la febbre. Addosso ho una stanchezza indescrivibile. Mi gira la testa. Faccio fatica a respirare. Ho il naso chiuso e soprattutto tossisco come la doppia cassa di un batterista Heavy Metal.
Nonostante tutto questo sono dovuto uscire di casa e venire qui, dal medico di base.
Passo dall’accettazione e mi metto seduto nella sala d’attesa. Mi guardo attorno e spero sempre che tutti i pazienti presenti stiano aspettando un altro medico, non il mio. Mi sbaglio. Per fortuna però che in Svezia non bisogna chiedere chi è l’ultimo in fila e non bisogna stare allerta che qualche vecchio ti freghi il posto perché la segretaria in accettazione registra l’ordine di visita sul computer e da lì non c’è scampo.
Non mi resta altro che sedermi. Non c’è molto per distrarsi, se non alcuni giochini e libri per bambini o riviste scientifiche vecchie di qualche anno. La scelta è semplice e mi lancio prima che possa farlo qualcun altro su “Pierino incontra i dinosauri”.
Non passa molto tempo durante la mia stimolante lettura che mi scappa qualche colpo di tosse simile a un rantolo di un malato terminale. Per un attimo ho la sensazione che la musichetta jazz di sottofondo si sia fermata. Mi sento lo sguardo degli altri addosso come in un saloon del Far West. Mi scannerizzano da testa a piedi e mormorano al vicino di posto una diagnosi con prognosi riservata. Mi fanno sentire un appestato e a guardar bene, il libro che tengo in mano sembra ormai “L’amore ai tempi del colera” più che un libro per bambini. Quelli al mio fianco tossiscono a loro volta, non per un mal di gola ma per mascherare il rumore della sedia che si sposta per allontanarsi da me. Mi sento una goccia di detersivo in una teglia sporca di grasso di maiale in uno spot della Finish: io a un lato della stanza e gli altri a tre metri di distanza.
Il tempo non passa più ma alla fine il medico mi dà un colpetto sulla spalla e mi sveglia. È il mio turno. Spiego i miei sintomi e racconto come mi sento. Esagero. È sempre la mossa migliore per essere ascoltati seriamente. Per accentuare ulteriormente i miei problemi uso la pantomima e le doti nascoste di teatrante. La dottoressa non batte ciglio e sfoggia il classico approccio della medicina svedese inciso sul bastone di Asclepio e mantra di ogni libro di testo universitario: “Che cosa pensi di avere?”
Ma come, dottoressa? Questo me lo deve dire lei. Lei ha una laurea in medicina (speriamo), non io. Lei ha ascoltato i miei sintomi, io li ho solo raccontanti. Lei deve fare la diagnosi, io seguire la terapia. Lei deve salvarmi la vita, io la devo vivere. Vivere male per poi dover tornare da lei per un altro malanno, in modo tale che il sistema sanitario possa funzionare.
Naturalmente non dico niente di tutto ciò e biascico qualche diagnosi di circostanza per riempire i silenzi e l’imbarazzo. Lei mi guarda con gli occhi sbarrati e dice che potrei avere ragione. A quanto pare anch’io ho una laurea in medicina. Ormai sono abituato a questo iter e non mi stupisco più di tanto. Passiamo quindi ad altri test.
Incontro l’infermiera per un prelievo. Niente di strano. Usa uno strumento che sembra una spillatrice e mi fa un buchino sul dito. Ero tranquillo ma quando mi accorgo della fontanella di sangue che sgorga dalla pelle perdo un attimo il mio aplomb da vero uomo duro, da macho italiano tutto o da vichingo adottato e mi scappa una smorfia. L’infermiera sorride: aveva già capito che quella dell’uomo tutto d’un pezzo era solo una maschera. Probabilmente mi hanno tradito i calzini di Topolino. Per fortuna il prelievo è sufficiente e posso tirare un sospiro di sollievo. I miei livelli di CRP – la proteina del fegato C-reattiva – sono alti, segno di un processo infiammatorio in corso.
Torno dal medico con un tassello del puzzle in più. Stranamente non mi chiede come penso che siano andati i risultati dell’analisi del sangue perché è già stata informata dalla collega. Manca un ultimo dato da raccogliere: la manetta per il dito, anche chiamato saturimetro. Fortunatamente i miei livelli di ossigenazione del sangue sono normali e non devo chiedere aiuto ai globuli rossi di “Esplorando il corpo umano” di darmi un paio di pallette trasparenti dalla loro schiena.
Alla fine la dottoressa ha tutto quello che le serve per… rullo di tamburi… per diagnosticarmi una polmonite. Probabilmente. Forse. Presumibilmente. Eh già, perché in Svezia spesso non fanno lastre e quindi non c’è la certezza. Io comunque sono un tipo semplice e mi accontento.
Per la terapia giunge anche la sorpresa finale: mi prescrivono degli antibiotici. Evento rarissimo nei poliambulatori quasi quanto vedere una banca abbassare i tassi d’interessi in questo periodo storico. Dovrei essere felice della cura ricevuta ma mi prende un po’ d’ansia. Visto che ottenere una ricetta per gli antibiotici in Svezia succede solo nei casi più gravi e quasi come ultima spiaggia, mi sembra tanto di aver ricevuto un biglietto da visita di un’agenzia di pompe funebri. La dottoressa mi rassicura che andrà tutto bene e che nel giro di una o due settimane dovrei stare bene. Poi mi caccia fuori. Avanti il prossimo.
Prima di chiudere la porta mi comunica con un sorriso a trentatrè denti che ha mandato un’impegnativa per una lastra toracica. Incredibile, ho trovato un poliambulatorio che fa le cose per bene. Oggi deve essere il mio giorno speciale. Deve essere un giorno fortunato. Va bene, non così fortunato: ho una polmonite. Posso però almeno cercare di cavalcare questa piccola dose di buona sorte e prima di passare in farmacia sarà meglio fare un salto dal tabaccaio e giocare al Lotto.
 
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